venerdì 23 aprile 2010

«È finito e ora comprerò tutti i suoi uomini» - Giovanni Palumbo


In un attimo si è consumato uno scontro durato quasi quindici anni. Perchè Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini in realtà si sono sopportati, ma mai amati. In un attimo si sono detti apertamente tutto quello che è rimasto sempre chiuso nelle segrete stanze. Lo “show down” di ieri è stato voluto da entrambi.

È stato un “match” senza precedenti: l’arena è l’Auditorium della Conciliazione (il nome è tutto un programma) di Roma, i due pugili se le sono date di santa ragione. Entrambi ieri portavano i segni sul volto, con quegli scatti d’ira, il dito puntato, il continuo gesticolare, la voce del premier che risuona per la sala, la replica stizzita del presidente della Camera. Il Cavaliere non ha voluto ascoltare nessuna colomba questa volta, Gianni Letta oggi non è neanche venuto: «Io non mi faccio ricattare da nessuno, rispondo al mio popolo non al Palazzo. La verità - si è sfogato Berlusconi - è che Fini ha già un progetto per il futuro ed è venuto qui solo per ricordarmelo…».

Ma il prossimo campo di battaglia sarà proprio l’Aula e l’inquilino di Montecitorio ha promesso guerriglia, anzi “scintille”. La strategia della terza carica dello Stato è evidente: giocherà a fare la vittima, «il cerino in mano ce l’ha Berlusconi, sarà lui a bruciarsi», ha scommesso con i suoi. Con la reazione fredda di chi ha già studiato la contromossa come risposta a un documento sprezzante: «Non gli faremo passare nulla in Parlamento, ormai è finito e non lo sa ancora».

Berlusconi, però, è disposto a tutto. Anche a pilotare una crisi di governo e sfidare il presidente della Repubblica per andare alle elezioni anticipate. Ieri sera ha chiamato al telefono il fidato leader della Lega nord, Umberto Bossi, per raccontargli lo scontro: «Umberto - gli avrebbe detto al telefono -, Fini sembrava un pugile suonato. Nessuno lo capiva più, neanche lui sapeva cosa volesse. Alla fine lo seguiranno quattro gatti… ».

Al momento Berlusconi ha raggiunto il risultato che sperava: da oggi avrà la possibilità di “licenziare” il presidente della Camera e ha già fatto notare ai suoi che Fini ha solo il 6% del partito, che «adesso non può più rappresentare». Il primo obiettivo è «togliere la tessera» al cofondatore del Pdl, alla prima occasione lui e i suoi uomini «sono fuori». Le munizioni sono già pronte per essere sparate, l’organismo dei Probiviri porterà di fronte al plotone d’esecuzione anche la terza carica dello Stato. «Se sbaglia paga, dovrà fare il suo gruppo e sarà finito». Nel partito di via dell’Umiltà si sono fatti i conti, con la sicurezza che «c’è un margine certo per poter governare». E qualcuno già sta scrivendo una mozione di sfiducia per Italo Bocchino, il più fedele tra i fedelissimi di Fini, da preparare e presentare in queste stesse ore. Questione di tempo.

Berlusconi non esclude di sentirsi ostaggio, di dover affrontare una crisi di maggioranza ma – questa la premessa ripetuta in questi giorni ai suoi interlocutori – «non me ne importa più, la cosa più importante – ha ripetuto – era buttare fuori Fini e ci siamo ancora riusciti». Di tutt’altra opinione il presidente della Camera che, al di là del progetto futuro del Partito della Nazione con Casini, Montezemolo e una parte del Pd, ormai ha nel mirino solo un traguardo: «Voglio la fine di Berlusconi».

http://ilsecoloxix.ilsole24ore.com/p/italia/2010/04/23/AMJU7KdD-finito_uomini_comprero.shtml


