lunedì 10 gennaio 2011

SALLUSTI CONTRO ADINOLFI: "Cretino, bamboccione, sei da picchiare.


Che vergogna!
E questi sarebbero i programmi della Rai?
E questo Sallusti sarebbe un giornalista?


Dopo la dichiarazione di Sallusti, Adinolfi è stato aggredito da un gruppetto di ragazzi: http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/cronaca/2011/01/09/visualizza_new.html_1642266800.html

domenica 9 gennaio 2011

Feltri e Sallusti, c’eravamo tanto amati.


Tra i due amici volano stracci. A mezzo stampa: ciascuno accusa l'altro di scrivere falsità e di omettere la verità. Tutto è partito da un intervento pubblico a Cortina di Feltri

Il Giornale scrive falsità”. Alessandro Sallusti “in questi giorni ha perso la testa, come tutti quelli che ne hanno poca”. Le cortesie per il direttore del quotidiano di via Negri non arrivano daMichele Santoro o Marco Travaglio ma dall’amico ed ex guida, Vittorio Feltri. Sono giorni di calma apparente, con scambio di quotidiane aggressioni a mezzo stampa. Neanche troppo infiocchettate. Da quando, il 21 dicembre scorso, Feltri ha lasciato Il Giornale per tornare a Libero, raggiungendo l’amico Maurizio Belpietro, da via Negri sono partiti colpi vari all’ex direttore. Fino all’ultimo, sabato mattina, il più pesante: l’accusa di tradimento a Silvio Berlusconi.

L’attacco lo sferza Sallusti: “Napolitano (e Feltri) cambiano bandiera”. Scrive Sallusti: “Il giornalista, fino a ieri tra i più autorevoli sostenitori del premier, in un incontro pubblico a Cortina, ha detto che Silvio Berlusconi non ha i numeri per candidarsi a capo dello Stato e che sarebbe addirittura meglio che non si candidasse neppure a premier. Fini, Bocchino e Di Pietro possono contare su un nuovo alleato?”. Accuse pesanti. Feltri, di fatto, a Cortina ha scherzato davvero sull’ascesa del premier al Quirinale. “Roba da cinepanettone natalizio – ha detto – ci farebbero un film De Sica e Boldi”, a immaginarsi poi i problemi con “le escort al Quirinale”. Frasi accolte dalle risate, in quello che è un incontro pubblico natalizio. L’accusa di tradimento, dal suo giornale, proprio non se l’aspettava. “Fino a ieri pubblicavano paginate di lettere a mio favore e ora mi danno del traditore”.

Immediata la risposta. A mezzo stampa. Il (ri)fondatore di Libero si fa intervistare da Maurizio Belpietro e pubblica un video sul sito internet. Sallusti, dice, “ha scritto delle cose totalmente inventate, spiace che il Giornale si sia ridotto a creare dei falsi, in questo caso io ne sono vittima”. E alle accuse di essere diventato antiberlusconiano, Feltri ribatte: “Io sono sempre stato berlusconiano ma c’è sempre qualcuno nella vita più berlusconiano di te, di solito chi recita questo ruolo è uno che è arrivato all’ultimo momento. E Sallusti è uno di questi. Io sono berlusconiano da oltre vent’anni, tuttavia non ho mai preso ordini da berlusconi”. Per chiarire ulteriormente il messaggio, l’intervista viene pubblicata con ampio spazio (due pagine oltre la prima) sul numero stamani in edicola.

Dice Feltri: “Il Giornale ha preso un granchio, mi ha attribuito frasi che non ho detto né pensato. Sarà stato l’effetto dello spumante o della disperazione. Non so. Non ho telefonato al mio amico Sallusti per chiedere spiegazioni. Da lui mi aspetto solo delle scuse”. E ancora: “A Sallusti ho fatto solo del bene, gli consiglio di calmarsi” perché “capisco che uno abbia ambizioni, l’importante però è esserne all’altezza”.

Lo scambio di cortesie è reciproco. Perché nel frattempo Sallusti ribatte al video. In prima pagina, ovviamente. “Ieri, in pubblico e in privato, il mio ex direttore ne ha dette di tutte su di me. Non ho gradito che ieri Feltri (che al momento di uscire aveva detto che noi del Giornale, e quindi presumo anche i nostri lettori, gli stavamo sui coglioni) ci ha dato dei bugiardi. La prova? Sarebbe bastato leggere la trascrizione integrale del suo intervento pubblicata su Libero: non c’è traccia della nostra tesi. E’ vero. Solo che una manina accorta, non credo proprio la sua, a Libero aveva omesso guarda caso proprio quei passaggi sulle escort al Quirinale, sui timori di una ricandidatura, sulle legittime ambizioni di Tremonti a scalzare Berlusconi che risultano nella registrazione audio e video. Tutto qui, non siamo bugiardi, semmai sospettosi e irriverenti. Prendiamo atto che ieri Feltri ha detto di essere fermamente berlusconiano. Meglio per tutti, soprattutto per Berlusconi”.

