venerdì 15 ottobre 2010

Il Pdl brucia. E si divide in mille pezzi - di Marco Palombi


Il Pdl brucia. E si divide in mille pezzi

Da Roma alla periferia, ogni giorno scoppia un nuovo caso. Anche Ignazio La Russa ha minacciato di formare gruppi autonomi

Il Pdl, il partito nato per rappresentare il centrodestra italiano nei prossimi decenni, all’età di un anno e mezzo è già preda d’una sorta di cupio dissolvi. Dei due fondatori, Gianfranco Finise n’è andato, mentre Silvio Berlusconi non lo ama più e preferisce flirtare coi Promotori della Libertà di Michela Vittoria Brambilla, nuovi sacerdoti del culto del capo. A nessuno piace più questo corpaccione impazzito, dentro il quale – al riparo del carisma del leader – si sviluppa e prospera ogni guerra di potere, ogni scontro fratricida, ogni genere d’odio e sospetto reciproco. Colonnelli, marescialli e caporali litigano sui posti di sottogoverno, la quota di caccia per gli ex An, gli appetiti dei cosiddetti quarantenni provenienti da Forza Italia.

Prendiamo i coordinatori nazionali: gli ex azzurri riuniti nell’associazione Liberamente (Frattini, Fitto, Gelmini, Carfagna, Prestigiacomo e Valducci) ne vogliono uno solo, meglio se dei loro,La Russa e Gasparri, con i berluscones un po’ più agée (Cicchitto, Bondi), preferirebbero che tutto restasse com’è, Denis Verdini vorrebbero farlo fuori tutti, ma è nel cuore del Cavaliere e non si può. Tutti contro tutti? Mica tanto. Lunedì gli ex forzisti d’ogni età hanno stretto una tregua di qualche settimana, il che ha fatto innervosire assai il ministro della Difesa. La Russa – come ha avuto modo di gridare allo stesso Cicchitto martedì notte in un albergo romano – non ci sta a farsi cannibalizzare da Forza Italia: “Piuttosto facciamo i gruppi autonomi”, ha urlato mentre Maurizio Gasparri lo guardava con faccia più che perplessa. Riassunto: gli ex An vogliono un Congresso vero per far pesare la loro maggiore perizia con le tessere nell’elezione dei dirigenti locali, Cicchitto e gli altri anziani vogliono le tessere ma sempre con l’ultima parola a Berlusconi, Frattini e i suoi vogliono comandare loro. Berlusconi invece non vuole più il PdL, ma una riedizione italica dei Tea party con la ministra rossa al posto della Palin.

Questo a Roma, sul territorio è anche peggio. I dossier sul tavolo del Cavaliere ormai non si contano più. Il caso più delicato quello siciliano. A Palermo non solo c’è un’altissima percentuale di gente passata con Fini, ma quel che è rimasto nel Pdl è dilaniato nella guerra tra Gianfranco Micciché da una parte, e Renato Schifani e Angelino Alfano dall’altra. Il primo, com’è noto, adesso ha deciso di uscire dal partito: in regione ha fondato il gruppo “Forza del Sud” e il relativo partito, l’ennesimo scimmiottamento meridionale della Lega, nascerà ufficialmente il 30 ottobre. Anche in Lombardia, altro feudo berlusconiano, è ormai battaglia senza quartiere. All’ingrosso i contendenti fanno riferimento a tre aree: i ciellini del governatore Formigoni, i berlusconiani (spesso laici e liberali) che s’appoggiano a Mariastella Gelmini e gli ex An egemonizzati da La Russa. Il partito lombardo è allo sfascio: il presidente del consiglio comunale di Milano, Manfredi Palmeri, è in odore di passaggio a Fli, mentre nella provincia di Como sei consiglieri e tre assessori superberlusconiani se ne sono andati fondando il gruppo “Autonomia comasca” in odio al ras di zona, Alessio Butti, uomo di La Russa. In Toscana ha fatto scalpore la fronda organizzata da cinque parlamentari – la più nota è Deborah Bergamini – contro Denis Verdini: a Lucca il PdL s’è spaccato addirittura in tre gruppi.

Pure al centrosud il partito del predellino traballa assai. Nel Lazio, Cicchitto, Tajani e il sottosegretario Giro stanno costruendo una corrente di ex Fi: sostengono che la destra capitolina(Polverini, Alemanno, Piso, Augello, anch’essi in lotta tra loro) sta facendo carne di porco del partito e dei posti di sottogoverno. Situazione a cui va aggiunto almeno il bailamme di Latina: l’ex sindaco Zaccheo contro il senatore Fazzone, grande elettore basato a Fondi, che si ritrova contro anche Ciarrapico e i suoi giornali privi di kippah. In Campania c’è la faida tra Cosentinoda una parte – che continua ad attaccare il presidente Caldoro (da ultimo perché favorisce i finiani) – e Carfagna e Nunzia Di Girolamo dall’altra, quest’ultima beatificata alla sua festa di Pietrelcina da una telefonata di Berlusconi.