Il 25 aprile e la Costituzione tradita


In prossimità del 25 aprile mi piacerebbe sollecitare un’ampia riflessione prendendo spunto dal tema della Costituzione, visto che il momento attuale ci consegna un quadro politico di segno neoconsociativo e un clima di feroce ostilità e di seria minaccia per la democrazia italica, da sempre fragile e mutilata, sancita solo sulla Carta Costituzionale.
Personalmente sono convinto che la Costituzione del 1948 non abbia bisogno di lifting o rifacimenti, non debba essere aggiornata o revisionata, e tantomeno abolita, come insinuano i suoi detrattori, ma deve essere semplicemente e finalmente applicata. Solo concretizzando i dettami costituzionali sarà possibile far rinascere il Paese, sarà possibile promuovere un’effettiva emancipazione in senso espansivo e progressista della società in cui viviamo, liberando le straordinarie potenzialità civili e culturali, etiche e spirituali in essa presenti, ma anche le forze produttive imprigionate ed umiliate nell’attuale fase storica di regressione e di imbarbarimento politico, morale e culturale.
Tuttavia, se devo essere sincero, sono piuttosto perplesso e pessimista. In primo luogo perché temo che la nostra bellissima Costituzione sia in qualche misura eversiva e inapplicabile nell’attuale ordinamento economico, politico e sociale, segnato da profonde e insanabili contraddizioni, che si possono eliminare solo abbattendo e superando il sistema capitalistico che le ha generate e che contribuisce a perpetuarle.
In secondo luogo, con il quadro parlamentare e governativo uscito rafforzato dalle recenti elezioni regionali, francamente non riesco a far finta di nulla e non posso non nutrire seri dubbi sulle effettive possibilità di applicare finalmente il dettato costituzionale. Invece, mi pare più facile immaginare e prevedere un’iniziativa per stravolgere il testo costituzionale mediante una sorta di “grande inciucio” , ossia un’ampia intesa parlamentare di stampo neoconsociativo sul tema delle cosiddette “riforme costituzionali” (ma sarebbe più corretto definirle “controriforme” ), tanto attese e invocate non solo dalla coalizione di centro-destra guidata da Silvio Berlusconi.
Occorre ricordare la matrice sovversiva e criminale della banda filo-berlusconiana giunta stabilmente al governo, che sta sfasciando le istituzioni, i diritti e le garanzie costituzionali. Il pericolo costituito dal nuovo fascismo, dalle forze che governano l'Italia, è persino più grave del passato, considerando il mix di populismo, razzismo e affarismo sfrenato che ispira il blocco politico e sociale che fa capo al bandito di Arcore.
Dunque, in Italia incombe una vera emergenza democratica. Persino in Parlamento è stata eliminata ogni forma di dissenso e libera opposizione. Tranne forse Di Pietro, resta in campo la finta ed evanescente "opposizione" di D’Alema, Bersani e soci, dietro cui si annida una pratica neoconsociativa. Suggerirei di riflettere su quanto scriveva Antonio Gramsci a proposito del “sovversivismo delle classi dirigenti” . Inoltre, 35 anni fa Pasolini aveva preconizzato l'avvento di un nuovo fascismo, a condizione che questo si auto-proclami “democratico” e si ripari sotto le mentite spoglie dell’ "antifascismo" . Mi pare che ciò rispecchi esattamente il quadro storico in cui si è compiuta la “ metamorfosi” della destra neofascista (ex MSI) per accedere al governo del Paese, sdoganata e traghettata verso il PDL dal populismo berlusconiano. Ma la citazione di Pasolini si adatta anche per inquadrare la “metamorfosi” degli eredi del PCI, in primo luogo il PD.
Il sottoscritto si schiera tra quanti sono convinti che non esista alcuna differenza tra PD e PDL, eccetto la "L" in più nella sigla del partito di plastica di Berlusconi. Per il resto conviene stendere un velo pietoso. Non a caso fu coniata la formula "Veltrusconismo" per designare la funzionalità di entrambi (PD e PDL) ad un progetto neogolpista attuato in forme apparentemente soffici e indolori, un disegno di stabilizzazione neocentrista e neoconservatrice che fa capo ai due soggetti "protagonisti e antagonisti" della scena politica nazionale, destinati a governare insieme la fase della “Terza Repubblica” .
Tuttavia, al di là di queste note pessimistiche, faccio prevalere ciò che Gramsci definiva “l’ottimismo della volontà” . Per cui, non solo in veste di cittadino, ma altresì di insegnante, sono interessato a trasmettere alle nuove generazioni i valori ideali insiti nella Costituzione, di cui bisogna far conoscere ed apprezzare la bellezza poetica. Non a caso, alla stesura del testo costituzionale parteciparono le migliori menti politiche e letterarie dell’epoca: su tutti cito la straordinaria figura di Piero Calamandrei.
La Costituzione è la madre della democrazia italiana, indubbiamente scalcagnata e malandata per varie ragioni storiche e politiche. La Costituzione ne incarna idealmente il ricco patrimonio valoriale, perciò leggerla è il miglior modo per festeggiarla e proporla ai giovani, ed è forse il miglior modo per educare ed ispirare le nuove generazioni.
Pertanto, approfitto per denunciare una grave mistificazione ideologica che si perpetua da anni nel nostro sciagurato Paese. Quella di occultare le origini della democrazia italiana, benché istituita solo sulla carta. E' opportuno ricordare che la Costituzione del 1948 (e, con essa, la democrazia, sebbene solo formale) affonda le sue radici storiche e ideali nella Resistenza contro l’occupazione nazi-fascista imposta durante la seconda guerra mondiale. Dalle ceneri della monarchia sabauda e della dittatura fascista di Mussolini è nata la Costituzione ed è risorta la civiltà democratica del popolo italiano.
Il 25 aprile è senza dubbio una festa partigiana, cioè di parte, e non può essere diversamente. Pretendere che il 25 aprile diventi una "festa di tutti" , una sorta di ricorrenza “neutrale” , equivale a snaturare e azzerare il valore simbolico e politico di quella che è la Festa per antonomasia della Resistenza partigiana e antifascista. Infatti, il 25 aprile si festeggia, ovvero si dovrebbe rievocare e, in qualche misura, rinnovare la vittoria della Resistenza popolare partigiana contro l'invasione nazista e contro i fascisti che flagellarono l’Italia per un tragico ventennio, conducendo il Paese verso la rovina, costringendo il nostro popolo alla catastrofe della seconda guerra mondiale, in cui intere generazioni di giovani proletari furono sfruttati come carne da macello per arricchire e ingrassare una ristretta minoranza di affaristi, speculatori e guerrafondai senza scrupoli.