Ricapitolando. Feltri accusa Il Giornale di scrivere falsità, Sallusti sostiene che Libero omette la verità. Ed entrambi si professano berlusconiani doc. Un rebus per i lettori del centrodestra: chi dei due mente? E, se entrambi scrivono il vero, di vero dunque non scrivono niente?


Minzo e le suore di clausura. - Beppe Giulietti




Il direttorissimo del Tg1 Augusto Minzolini ha espresso tutto il suo stupore perché molti, compresa Famiglia Cristiana, hanno espresso perplessità per l’annunciata rubrica da lui pensata e che vorrebbe dedicare alle bugie, ovviamente a quelle degli altri.
Eppure non dovrebbe meravigliarsi troppo. Per comprendere il perché di alcune reazioni gli proponiamo e vi proponiamo il gioco del come se.
Sarebbe come se un gruppo di suore di clausura annunciasse una rubrica sul libero amore.
Come se Silvio Berlusconi decidesse di occuparsi della tutela delle minori.
Come se Marcello Dell’Utri si dedicasse alla lotta contro la mafia.
Come se Cesare Previti annunciasse la fondazione di un centro di recupero per i giudici corrotti.
Come se Bossi baciasse la bandiera tricolore.
Come se la Gelmini riuscisse a vincere un pubblico concorso.
Come se Gasparri centrasse, anche per sbaglio, un congiuntivo.
Come se, per restare in tema, l’Augusto spiegasse la differenza tra prescrizione e assoluzione, magari dando la parola a quel giudice Ingroia che al Tg1 non piace proprio.
Dal momento che il direttore del Tg1 sembra ancora perplesso e amareggiato, provate voi a proseguire nel gioco del come se e a dare una spiegazione al Minzolini disperato.



E la bandiera dei tre colori è sempre stata la più bella. - di EUGENIO SCALFARI




Un secolo e mezzo è trascorso da quando nel cortile di Palazzo Carignano a Torino il Parlamento subalpino proclamò la nascita dello Stato italiano. L'anniversario si presta ad alcune riflessioni, rese ancor più attuali e necessarie dopo il discorso di Giorgio Napolitano a Reggio Emilia, luogo storico del Risorgimento, perché fu lì che la bandiera tricolore sventolò per la prima volta, portatavi dall'armata napoleonica che aveva fondato la repubblica Cisalpina su un territorio strappato all'Austria e ai Savoia, più o meno corrispondente a quello che la Lega usa chiamare Padania.

Riflettere sulle condizioni dell'Italia dopo 150 anni di storia unitaria, dei quali 85 di monarchia e 65 di repubblica, si presta anche ad un consuntivo che riguarda al tempo stesso le condizioni economiche e politiche del paese e i suoi valori culturali e morali.

Il tema consentirebbe molte citazioni, poiché i protagonisti sono tanti e ancor più quelli che hanno studiato quelle vicende, ma prometto di non farne alcuna e di dire ciò che penso con parole mie salvo una di Ingeborg Bachmann, che traggo dal bel libro di Marcello Fedele Né uniti né divisi. Eccola: "In ogni testa c'è un mondo e ci sono delle aspirazioni che escludono qualsiasi altro mondo e qualsiasi altra aspirazione. Eppure noi tutti abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine".

Si direbbe che il nostro presidente della Repubblica abbia avuto presenti quelle parole quando haammonito che trasformare uno Stato centralizzato in uno Stato delle autonomie è un'impresa e una sfida di grande rilievo che ha bisogno della collaborazione di tutti. Ma osservando quanto accade sotto i nostri occhi si direbbe anche che delle due proposizioni della Bachmann sopracitate, la seconda sia stata del tutto cancellata dallo spirito della nazione, mentre la prima domina la scena della politica, dell'economia e del sociale.

Si direbbe cioè che si stia svolgendo da anni una lotta di tutti contro tutti per la conquista dell'egemonia e del potere, il suo rafforzamento e la sua estensione, senza più alcun disegno del bene comune. Una lotta che esclude e non include, nella quale ciascuno dei protagonisti si sente depositario della verità e della legalità; ciascuno le plasma a proprio piacimento e se ne vale come armi contundenti; ciascuno si esprime in termini ultimativi chiedendo una resa o la cancellazione degli altri.