In Puglia c’è un rancore sordo tra i seguaci di Raffaele Fitto, ritenuto responsabile della vittoria diVendola, e le poche truppe di Gaetano Quagliariello. In Calabria gli ex forzisti accusano il neogovernatore Scopelliti di averli cancellati dalla mappa del potere. In Sardegna i reduci della Prima Repubblica come i senatori Pisanu e Massidda (che s’è pure presentato contro il Pdl alle ultime provinciali) flirtano col governo tecnico. Mentre in Piemonte e Veneto temono tutti di essere fagocitati dalla Lega per colpa dello strapotere di Bossi a Roma. Qualcuno nel Pdl continua a sorridere, è l’allegria dei naufragi.



Afghanistan, ecco la veritàdi Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi


I civili uccisi. Le battaglie dei parà che La Russa non ha mai rivelato. I feriti italiani tenuti nascosti. E poi le stragi di talebani, le azioni coperte degli 007, i tradimenti e i doppi giochi. Ecco il vero volto della nostra 'missione di pace'. Nei file scoperti da Wikileaks e consegnati a L'espresso

«Molti leader talebani nel distretto di Farah vogliono organizzare attacchi contro gli italiani. Gli abitanti sono favorevoli alle truppe della Nato e sostengono gli italiani perché si stanno impegnando per rendere sicura la regione. I guerriglieri hanno paura dei "veicoli neri" della Folgore mentre non temono le jeep color sabbia degli americani e delle forze occidentali. Il capo dell'intelligence locale ritiene che questo terrore nasca dalle perdite che la Folgore ha inflitto ai miliziani nelle ultime operazioni». Eccoli i due volti della guerra in Afghanistan. Quello che ci viene raccontato da anni, con i nostri soldati che lavorano per aiutare la popolazione e proteggerla dagli estremisti islamici. E quello che è sempre stato nascosto, con i reparti italiani che combattono tutti i giorni e uccidono centinaia di guerriglieri. Una sterminata serie di scontri, con raid dal cielo e anche tra le case dei villaggi. Ma anche una missione che deve fare i conti con traditori e doppiogiochisti, con militari afghani addestrati dalla Nato che invece aiutano i talebani, con sospetti sul destino di centinaia di milioni di euro di aiuti pagati anche dall'Italia per la ricostruzione del Paese e scomparsi nei ministeri di Kabul. Una cronaca di reparti con la bandiera tricolore che sparano migliaia di proiettili in centinaia di battaglie, sfidando le trappole esplosive e le imboscate, convivendo con il terrore dei kamikaze che rende ogni auto una minaccia, mentre gli elicotteri Mangusta esplodono raffiche micidiali, incassando spesso i razzi dei talebani.

"L'espresso" è in grado per la prima volta di ricostruire la guerra segreta degli italiani grazie ai nuovi
documenti concessi da Wikileaks: l'organizzazione creata da Julian Assange che raccoglie atti riservati e li diffonde sul Web. Si tratta di oltre 14 mila rapporti dell'intelligence americana non ancora noti che il nostro settimanale presenta in esclusiva mondiale e che integrano i files divulgati due mesi fa: dossier che mostrano anche la lotta senza quartiere tra spie con una serie di episodi misteriosi. Funzionari italiani che sparano contro uomini dei servizi afghani e vengono poi arrestati da questi ultimi, un presunto terrorista prigioniero degli americani che viene consegnato al nostro governo e trasferito a Roma. Sono tutti documenti ufficiali, raccolti dai comandi Usa, in cui i reparti italiani spesso compaiono con i loro nomi di battaglia, Lupi, Fenice, Vampiri, Cobra, Tigre, Lince, o con gli acronimi delle loro Task Force, Center, North, South, TF45: resoconti in codice che raccontano l'orrore di battaglie e spesso anche la correttezza degli uomini che rischiano la pelle per non coinvolgere civili negli scontri. Un diario impressionante in cui sono elencate diverse centinaia di combattimenti, con decine di italiani feriti in modo più o meno grave di cui non si è mai saputo nulla. Il database parte dal 2005 e arriva fino al 31 dicembre 2009: "L'espresso" si è concentrato sulle informazioni dello scorso anno, quando rinforzi e nuove regole d'ingaggio hanno provocato l'escalation delle operazioni sotto bandiera tricolore.

Ma il dossier viene corretto nove giorni dopo: ci sarebbe anche un civile ucciso e due feriti. «Non si sa chi li abbia colpiti. Un'indagine è in corso». Non si può escludere quindi che siano vittime dei talebani. La base Columbus nel maggio 2009 viene attaccata quasi tutti i giorni. Uno degli assalti meglio organizzati è all'alba del 9, con più gruppi di guerriglieri che massacrano un plotone di soldati afghani mentre razzi piovono sulle postazioni italiane. I parà escono dal fortino per soccorrere gli alleati, ma vengono aggrediti alle spalle. A quel punto i mortai pesanti aprono il fuoco. Si spara per oltre tre ore. Alla fine il bilancio è drammatico: 11 soldati afghani morti, 12 finiti nelle mani dei fondamentalisti, un civile ucciso e uno ferito, tre italiani colpiti in modo non grave. Si stima che 20 talebani siano stati ammazzati e dieci feriti, ma nessuno può confermarlo: queste vittime vengono catalogate con una formula di incertezza. Due giorni dopo un uomo e un ragazzo feriti da proiettili si presentano alla base in cerca di cure: un elicottero italiano li trasporta in ospedale.