Da quella Liberazione nacque la Costituzione del 1948, scritta non tanto con la penna, quanto con il sangue di tante donne e uomini che sacrificarono la propria vita per la libertà delle generazioni successive: donne e uomini chiamati "partigiani" proprio perché schierati e militanti da una parte precisa, contro il fascismo, l'imperialismo e la guerra.
Il carattere apertamente antifascista e partigiano, egualitario, democratico e pluralista, pacifista e internazionalista della Costituzione, la rende un testo all’avanguardia, addirittura rivoluzionario sul piano internazionale, ma è anche il motivo principale per cui essa è invisa, temuta e osteggiata nei settori più oltranzisti e reazionari della società italiana, ed è la medesima ragione per cui essa è negata e disattesa nella realtà concreta. E’ superfluo elencare gli articoli della Costituzione reiteratamente violati e traditi, a cominciare dall’art. 11, in cui emerge lo spirito pacifista e internazionalista della Costituzione del 1948: “l’Italia ripudia la guerra (…) ” , è l’incipit dell'articolo.
Questa è una preziosa lezione della storia che oggi, in tempi bui, dominati dall'indifferenza, dal fatalismo, dall'apatia e antipatia politica, si tenta di mettere in discussione e addirittura negare alle giovani generazioni. Questo "fatalismo" , assai diffuso tra la gente, è il peggior nemico della gente stessa, in quanto induce a pensare che nulla possa cambiare e tutto sia già deciso da una sorta di destino superiore, una forza trascendente contro cui i miserabili sarebbero impotenti, ma così non è.
In materia di fatalismo, indifferenza e apatia politica, non si può non citare un famoso pezzo giovanile di Antonio Gramsci, "Odio gli indifferenti" , in cui il grande comunista sardo scriveva che vivere vuol dire "Essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L'indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti. L'indifferenza è il peso morto della storia (...) Perciò odio chi non parteggia, odio gli indifferenti" . Questo è il miglior messaggio che si possa trasmettere ai giovani, una sorta di inno che esprime in forma lirica e nel contempo in modo inequivocabile, l'amore per la vita e la libertà, tradotte in termini di partecipazione attiva alle decisioni che riguardano il destino della collettività umana.
Sempre in tema di assenteismo e non partecipazione alla vita politica, rammento un celebre brano di Bertolt Brecht: "Il peggior analfabeta è l'analfabeta politico" . Non c'è nulla di più vero e più saggio. Brecht sostiene che l'analfabeta politico "non sa che il costo della vita, il prezzo dei fagioli, del pesce, della farina, dell'affitto, delle scarpe e delle medicine dipendono dalle decisioni politiche. L'analfabeta politico è talmente asino che si inorgoglisce, petto in fuori, nel dire che odia la politica. Non sa, l'imbecille, che dalla sua ignoranza politica nasce la prostituta, il minore abbandonato, il rapinatore e il peggiore di tutti i banditi, che è il politico disonesto, leccapiedi delle imprese nazionali e multinazionali." . Ed io vorrei aggiungere: "delle imprese locali" .
Nella circostanza odierna mi preme rilanciare l’idea della Politica in quanto espressione della volontà popolare e della libera creatività dell’animo umano, che si concretizza nel confronto interpersonale, nella pacifica convivenza e nella dialettica democratica e pluralista tra persone libere ed uguali, ovviamente diverse sul versante spirituale e culturale. Inoltre, la Politica dovrebbe essere un mezzo di aggregazione e partecipazione sociale, uno strumento diretto e corale per intervenire concretamente sui processi decisionali che investono l’intera comunità, una modalità di socializzazione tra gli individui, la più elevata e raffinata forma di socialità umana. Del resto, l’antica etimologia del termine, dal greco “Polis” (città), indica il senso della più nobile attività dell’uomo, denota la somma manifestazione delle potenzialità e delle prerogative attitudinali dell’essere umano in quanto “animale politico” . Tale capacità dell’uomo si estrinseca nella Politica come organizzazione dell'autogoverno della Città.
Il senso originario della Politica si è svuotato ed è degenerato nella più ignobile “professione” , nell’esercizio del potere fine a se stesso, riservato agli “addetti ai lavori” , ai carrieristi e affaristi della politica. Quella che un tempo era una “nobile arte” , la suprema occupazione dell’uomo, oggi è percepita e praticata come mezzo per impadronirsi della città e delle sue risorse territoriali, una squallida carriera per mettere le proprie luride mani sulle ricchezze del bilancio economico comunale. Un bene che, invece, dovrebbe appartenere a tutti ed essere gestito dalla comunità dei cittadini.
La nuova Resistenza è l'opposizione a questo stato di cose, è la rivolta contro una visione e una pratica del potere come appannaggio di un’esigua minoranza di privilegiati, ossia i padroni del Palazzo. Tale situazione va respinta e combattuta con fermezza, perché il soggetto che si organizza in comitato o partito politico, convenzionalmente definito “ceto politico dirigente” , non appena conquista il privilegio derivante dal potere esclusivo sulla Città, si disinteressa del bene comune per occuparsi dei loschi affari della casta, o dei singoli individui. Questo stato di corruzione della politica, che non coincide con un’esperienza di autogoverno dei cittadini, ma risponde agli interessi egoistici e corporativi di una cerchia elitaria e circoscritta, è la causa principale che genera un sentimento di indifferenza e disaffezione dei cittadini verso la politica, cioè il governo della Polis, in quanto rappresentativo degli interessi privati di pochi affaristi, nella misura in cui tali vicende sono recepite come estranee agli interessi della gente.
Pertanto, occorre rilanciare l’idea dell’autogestione e dell’autogoverno dei cittadini, sperimentando nelle comunità locali l’idea della politica come rifiuto radicale del potere scisso dalla collettività, come partecipazione diretta della popolazione ai processi decisionali, ai canali di controllo e gestione del bilancio economico comunale.
L’utopia della democrazia diretta non è solo possibile e praticabile localmente, ma è necessaria di fronte all’avvento di un fenomeno autoritario globale che minaccia quel poco di sovranità democratica vigente in alcuni Stati nazionali. I quali sono soppiantati da organismi economici sovranazionali che dirigono le dinamiche dell’economia e dei suoi assetti bancari e finanziari. Questo fenomeno di globo-colonizzazione ha favorito l’ascesa dei gruppi finanziari più forti e delle corporation multinazionali, con danni irreparabili per i diritti civili e sindacali, le libertà democratiche, i redditi dei lavoratori del sistema produttivo, la cui condizione si fa sempre più precaria e ricattabile.
21/04/2010 LUCIO GAROFALO redazione@varesenews.it

Milano: 'Appalti truccati alle case popolari' - Davide Milosa


23 aprile 2010

Sos racket presenta un esposto contro i vertici dell'Aler: "Tangenti ai dirigenti e gare manipolate per favorire gli amici di un consigliere comunale". L'azienda regionale smentisce e minaccia denuncie. Fibrillazione a palazzo Marino.

Tangenti alle case popolari. Meglio, mazzette del 5% su ogni appalto vinto. Denaro che gli imprenditori avrebbero pagato ad alcuni dirigenti di
Aler, l’azienda regionale che gestisce le case popolari di Milano. E ancora appalti truccati per il verde da distribuire a imprese amiche. Questo è il contenuto di un esposto depositato alla Procura di Milano il 19 marzo scorso e preso in carico dal procuratore aggiuntoAlberto Nobili che lo ha passato, per competenza, ai magistrati che si occupano di reati nella pubblica amministrazione. Il documento è firmato da Frediano Manzi, presidente dell’associazione Sos Racket Usura.

L’annuncio è stato dato dallo stesso Manzi a margine dell’incontro organizzato dalla sua associazione per denunciare l’ennesima amnesia del sindaco
Letizia Moratti. In poche parole, ha sottolineato più volte Manzi “il sindaco si è rifiutato di darci la sede”. Sì, perché tra le altre cose, l’unica associazione che a Milano si occupa di combattere il racket della criminalità organizzata oggi non ha un luogo dove riunirsi.

In realtà, la notizia più importante è quella sull'
Aler ed è deflagrata come una bomba a palazzo Marino, sede del comune. Sì, perché nell’esposto si fanno i nomi del direttore generale dell'azienda delle case popolari, Domenico Ippolito e di quello del direttore gestionale Marco Osnato, consigliere comunale, uomo di punta delPdl milanese e parente del ministro della Difesa Ignazio La Russa.

Nel documento vengono riportate le affermazioni, ancora tutte da verificare, di un ingegnere che ha lavorato per l'
Aler per anni partecipando a bandi e gare d’appalto. “E’ prassi consolidata – sostiene il professionista – sin dal 1991 che le aziende che partecipano a bandi indetti dall’Aler paghino una tangente del valore del 5% dell’importo sull’appalto all’attuale direttore generale di Aler, Domenico Ippolito”. Lo stesso che avrebbe fatto da "collettore delle tangenti che presumibilmente distribuisce ad altri soggetti". Anche per questo, l’ingegnere consiglia di “verificare lo stato patrimoniale del direttore generale dell’Aler”. Dopodiché il documento entra nei particolari, facendo nomi e chiarendo le modalità di un’impresa, ad esempio, specializzata in pulizie "che ha sempre pagato il 5% di tangente a Ippolito". Non sembra finita, perché oltre alle mazzette ci sarebbero anche appalti disegnati ad hoc per favorire certe imprese. Tra queste una specializzata nello sgombero delle case occupate (rimozione di calcinacci e mobili). "Mi viene riferito – scrive Manzi - di un bando ad hoc creato appositamente per l’ unica azienda che da 20 anni si occupa degli sloggi degli occupanti abusivi, che addirittura non avendo concorrenti applica all’Aler il 40% in più del valore di mercato del suo servizio. Servizio che si vede rinnovare puntualmente l’ assegnazione del bando di gara".