I limiti dell'autodifesa
Come accade in tutti gli eserciti del mondo, le forze Nato in Afghanistan si comportano in modo molto più determinato quando bisogna salvare commilitoni sotto attacco. L'apocalisse nella zona controllata dall'Italia è l'11 giugno. Una squadra di americani e afghani finisce in trappola nelle viuzze di un villaggio. Una ventina di loro vengono feriti in pochi minuti, anche l'elicottero che li soccorre incassa un razzo. A quel punto si scatena un diluvio di fuoco «in una zona densamente popolata»: viene usato tutto l'arsenale statunitense, razzi al fosforo bianco, dieci bombe, 2.300 proiettili da 30 millimetri. Infine l'ordigno più grande: la Bunkerbuster da 2 mila libbre che spazza via un edificio dove i talebani si erano barricati. Nel combattimento muoiono sei americani e 19 afghani. Nessuna informazione sulle vittime civili. Gli italiani partecipano solo ai soccorsi. Ma come fanno poi i civili a distinguere tra noi che amministriamo il territorio con grande rispetto per la popolazione e chi bombarda? Le divise sono pressoché identiche e i reparti vanno in azione sempre più spesso insieme.


Due mesi di fuoco

Per rendersi conto di quello che fanno le truppe mandate in Afghanistan per volontà bipartisan del Parlamento basta esaminare i files relativi a due soli mesi. Un campione impressionante della situazione, nonostante si tratti di rapporti parziali. Partiamo dal 16 giugno 2009. La Task Force Lince finisce sotto attacco, risponde usando anche mortai leggeri: si ritiene che i talebani uccisi siano sei. Il 20 nuova sparatoria, tre giorni dopo un blindato finisce su una mina, ma l'equipaggio se la cava. Il 25 una pattuglia combatte a sud, verso il confine iraniano.

Il 27 a nord verso Bala Murghab un lungo scontro: cinque guerriglieri uccisi. Quasi contemporaneamente a sud si spara per ore per salvare un convoglio di camion americani. Una colonna italiana interviene, ma viene bloccata dalle pallottole. Dal cielo arriva una coppia di elicotteri, si ritiene Mangusta, che spara 20 colpi da 20 millimetri. A dirigere il tiro è un commando italiano, nome in codice Bardo 5. Si stima che sei aggressori restino sul campo. Poche ore dopo un'altra squadra della Folgore viene centrata: salta in aria un Lince, ma c'è solo un ferito leggero. Il 28 fuoco con mitragliere e mortai: un nemico ucciso. Il giorno dopo bomba contro un convoglio logistico: un italiano ferito e un mezzo danneggiato. Il 30 all'alba razzi contro la base Tobruk, che risponde con i mortai da 120, e poco più tardi ancora un raid per aiutare poliziotti afghani in difficoltà.

Il 2 luglio uno scontro confuso. Ci sono agenti "amici" intrappolati in un edificio. Parà italiani e soldati afghani intervengono, ma sembra che i poliziotti gli sparino contro. Arrivano due elicotteri Mangusta che non risparmiano munizioni: 424 proiettili con il cannoncino e un missile. Nessuna valutazione delle vittime. Il giorno dopo a sud un kamikaze su una moto si lancia contro un blindato italiano: il mezzo si rovescia, due soldati restano feriti. Il 4 all'alba c'è una scaramuccia intorno a un ospedale. Poi nella luce del tramonto i talebani attaccano la cittadella di Herat, dove c'è il comando e vivono quasi 2 mila militari italiani: tirano sette razzi. Due Mangusta decollano e danno la caccia agli incursori, sparando raffiche d'avvertimento. L'indomani una colonna viene bersagliata, ma quando arrivano i caccia americani i miliziani scappano. Il 7 attacco con ordigno e reazione contro gli attentatori in fuga: uno ucciso, uno ferito e uno catturato. Il 9 una pattuglia nei guai risolve la situazione a colpi di mortaio. Il 12 razzi contro le basi Tobruk e Tarquinia. Il 14 a Farah una bomba capovolge un Lince: il mitragliere Alessandro Di Lisio muore, altri due parà all'interno vengono feriti in modo leggero. Il 15 cercano di lanciare un missile contro l'aeroporto di Herat. Il 20 razzi contro la base Tobruk: colpiscono anche una casa, un civile morto e tre feriti. Il giorno dopo a Bala Murghab due bambini finiscono su un ordigno destinato ai parà: uno muore, l'altro viene ferito.