Ma, per
Sos Racket, ci sono anche i bandi spezzatino ideati per favorire una stretta cerchia di amici. Sul punto si cita l’esempio di un appalto da 7,8 milioni di euro per la gestione del verde nei palazzi Aler della provincia di Milano. Appalto che sarebbe "stato assegnato ad amministratori evitando di fatto di indire un bando pubblico, commettendo il reato di abuso di ufficio per frazionamento gara di appalto". Documento firmato oltre che da Osnato e Ippolito, anche da un geometra. E questo, si legge nell’esposto, "nonostante ci fosse parere negativo da parte del capo ufficio appalti avv. Irene Comizzoli". In particolare, si tratterebbe di diversi lotti da 240.000 euro l’uno. Tutti finiti “agli amici di Osnato” che si sarebbero aggiudicati i vari lotti mascherandosi dietro a diverse imprese sempre riconducibili a loro. In serata Aler ha diffuso un comunicato per "diffidare il signor Manzi a rilasciare dichiarazioni lesive degli interessi di Aler, riservandosi di denunciare davanti alle autorità competenti questi episodi".

In realtà, l’incontro con il presidente dell’associazione
Sos racket usura doveva rappresentare l’ennesima denuncia alla distrazione della giunta Moratti. E in effetti così è stato. L’appuntamento era in piazzetta Capuana nel cuore di Quarto Oggiaro, quartiere ad alto tasso di criminalità ricavato alla periferia nord della città. Un tavolino, due sedie e un telefono senza fili. Allestimento simbolico, ma fino a un certo punto. Perché, al di là, di tutto e della sede che ancora non c’è, il senso di questa iniziativa era dimostrare la presenza sul territorio. Presenza attiva, tanto che sempre oggi, Manzi ha presentato un questionario di undici domande da far girare nei palazzi popolari di Quarto Oggiaro e di altre tre zone della città, tra cui via Padova.

Al centro la necessità di smascherare il
racket degli alloggi abusivi, quasi sempre gestito da appartamenti alla criminalità organizzata. Tra i sostenitori dell’iniziativa anche l’attore sotto scorta Giulio Cavalli, appena eletto consigliere regionale nelle fila dell'Idv, che dal prossimo giovedì accompagnerà Manzi casa per casa a distribuire il questionario.

Da
il Fatto Quotidiano del 23 aprile

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2477948&yy=2010&mm=04&dd=23&title=milano_appalti_truccati_alle_c



Si sfascia il partito del padrone - Luca Telese

23 aprile 2010
Berlusconi va all'attacco e prova l'affondo, ma la direzione si trasforma in rissa mediatica

"Perché, che cosa fai? Mi cacci? Eh?". E allora
Gianfranco Fini sorride ironico, fa il gesto della mano a pendolo, via-via e di nuovo: "Che fai, mi cacci?". Poi si alza in piedi, avanza versoSilvio Berlusconi, punta il dito e gli ripete la frase a un metro di distanza rovinandogli il finale del discorso. Una delle immagini che resteranno di questa giornata, assieme alle mani impotenti del premier che fanno stringi-stringi per chiedere a Verdini di mettere fine all’intervento del rivale. Insieme a quel moto di rabbia che lo porta sul palco subito dopo. Insieme alle parole a pesce, gridate senza audio dal microfono non collegato, mentre parla il suo grande nemico. Ai materassi. Alla fine del discorso di Fini c’è una stretta di mano algida, tra i due, senza guardarsi in faccia. Poi Berlusconi sale sul palco per replicare. E’ furibondo, nero, gli occhi sono due fessure, sembrano pesti. Ma al contrario di Fini non ha una scaletta pronta. Parla a braccio, e finisce il suo discorso nel battibecco: "Un presidente della Camera – grida – non deve fare dichiarazioni politiche! Se le vuoi fare devi lasciare la carica, ti accoglieremo a braccia aperte, ma ti devi dimettere!".

Leso format. Alla fine, il gesto che Berlusconi non perdona all’ex leader di An è il reato di lesa maestà. Anzi, di più: leso format. Ovvero il peggio che potesse capitare a un cultore del rito catodico come Silvio Berlusconi: allestire una coreografia studiata nei minimi dettagli, una liturgia mediatica, una scaletta precisa, e vedersela stravolta da un imprevisto. Prepararsi la scena come protagonista, sul podio dell’Auditorium di via della Conciliazione, trasformato ancora una volta in settelevisivo dal fido regista Giuseppe Sciacca (un maestro, quello della Corrida e dei congressi di Forza Italia) e ritrovarsi poi, invece, nel ruolo del co-protagonista, relegato nel controcampo delle inquadrature che facevano da contrappunto al discorso di Fini, avendo dietro alle spalle una tenda nera (quella alle spalle della presidenza) invece del fondale azzurrino. Lui seduto e livido; Fini in piedi, ironico. La scaletta predisposta dalpremier era questa: prima il suo saluto, poi l’intervento di tutti i ministri anti-finiani, persino qualche sottosegretario (come Alfredo Mantovano), quindi – come aveva detto lui stesso – "la parola ai co-fondatori del partito, Fini, Rotondi, Giovanardi". Orologio alla mano Fini avrebbe parlato non prima delle 16, unica voce dissonante nel coro. E Berlusconi avrebbe concluso.

Intervento imprevisto. Ma tutto il programma salta. Dalla sera prima il presidente della Camera fa sapere che non accetterà il ruolo di comparsa. La mattina il nodo non è sciolto. Al premier arrivano diversi messaggi: "Gianfranco non ci sta". Alle 11:50 Berlusconi guarda Fini, lo vede alzarsi. Forse pensa che stia per andare via. Allora improvvisa: “Gli chiediamo se vuole prendere la parola, siamo qui ad ascoltarlo...". Fini non se lo fa dire due volte. Sale sul podio: invece di dieci minuti parlerà un’ora. Una vera e propria relazione. La prima bordata arriva subito: "Anche nella regia, oggi sembra che ci sia l’atteggiamento un po’ puerile di chi vuole nascondere la polvere sotto il tappeto!". Poi le mozioni d’orgoglio: "Sono abituato a dire quello che penso...". Quindi la prima stoccata: "Vedi, Bondi! Sono stato oggetto di trattamenti mediatici, da colleghi, mi riferisco ai giornalisti, lautamente pagati da stretti familiari del presidente del Consiglio!".

Sulla sala cala il silenzio, il discorso di Fini si impenna: "Sono stato accusato di alto tradimento, oggetto di bastonate mediatiche, roghi, ipotesi di licenziamento...". Poi il cambio di passo che taglia il fiato ai membri della direzione. Si rivolge direttamente al premier, guardandolo: "Berlusconi te lo dico in faccia: il tradimento che è certamente poco dignitoso, viene da chi alle spalle dice il contrario di ciò che dice pubblicamente, raramente il tradimento è nella coscienza di chi si assume la responsabilità di quel che pensa in privato e in pubblico...". E qui il premier sbotta. La regia lo inquadra. Si agita. Non si sente cosa dice. Quando arriva l’audio la voce è strozzata: "...Non attribuire a me cose che non ho mai dettooo!". Il palco è diventato un ring, un corpo a corpo. Formalmente Fini ribadisce la fiducia al governo, tributa al premier i suoi meriti, ma allo stesso tempo compone il suo j’accuse spietato: "Al nord siamo diventati come la fotocopia della Lega!". Fini cita le mire di Bossi sulle banche, la rinuncia del Pdl ad abolire le province, i decreti sul federalismo, il fatto che "difendere il bambino del padre extracomunitario che perde il lavoro, cacciato dalle scuole è rispetto della dignità dell’uomo". Spara una raffica di domande retoriche: "E’ eretico dire che i medici non devono fare la spia?". Si può accettare che "in Lombardia ci siano solo professori lombardi, e in Veneto veneti?".

Processi cancellati. Il vero show-down è sul conflitto di interessi. Prima Fini attacca sulla proprietà de Il Giornale, poi sulla giustizia: "Difendere la legalità significa andar fieri degli arresti, ma anche non dare l’idea che la riforma della Giustizia non serve a creare sacche di privilegio...". La platea a questo punto fischia. Fini insiste: "Ricordi la nostra litigata sul processo breve? 600 mila processi cancellati dalla sera alla mattina!". Di nuovo Berlusconi grida, dalla presidenza: "Ma dai, Gianfrancoooo!": E lui, passando al chiamarsi per nome: "Silvio, è inutile che mostri insofferenza...". Il premier sale sul palco infuriato, contrattacca: "Il nostro partito è stato esposto al pubblico ludibrio con le presenze in televisione diBocchino, di Urso e Raisi!". E sul Carroccio: "La verità, come mi ha spiegato La Russa, è che la Lega è la fotocopia delle posizioni abbandonate da An!". Allora Fini pizzica il suo ex colonnello, sarcastico: "Bravo, Ignazio, bravo...". La Russa si sbraccia come per dire no-no. Si arriva al cataclisma. Berlusconi: "Sei venuto da me a dire: 'Mi sono pentito di aver fatto il Pdl! A dirmi: ‘Voglio fare un altro gruppo'!!!". E Fini, in piedi: "Ma che stai dicendo!". Il retroscena è morto, meglio: è tutto sulla scena. Il voto finale conta zero. L’uomo che ha vinto grazie alla tv, ha perso un duello tv, sulla sua tv: una vittoria numerica, una sconfitta mediatica. Il partito dell’amore finisce a pesci in faccia.

Da
il Fatto Quotidiano del 23 aprile



giovedì 22 aprile 2010

Obiettivo: diffamare - Marcello Santamaria

22 aprile 2010

Il Tribunale di Monza ha condannato per la terza volta "il Giornale" per gli articoli su Di Pietro.