Il nostro mese di fuoco si chiude con una giornata di sangue. Il 25 luglio un autobomba a sud esplode al passaggio di una colonna italiana: il Lince salva la vita di quattro soldati, che riportano solo ferite. Nelle stesse ore a Bala Baluk una compagnia in ricognizione cade sotto il tiro incrociato di razzi, mortai e mitragliatrici. C'è un ferito. Dalla base partono i rinforzi. Ma i talebani sono bene appostati, sparano da case abitate e bloccano la ritirata. I parà rispondono anche con mortai. Arrivano i Mangusta che lanciano un missile «in campo aperto», poi usano il cannone: 210 proiettili contro una casa. C'è pure un bombardiere americano, ma non gli viene permesso di sganciare: si rischiano vittime civili. Anche una compagnia di rinforzi afghani finisce sotto tiro. Nuova battaglia, i reparti si uniscono e si aprono la strada sparando tra le abitazioni fino al fortino. Recita il rapporto: «Il fuoco è stato richiesto per autodifesa, al fine di permettere all'unità di uscire dalla trappola. Non sono stati visti civili dentro o intorno i luoghi da cui proveniva il fuoco nemico». La prima stima è di 45 guerriglieri uccisi «ma non è stato possibile verificarlo perché le case erano presidiate dai talebani». Il bilancio finale è di 25 morti, confermato dalle nostre fonti di intelligence.

Cannoniere volanti
I Mangusta sono attivissimi. Vengono invocati in continuazione: volano a bassa quota, si ritiene che possano mirare con precisione, limitando i danni collaterali. A leggere i rapporti, non si capisce perché il ministro Ignazio La Russa ponga la questione delle bombe sugli aerei: basterebbe aumentare il numero degli elicotteri, che hanno missili filoguidati e cannoni a tiro rapido. E che spesso - come indica il gergo Nato - "go kinetic" ossia fanno fuoco a volontà. Anche gli americani li invocano. Come quando il 16 agosto una squadra statunitense viene imbottigliata nel villaggio di Siah Vashan. I velivoli italiani gli permettono di fuggire con 400 colpi «in un campo aperto».

I talebani cercano in tutti i modi di abbatterli. Il 26 maggio 2008 uno dei nostri elicotteri riceve anche l'allarme laser: il segnale che un missile nemico lo ha inquadrato. Almeno due Mangusta e un Agusta della Marina vengono colpiti da pallottole. Il 9 luglio 2009 i talebani organizzano un agguato su vasta scala. Una mina esplode al passaggio di un convoglio italo-spagnolo: ci sono 4 feriti gravi feriti. Dopo venti minuti arrivano due eliambulanze spagnole e scatta l'imboscata: cecchini sparano dai tetti, altri sono nascosti tra gli alberi. I soccorritori volano via e sulla scena irrompono due Mangusta che "la ripuliscono dagli insorti" a cannonate. Il 18 agosto 2009 i miliziani gli lanciano contro due razzi che esplodono a pochi metri. Poco ore più tardi un'altra coppia di Mangusta soccorre una squadra italo-afghana: appena gli "insorti" li sentono, scappano. Il giorno dopo stesso servizio per liberare una compagnia statunitense. Il 3 settembre i commandos spagnoli sono in difficoltà vicino al Sabzak Pass. Due coppie di Mangusta si alternano per coprirli con raffiche intense: gli vengono attribuiti 19 nemici uccisi e otto feriti.

Ma c'è chi ci aiuta
In diverse occasioni è la popolazione a segnalare agli italiani i pericoli, segno che riusciamo a farci stimare. In un paesino i bambini, normalmente festosi, rifiutano le bottiglie d'acqua offerte dai nostri fanti. I soldati all'inizio sono sorpresi, poi capiscono e danno l'allarme: «Gli insorti ci stanno sorvegliando, possibile presenza nemica nelle abitazioni». Il 23 settembre 2009 una squadra sta percorrendo la strada alle porte del villaggio di Parmakan. Un civile li ferma: «Attenti è pieno di talebani». Ma è troppo tardi. I guerriglieri sono ben piazzati, aprono il fuoco da due diverse posizioni con razzi, mitragliatrici e mortai. C'è un parà ferito in modo grave, gli altri sparano senza sosta. Arrivano due caccia, ma ci sono troppe case per bombardare: sganciano solo scie luminose, che convincono i fondamentalisti a fuggire, lasciandosi alle spalle quattro morti e otto feriti. Ci vuole poco però a perdere il consenso della gente. Quattro giorni dopo americani e commandos afghani cadono in un'imboscata nelle vie di un villaggio. Ci sono cecchini sui tetti, altri tra le case. Poi arrivano gli aerei. I caccia vanno in picchiata con migliaia di colpi da 30 millimetri, due bombe, un razzo al fosforo bianco. Il rapporto indica che «tutte le coordinate colpite sono un'area abitata». Sembra che il governatore e il comando italiano vengano tenuti all'oscuro del volume di fuoco. E all'indomani nei due ospedali di Farah e Balah Baluk si presentano molti civili feriti.

Natale di bombe
La Folgore ha una singolare fantasia nello scegliere i nomi delle operazioni. Quando arriva in Afghanistan lancia l'operazione "Buongiorno", per far capire ai talebani che il clima è cambiato. Poi scatta "Bestia feroce" e con l'avvicinarsi del Natale ecco "Guastafeste". Ma il pomeriggio del 25 dicembre i talebani festeggiano a modo loro: attaccano una pattuglia Usa in un borgo non lontano dal fortino di Bala Baluk. Si muove la compagnia Cobra delle nostre forze speciali: 39 soldati e dieci Lince, in due colonne. I talebani li bloccano. Loro rispondono con 4 mila proiettili. Ma non basta. Dalla base tirano con i mortai da 120. Poi arrivano gli aerei: due bombe e tutti rientrano incolumi nell'avamposto per cena.

Due giorni dopo si combatte ancora nello stesso villaggio, i talebani sparano da tre case. I jet sganciano due bombe su una postazione fuori dal paese, ma viene proibito l'attacco sulle abitazioni. Il raid sembra avere riportato la quiete e comincia il rastrellamento. I Cobra si appostano, gli americani entrano nel paese. Ma dai tetti rispuntano i cecchini talebani. Volano raffiche e razzi. Ed ecco di nuovo gli stormi americani: quattro bombe vengono dirette sugli obiettivi. Quattro le case sbriciolate: si stima che 25 guerriglieri siano morti, ma controllare è troppo pericoloso. Il giorno dopo due bambini feriti si presentano al cancello della base: dicono che la madre è stata ammazzata. Raccontano una storia agghiacciante: la loro famiglia è stata tenuta in ostaggio dai talebani. Il rapporto è laconico: «Si ritiene che la bomba sganciata contro la casa confinante l'abbia uccisa».

Chi ci spara contro
I resoconti dell'intelligence americana mostrano la sfiducia nei confronti delle forze afghane, spesso addestrate dagli italiani. La diffidenza massima è nei confronti della polizia locale. A Herat, nel capoluogo della regione dove sventola il tricolore, sono ancora più espliciti: "La maggior parte della polizia afghana non può essere giudicata affidabile, perché molti dei poliziotti lasciano i loro posti e spesso si arruolano nelle fila dei talebani. Molti lo fanno perché non vengono pagati. Non è chiaro dove vanno a finire i soldi destinati agli stipendi». Gli agenti arrotondano con i sequestri di persona, a danno di possidenti, un business molto proficuo: "Si pensa che rapitori ed alti ufficiali della polizia siano d'accordo".

Il vicegovernatore di un'area nel nostro distretto si vanta di «avere un fratello nei talebani». Molto spesso sulle informative degli 007 è scritto in evidenza: «Queste notizie non devono essere condivise con il governo di Kabul e la polizia». L'episodio più grave è avvenuto il 29 dicembre nella base Columbus. Un soldato afghano ha fatto fuoco sui suoi alleati occidentali, uccidendo un americano e ferendo due italiani. Pare che l'obiettivo fosse un elicottero appena atterrato. Il 21 dicembre, dopo una lite, scoppia una battaglia davanti all'ingresso principale della cittadella di Herat, comando di tutte le nostre truppe: poliziotti afghani contro soldati afghani. La stessa scena si ripete cinque giorni dopo su un ponte. Spesso gli afghani sparano senza motivo: una pattuglia di bersaglieri descrive come abbiano distrutto un negozio in un villaggio alle porte di Bala Murghab. Persino quattro uomini assoldati per la sicurezza dell'ambasciata di Kabul vengono indicati come complici dei talebani e rimossi. E c'è il sospetto che l'attentato in cui è stato ammazzato un artificiere italiano sia stato organizzato con la complicità di poliziotti. Molti di loro però pagano con la vita il sostegno agli occidentali: due agenti vengono decapitati a Chin. A un altro ufficiale uccidono la figlia e feriscono la moglie. Il 3 giugno i parà italiani scoprono un camion con i corpi di 12 civili, rapiti e assassinati perché lavoravano per gli americani.

I bambini perduti
Le informative occidentali e anche quelle italiane evidenziano come i talebani puntino a usare i bambini per i loro piani criminali. Viene descritto l'addestramento di dodicenni, destinati a diventare kamikaze alla guida di autobombe. Ci sono progetti dettagliati per stroncare la campagna di scolarizzazione laica e spingere i piccoli verso le madrasse, le scuole religiose che formano i quadri talebani. Temono il successo delle aule costruite dagli italiani: studiano come avvelenare il cibo donato dagli occidentali ai centri di istruzione e di infiltrare fondamentalisti tra gli insegnanti selezionati dal governo di Kabul. Nelle informative si parla anche di gas e sostanze chimiche per mettere a segno attentati clamorosi contro i fiancheggiatori della Nato. Ci sono stati anche sospetti sull'incendio che ha distrutto l'accampamento della Task Force 45, l'unità speciale di commandos italiani, a Farah: le fiamme hanno fatto esplodere la scorta di munizioni e una granata ha centrato un elicottero americano parcheggiato nelle vicinanze. Ma alla fine la causa è stata individuata in un difetto del gruppo elettrogeno.

L'intelligence
I files di Wikileaks mostrano un grande attivismo dei nostri servizi segreti, sul campo e nei Paesi chiave per conoscere le mosse dei talebani. Nel 2009 il comando italiano ha ricevuto 255 rapporti su minacce di attentati e movimenti dei guerriglieri. Gli americani sembrano diffidare di molte delle nostre fonti e selezionano questi dossier, dandogli gradi di affidabilità limitati. E sul campo accadono episodi molto oscuri. Un nostro ufficiale alla guida di una colonna spara contro un agente dei servizi segreti di Kabul. Pare che gli 007 di Karzai avessero bloccato una nostra missione sul campo: dopo la sparatoria arrestano tutti gli italiani, rilasciandoli dopo alcuni giorni. Ancora più enigmatica è la consegna al governo di Roma di un prigioniero custodito dagli americani: dovrebbe trattarsi di un terrorista straniero. Lo scambio avviene il 20 dicembre 2009 all'aeroporto di Bagram e l'uomo prende il volo con un Hercules dell'Aeronautica. Chi è? Perché interessava tanto alle nostre autorità? Nel documento ci sono solo codici cifrati, e niente nomi.