Non è vero che
Antonio Di Pietro abbia fatto pasticci con i rimborsi elettorali dell’Italia dei Valori e con l’acquisto di case. L’ha stabilito il Tribunale civile di Monza, che in tre sentenze ravvicinate spazza via anni e anni di campagne del Giornale, condannando in primo grado il quotidiano della famiglia Berlusconi a risarcire l’ex pm per un totale di 244 mila euro, avendolo più volte diffamato con una serie di articoli. Soccombenti l’ex direttore Mario Giordano, i giornalistiGian Mario Chiocci, Massimo Malpica e Felice Manti, oltre all’ex deputatoElio Veltri. Ma, al di là dei nomi, il punto è un altro. Le denunce penali e civili sono rischi del mestiere di giornalista e può capitare a tutti di incappare in una parola di troppo, un’inesattezza dovuta alla fretta, un eccesso di sintesi o di critica, insomma in un errore in buona fede. Qui invece i giudici hanno accertato un modus operandidi assoluta malafede: quello delle sistematiche campagne diffamatorie di chi sa di avere le spalle coperte da un editore pronto a investire milioni di euro per screditare, sui giornali e le tv che controlla in conflitto d’interessi, i propri avversari politici. Qui non si parla di cronisti che sbagliano, ma di killer che mentono sapendo di mentire.

Nel primo articolo incriminato, pubblicato il 7 gennaio 2009, il Giornalesparava i titoloni cubitali "I trucchi di Di Pietro per sfuggire alle intercettazioni" e "Tonino eludeva le intercettazioni coi cellulari criptati dei suoi indagati. Oggi il leader Idv attacca ogni proposta di riforma del sistema, ma quando era magistrato usò schede protette intestate all’autista di Pacini Battaglia". In pratica, Di Pietro non teme le intercettazioni perché le elude con "trucchi" fin da quando "indossava la toga e indagava su Pacini Battaglia".

Tutto questo, secondo il Tribunale, è "palesemente inveritiero", una "falsa affermazione", e chi l’ha scritta non l’ha fatto involontariamente visto che cita la sentenza del Gip di Brescia che la smentiva per tabulas: "E’ stato accertato che il presunto utilizzo della scheda svizzera (febbraio-giugno 1995)...risale a epoca in cui è pacifico che Di Pietro non esercitava più le funzioni giudiziarie (dal 7 dicembre 1994)" . I giornalisti del Giornale erano a "sicura conoscenza" della falsità di quel che scrivevano, eppure l’hanno scritto lo stesso. Perciò Chiocci, Malpica e Giordano devono risarcire Di Pietro per 240 mila euro, fra danni morali e riparazione pecuniaria.

La seconda sentenza riguarda ancora Giordano e Chiocci per un altro titolone in prima pagina: "L’Italia dei Valori. Immobiliari. Di Pietro ha investito quattro milioni di euro in case. Ecco il suo patrimonio", seguito da due pagine intitolate: "Di Pietro gioca a Monopoli: ha case in tutt’Italia. Ma è giallo sui suoi conti. Montenero, Bergamo, Milano, Roma e Bruxelles: l’ex pm ha speso 4 milioni di euro tra il 2002 e il 2008, ma non è chiaro con quali soldi abbia acquistato ville e appartamenti". Il teorema è noto: Di Pietro compra case con fondi misteriosi, forse quelli del partito. “Il postulato di fondo” – riassume il giudice – è “la presunta commistione tra il patrimonio immobiliare personale di Di Pietro e quello del partito IdV...commistione che – nonostante l’archiviazione del procedimento penale che si è occupato della questione – viene comunque prospettata quale congettura sottesa agli interrogativi del giornalista, all’evidente scopo di screditare la credibilità e l’immagine del leader".

Anche qui non c’è ombra di buona fede: c’è la solita campagna di balle orchestrate ad arte. La sentenza parla di "volute inesattezze e reticenze, così da accreditare la tesi del giornalista che, interrogandosi sulle proprietà immobiliari di Di Pietro e dei suoi familiari (‘Ma quante case ha l’onorevole Di Pietro? E con quali soldi le ha comprate?’) in rapporto ai redditi dallo stesso dichiarati ed al patrimonio della società immobiliare di sua proprietà (l’An.to.cri, ndr)… senza affermarlo espressamente, intende chiaramente alimentare il dubbio che gli acquisti siano frutto di un illecito storno per fini privati dei fondi del partito e, quindi, anche dei finanziamenti pubblici allo stesso destinati in relazione ai rimborsi elettorali". Anche qui il giornalista sa benissimo che quel che scrive è falso, visto che cita la denuncia di un ex dipietrista, tale
Mario Di Domenico, contro Di Pietro. Denuncia archiviata dal gip di Roma perché "anche in punto di fatto, prima ancora che nella loro rilevanza giuridica, i sospetti avanzati in merito alle citate operazioni dell’avv. Di Domenico sono risultati infondati". Ma il Giornale si guarda bene dal riportare quelle parole: "Dall’autore dell’articolo...vengono artatamente sottaciute le motivazioni poste alla base del provvedimento di archiviazione" con uno "scopo evidente": "Ove le ragioni delle concordi determinazioni della Procura e del Gip fossero state riportate (sia pure in sintesi), i dubbi instillati dal giornalista sarebbero risultati non più che mere congetture, prive di concreti riscontri. E invece, espungendo le motivazioni del provvedimento, il lettore (non altrimenti informato) resta confuso, nell’apprendere che, a fronte delle pesanti accuse mosse a Di Pietro dall’avv. Di Domenico circa l’illecito utilizzo di fondi del partito per l’acquisto di appartamenti, ‘la procura capitolina’ avrebbe ‘stigmatizzato’ il comportamento di ‘Tonino’…In realtà la procura non ha affatto ‘stigmatizzato’ il comportamento" di Di Pietro e il gip ha ritenuto "infondati i sospetti avanzati dal querelante, non essendo in alcun modo emerso che Di Pietro ebbe a trarre personale vantaggio dalle operazioni ai danni del partito”. Insomma il Giornale ha ancora una volta, "volutamente" e "capziosamente", "travisato i fatti a discapito del principio di verità della notizia". E lo stesso ha fatto a proposito dell’annosa querelle fra Idv e "Il Cantiere" di Occhetto e Veltri per i rimborsi elettorali delle Europee 2004: "L’autore distorce ancora una volta le informazioni”, evita accuratamente di ricordare che il gip di Roma ha “confermato la sostanziale correttezza delle determinazioni assunte dalla Camera nell’individuazione dell’Idv quale unico soggetto legittimato alla percezione dei rimborsi…Informazioni intenzionalmente tralasciate per poter affermare che la Camera avrebbe erogato i rimborsi all’Idv‘senza operare alcun controllo’, dando così al pubblico un’informazione palesemente falsa".