Tra tanti files confidenziali, uno è particolarmente suggestivo: ha il titolo "Berlusconi" e racconta la nascita di una protesta popolare anti-americana e anti-Karzai in un distretto del Nord, affidato ai tedeschi, in sostegno del generale Dostum, leggendario signore della guerra. Il dossier fa riferimento a informazioni di un documento del febbraio 2008 con il nome del premier, che in quei giorni era impegnato nella campagna elettorale. Perché chiamarlo proprio con il nome del Cavaliere? L'ultimo mistero di una guerra tenuta nascosta agli italiani, una missione dove la pace è un ricordo remoto. E dove ogni giorno quasi quattromila militari combattono e rischiano la vita per portare a termine il compito che gli è stata assegnato da governo e parlamento.



mercoledì 13 ottobre 2010

“Il 16 ottobre a Roma per il Lavoro, la Democrazia, il Sud”




Dal Mezzogiorno un appello del mondo della cultura e dell’università ad aderire alla manifestazione indetta dalla Fiom.


da sinistrasvegliati.org

Molteplici sono le ragioni per aderire il prossimo 16 ottobre alla manifestazione nazionale della FIOM CGIL, in difesa dei diritti e del lavoro. E nel Sud del nostro Paese queste ragioni sono amplificate dal sottosviluppo e dalle gravi responsabilità del governo.

Il Mezzogiorno sprofonda oggi in una crisi dalle molte facce.

C’è il cancro della criminalità, che controlla vaste aree. C’è il “paradosso della doppia migrazione”, con i migliori giovani del Mezzogiorno che se ne vanno in cerca di lavoro e tanti stranieri che arrivano, trovando ben scarsa capacità di accoglienza e, nel migliore dei casi, un lavoro irregolare. C’è la devastazione del territorio, con una teoria ininterrotta di emergenze, spesso interconnesse: dai rifiuti, all’abusivismo edilizio, al dissesto idrogeologico. C’è il crescente depauperamento del sistema delle infrastrutture, con la vicenda infinita dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria ormai diventata l’emblema stesso del fallimento dello Stato.

E tutto ciò oggi è reso ancora più drammatico dalla crisi economica in atto, che qui si infrange più duramente che altrove. Certo, tutto il Paese è in ginocchio e la stessa tenuta dell’Unione Monetaria Europea sembra a rischio. Ma altrove le forze per resistere si organizzano e provano ad uscire dal tunnel. Mentre, alle condizioni attuali, il Mezzogiorno non ce la fa. Il suo tessuto produttivo risulta troppo indebolito dagli effetti dell’apertura dei mercati, dal fallimento completo delle cosiddetta “nuova programmazione” per il Mezzogiorno, dal colpevole disimpegno del governo nazionale.

E certo non è credibile pensare di rilanciarne le sorti inseguendo una competitività da bassi salari e scarsi diritti. Ormai sappiamo bene che si tratta di una strada non solo profondamente iniqua ma anche strategicamente fallimentare.

È iniqua, perché costituisce un arretramento inaccettabile nelle condizioni di vita e nella dignità dei lavoratori meridionali. Non può esserci una democrazia “parziale”, in cui i diritti delle persone cessano di essere tutelati una volta varcata la soglia del luogo di lavoro oppure messo piede al Sud; e se è questa la premessa del federalismo fiscale sarà bene rispedirlo al mittente. Ma è anche una strada fallimentare sul piano della politica economica, perché è ormai dimostrato che non è la compressione dei salari che può consentirci di fronteggiare la concorrenza cinese o quella indiana, oppure ridare respiro ai mercati di sbocco delle piccole imprese meridionali. Ci vuole ben altro: investimenti, infrastrutture, ricerca scientifica, politiche industriali autentiche. Tornare a discutere seriamente di lavoro, sviluppo, “questione meridionale”.

Il Mezzogiorno – come il resto del Paese – ha una sola opzione di fronte a se: scommettere e investire sul capitale umano, non mortificarlo, e imparare a competere nei settori più avanzati dell’”economia della conoscenza”, quella della produzione di beni e servizi ad alta tecnologia e ad alto tasso di sapere aggiunto.
E’ necessario un radicale cambiamento di rotta che, con la creazione di una “nuova industria” fondata sulla conoscenza, consenta una maggiore e migliore occupazione e riaffermi principi di democrazia nei luoghi di lavoro e, quindi, nella società.

Per tutte queste ragioni aderiamo alla manifestazione nazionale indetta dalla FIOM CGIL. E invitiamo tutti i meridionali a farlo.

Luigi Amodio (direttore generale Fondazione IDIS)
Stefano Balassone (Università degli Studi Suor Orsola Benincasa)
Sergio Brancato (Università degli Studi di Salerno)
Guido D’Agostino (Presidente Istituto Campano per la Storia della Resistenza)
Laura Capobianco (Istituto Campano per la Storia della Resistenza)
Elena Coccia (avvocato, Esecutivo Nazionale Giuristi Democratici)
Pietro Greco (giornalista scientifico e scrittore)
Carlo Iannello (Seconda Università di Napoli)
Ugo Leone (Presidente Parco Nazionale del Vesuvio)
Luigi Mascilli Migliorini (Università di Napoli l’Orientale)
Pietro Masina (Università di Napoli l’Orientale)
Vittorio Mazzone (Presidente Centro Culturale "Insieme")
Walter Palmieri (ricercatore CNR di Napoli)
Rosario Patalano (Università degli Studi di Napoli Federico II)
Raffaele Porta (Università degli Studi di Napoli Federico II)
Riccardo Realfonzo (Università del Sannio)
Settimo Termini (Università degli Studi di Palermo)

Per aderire:
info@sinistrasvegliati.org
info@cirem.it

(12 ottobre 2010)



Nell'inferno di Terzigno.- di Arianna Ciccone



L'inchiesta sulle incredibili condizioni di vita accanto alla discarica riaperta da Bertolaso in Campania. Un reportage realizzato da Valigia Blu e finanziato dagli abitanti della zona. (11 ottobre 2010)


Questo reportage, realizzato dall'Associazione Cittadini Giornalisti e da Valigia Blu, è stato finanziato dai cittadini (soprattutto di Terzigno, Boscoreale, Napoli e Caserta) attraverso la piattaforma internet per il finanziamento solidale delle inchieste giornalistiche, YouCapital.


Ma è un'emergenza rifiuti o un'emergenza democratica? Me lo sono chiesto subito appena arrivata a Terzigno e alla discarica S.A.R.I riaperta due anni fa da Guido Bertolaso per risolvere l'emergenza rifiuti della Campania. Era una ex discarica, gli abitanti del vesuviano aspettavano da tempo la bonifica e si sono ritrovati senza fiatare la riapertura, con la promessa che entro un anno il volume dei conferimenti si sarebbe ridotto al minimo grazie all'entrata in funzione del termovalorizzatore di Acerra. Peccato però che questo, ad oggi, funzioni parzialmente: due linee su tre non sono attive mentre l'unica linea funzionante la settimana scorsa si è fermata per un guasto. Pare che accada spesso. Per quel sacrificio i comuni investiti dalla discarica avrebbero usufruito delle compensazioni, soldi che non sono mai arrivati.


Arriviamo alla discarica lungo un percorso fatto di autocompattatori dati alle fiamme durante una delle proteste e parcheggiati lì a colare percolato e liquidi scuri. Ai lati della strada quello che doveva essere uno dei più bei posti dell'Italia, chilometri di vigneti, frutteti, alberi di ulivo e di noccioline ricoperti totalmente di polveri, in un abbraccio violento tra bellezza e bruttezza. Come se un alito di morte avesse soffiato su tutto quel ben di Dio. L'odore è insopportabile, indecente, sconvolgente. La discarica S.A.R.I. è una zona protetta dai militari, inaccessibile, ma da un lato è possibile vedere tutto, alzandosi su alcune cancellate che fiancheggiano un maneggio, dove soprattutto i bambini vengono a cavalcare.


È enorme e fa impressione avere davanti l'immensità del Parco Nazionale del Vesuvio scavato da dentro da cave ormai inquinate come fossero tumori. Gli operai stanno lavorando e spostano i rifiuti in compagnia dei gabbiani, i veri padroni della zona. La loro presenza tra l'altro è la spia di una discarica "fatta male". Il Vesuvio è patrimonio dell'Unesco, la Commissione Petizioni del Parlamento europeo in visita ad aprile ha dato parere negativo all'apertura delle discariche.


Ma bastava la logica per arrivare alla stessa conclusione: in questo territorio aprire discariche è un vero e proprio "crimine" ambientale. E ora pensano di aprire la seconda: Cava Vitiello, che diventerebbe la discarica più grande d'Europa con una capacità di stoccaggio stimata ben oltre i 10 milioni di tonnellate. Questo significa che l'emergenza non si concluderà mai, che ci saranno altri 20 anni di sversamento. La gente è scesa in strada per dire basta. No alla Cava Vitiello, chiusura della S.A.R.I., rifiuti zero.


E rifuti zero è lo slogan dei comitati cittadini e dei collettivi, che hanno cercato di mettere in rete le proteste a livello regionale. A coordinarli un gruppo di ragazzi giovanissimi, che hanno anche organizzato incontri per informare la cittadinanza, come quello con Carla Poli del Centro di riciclo di Vedelago, Treviso, che riesce a riciclare il 99 per cento dei rifiuti. Quello che non fa e dovrebbe fare la politica lo fanno i cittadini. «Se i leghisti protestano stanno difendendo il territorio. Se protestiamo noi siamo camorristi», dice una signora che insieme alla figlia è all'appuntamento nella piazza di Boscoreale per la marcia di protesta. Il problema investe almeno 200 mila persone, in strada ce ne saranno un migliaio. «Io in quanto cittadina sono lo Stato», dice una ragazza : «Questa gente mi sta costringendo a combattere contro lo Stato, contro me stessa. Dicono che ci organizza la Camorra. Ma non è vero, la Camorra ha tutto l'interesse nelle aperture delle discariche. E non è vero che siamo violenti, non siamo di certo noi a bruciare i camion. Siamo gente perbene. Siamo schiacciati dalla camorra da un lato e dallo Stato dall'altro».