Anche questi articoli sono "diffamatori e lesivi della reputazione" di Di Pietro, che va risarcito con altri 60 mila euro. La terza sentenza riguarda un’intervista di Felice Manti a Veltri. Il Giornale la titolò così: "Vi racconto i maneggi del mio ex amico Di Pietro. Quando tesserò 241 criminali". Tutto diffamatorio fin dal titolo, per giunta manipolato per forzare ulteriormente il pensiero di Veltri, a cui l’autore attribuisce una frase mai pronunciata ("Di Pietro iscrisse ai Democratici per Prodi l’intera via della malavita di Cosenza"). Ma il giudice ne ha ritenuta diffamatoria anche una effettivamente pronunciata, "laddove Veltri ha dichiarato che i soldi del finanziamento pubblico non vanno al partito, bensì personalmente a Di Pietro, a
Susanna Mazzoleni (la moglie, ndr) e a Silvana Mura (la tesoriera Idv, ndr) e ha dichiarato che un’ordinanza del Tribunale di Roma avrebbe affermato che i finanziamenti non possono andare all’associazione" omonima al partito Idv. Ora, "l’ordinanza del Tribunale di Roma non reca una siffatta affermazione", anzi dice che "il finanziamento pubblico va all’associazione IdV e il Tribunale di Roma non ha ritenuto illegittima tale condotta… circostanza di cui Veltri era a conoscenza": l’ordinanza l’ha prodotta lui al giudice di Monza. Dunque la notizia pubblicata dalGiornale "non è oggettivamente vera" e ha "leso la reputazione e l’immagine dell’on. Di Pietro", che va risarcito con 44 mila euro. Che, aggiunti agli altri risarcimenti, fanno 344 mila euro: quanto basta per comprare un’altra casa a spese della famiglia Berlusconi.

Da
il Fatto Quotidiano del 22 aprile

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2477334&yy=2010&mm=04&dd=22&title=obiettivo_diffamare


Il prof. Boldrin: Uno spettacolo che mette tristezza - Ballarò (20-04-2010)


mercoledì 21 aprile 2010

COMUNE INGRATO - Federico D'Orazio



A L’Aquila, in Consiglio Comunale mesi fa, degli scellerati avevano presentato una mozione per conferire la cittadinanza onoraria a Guido Bertolaso.

Proposta fatta da consiglieri del centrodestra. La città, come prevedibile, s’è spaccata in opposte fazioni, ma la proposta era di quelle che non potevano essere lasciate cadere senza dargli importanza.

Sin dall’inizio ho sposato insieme a tanti amici, la causa di chi si opponeva. Nei mesi, ho trovato sempre più ragioni per oppormi a quest’atto, che avrebbe sancito lo spregio istituzionale dei più importanti valori democratici. Chi è sotto inchiesta, specie se si trova sotto inchiestE, non può e non deve ergersi (né essere eretto) a vittima sacrificale. Vale per tutti. Dal Presidente del Consiglio in giù e in su.

Dopo l’emergenza, gli scandali delle intercettazioni, gli sciacalli ridens, le denunce per mancato allarme e conseguente omicidio colposo (tutte ipotesi di reato, al momento), L’Aquila ha detto no.

La mozione è stata votata con 14 no, 1 astenuto, due si. Gli altri sono pure usciti dall’aula.

Per la prima volta da mesi, sono orgoglioso della mia città, del mio Comune.

Per la prima volta ho visto affermare un principio in cui mi riconosco: Bertolaso, non è martire, Bertolaso non è eroe. Bertolaso è fallibile.

A L’Aquila, per più d’uno, ha sbagliato.

Bertolaso non è uno di noi. Bertolaso non è, e non sarà, cittadino onorario Aquilano.

E ora si può andare avanti, a testa alta. Come prima.

Anche il mio Comune, un anno dopo, ha voluto per sé l’etichetta che noi altri ci siamo presi da tempo. INGRATO.


http://stazionemir.wordpress.com/2010/04/21/comune-ingrato/#comment-644