«Noi ai politici non ci crediamo più, non ci fidiamo più di nessuno, di Bertolaso, di Berlusconi, destra, sinistra. Noi siamo soli, soli contro di loro». Stiamo parlando di una discarica con fuoriuscite di biogas e percolato lasciato a cielo aperto, quando la legge prevede la raccolta e il trattamento, una discarica che nessuno può controllare, nel bel mezzo di un Parco Nazionale, in una zona vulcanica. E i cittadini non possono sapere.

Solo gli odori nauseabondi hanno fatto scattare l'allarme nei paesi vesuviani. Per legge una discarica dovrebbe stare ad almeno due, tre km da un centro abitato. Qui parliamo di poche centinaia di metri. Una puzza che ti rimane addosso, che ti entra negli occhi. Io dopo appena due ore avevo occhi, narici e gola che mi bruciavano. A Boscoreale la Sala consiliare del Comune è occupata dai collettivi che si battono da anni per i rifiuti zero. Il sindaco (Pdl) è in una tenda in piazza (per protesta contro l'apertura della seconda cava ha fatto lo sciopero della fame interrotto poi con una pizza subito dopo la rassicurazione del Presidente della Provincia).


«Berlusconi assicura che non aprirà la cava, verrà a parlare con noi, forse sabato prossimo. Noi speriamo, avevamo puntato per la nostra economia alla vicinanza con Pompei, il turismo... Ma come si fa con questa puzza che ha già fatto danni enormi? Lungo il Vesuvio la strada dei ristoranti è deserta, 700 posti di lavoro a rischio. Qui ora i tedeschi vengono sì ma per fotografare le nostre proteste e i cumuli di immondizia. Abbiamo sbagliato la prima volta quando non abbiamo protestato per l'apertura della S.A.R.I. e adesso ci vogliono venire ad aprire la Cava Vitiello. E pensare che siamo il territorio della pietra lavica. Al danno si aggiunge la beffa noi qui facciamo la raccolta differenziata fino al 55-60 per cento, poi arrivano i rifiuti indifferenziati di Napoli e ce li scaricano in testa a noi». Molti abitanti vengono in piazza a discutere con il sindaco, sono delusi, preoccupati, esasperati. «Dovremmo protestare perché non c'è lavoro per i nostri figli, protestiamo per l'aria che respiriamo». Con Alessio, Francesco e Antonio andiamo a "visitare" le discariche abusive. Dove sversa senza pietà ogni notte la camorra.


Il problema non è solo la S.A.R.I., non è la discarica di Stato. Qui la gente vive letteralmente immersa in una discarica. Cumuli di rifiuti, di lamiere di eternit, di immondizia ovunque. Degrado urbano, carcasse di cemento di edifici abusivi e sfarzosissimi alberghi-ristoranti si alternano lungo tutto il percorso. Un po' favelas e un po' Scarface. Sì, questa è emergenza democratica. «Sono anni che protestiamo, sono anni che aspettiamo che lo Stato ci liberi dall'Antistato», ci dice un poliziotto che ha chiesto di non essere schierato "contro" i suoi concittadini durante le manifestazioni, « e cosa ci siamo ritrovati? Uno Stato che ci impone di rinunciare al nostro diritto alla salute e al nostro diritto di sapere». È difficile veramente districarsi in questi luoghi, non è facile capire. Si intrecciano interessi a più livelli. È tutto così fumoso. Intuisci però che la partita è un'altra e tra politica e criminalità organizzata è tutta giocata sulla pelle di queste persone. Andiamo di nuovo a visitare la discarica S.A.R.I., ma si vede che qualcuno ha avvertito i militari e la polizia. Stiamo ben attenti a non oltrepassare le aree di divieto, i militari da dentro la discarica ci tengono sotto controllo. Sulla strada di ritorno, sospettando un posto di blocco, nascondiamo tutto e mettiamo in sicurezza video e foto. Evitiamo il primo posto di blocco, ma non riusciamo ad evitare il secondo. Un numero impressionante di carabinieri ci ferma, abbiamo le macchine identiche a quelle dei lanciatori di pietre contro le forze dell'ordine. Ma guarda un po'. Ci chiedono i documenti, non li registrano e dopo un po' ridendo ci dicono: «Ma voi non siete lanciatori di pietre vero? Avete le facce dei giornalisti».


Sulla strada di ritorno incrociamo la macchina della protezione civile che col megafono annuncia la supplica alla Madonna di Pompei per il giorno dopo. Ci fermiamo a parlare. Le ragazze ci spiegano che la supplica è per chiedere la Grazia per non far aprire la seconda discarica. Ma come voi siete la protezione civile, siete proprio voi che la volete aprire... «Noi non lavoriamo per Bertolaso», ci dicono, « noi lavoriamo per il sindaco».


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/nellinferno-di-terzigno/2136128//1


Il video è su:

http://espresso.repubblica.it/multimedia/video/26493119