Quando un Paese in tempi di tempesta dà questo spettacolo di sé, vuol dire che siamo arrivati ad un punto di svolta estremamente rischioso. Ho usato fin qui il verbo al condizionale, sembrerebbe, si direbbe, ma si tratta di un'inutile cautela: la situazione di pericolo e di fragilità che stiamo attraversando richiede il verbo all'indicativo: il pericolo c'è, è evidente e palpabile.

Quando un terzo della generazione giovane è escluso dal lavoro; quando le diseguaglianze di reddito e di ricchezza sono arrivate a livelli intollerabili; quando la distanza tra Nord e Sud raggiunge livelli del 40-50 per cento per quanto riguarda l'occupazione, il reddito, le infrastrutture, la criminalità, gli sprechi amministrativi, l'assistenza sanitaria, l'efficienza educativa, l'economia sommersa; quando tutto questo avviene e si aggrava giorno dopo giorno senza che la classe dirigente se ne dia carico e vi ponga riparo, ebbene, occorre che l'allarme sia lanciato affinché gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani di buona volontà si uniscano scrollando dalle loro spalle indifferenza e delusione e prendano in mano il proprio destino e quello della comunità, parlino tra loro e si ascoltino. Per risalire la china in cui siamo precipitati, "abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo che qualcosa vada a buon fine".

* * *

Il Risorgimento, quel tratto di storia patria che ebbe come prologo la repubblica napoletana del 1799, continuò con i moti carbonari del 1821, con la fondazione della Giovane Italia del '30, con i moti del '31, con le Cinque Giornate milanesi del '48 e poi con la prima guerra d'Indipendenza, la repubblica di Roma del '49, l'insurrezione di Venezia, la sconfitta di Novara, la guerra del '59 in alleanza con la Francia, la spedizione garibaldina del '60 e infine la proclamazione dello Stato unitario nel marzo del '61, fu un esempio della collaborazione degli uni con gli altri affinché qualcosa andasse a buon fine.

Le aspirazioni erano diverse, come è normale che sia. I Savoia e Cavour volevano un regno del nord Italia, i Lombardi volevano l'autonomia e l'indipendenza, Carlo Cattaneo voleva il federalismo dei municipi e gli Stati Uniti d'Italia basato su tre o quattro entità territoriali confederate, Mazzini voleva la Repubblica unitaria in una Europa democratica e pacifica, Garibaldi voleva la rivoluzione popolare, l'indipendenza e l'unità conquistate dal basso, la fratellanza e un'idea di socialismo, ma voleva soprattutto l'Italia unita, fosse pure sotto Vittorio Emanuele.

Cavour era probabilmente il solo ad avere una visione d'insieme e gli strumenti per guidare pragmaticamente quel movimento i cui molteplici fili passavano tutti tra le sue mani. Aveva una diplomazia, un esercito, denaro, spie e una passione. Usò spregiudicatamente Garibaldi, pose il problema italiano nel consesso europeo radunato a Plombiers, usò la contessa di Castiglione e Costantino Nigra per stipulare l'alleanza con Napoleone III, volle il matrimonio tra la figlia del re e Girolamo Bonaparte, mandò i bersaglieri in Crimea. Cercò perfino di utilizzare Mazzini e Cattaneo. Cercò di bloccare l'impresa dei Mille ritenendola prematura, ma quando le Camicie Rosse salparono da Quarto fece di tutto perché la squadra navale inglese ne favorisse l'arrivo a Marsala. Alla fine mise in marcia l'esercito verso il Sud e lo fece seguire dai plebisciti di annessione.

Certo, fu un'annessione cui seguì l'atroce guerra civile del brigantaggio e del borbonismo cattolico. Atroce da ambo le parti, con un solco sanguinoso che inquinò la raggiunta unità per molti anni, aggravato da un centralismo sul modello piemontese, dalle tasse e dalla leva militare. Dall'ostilità del Vaticano e del mondo cattolico e dall'assenza delle "plebi" contadine.

La questione meridionale fu posta all'attenzione del Paese pochi anni dopo, da Giustino Fortunato e poi da Nitti cui si affiancò la prima leva del meridionalismo con la grande inchiesta sul Mezzogiorno di Franchetti.

Era un punto di vista documentato, ma difficilmente avrebbe potuto trasformarsi in una questione nazionale: anche il Nord aveva necessità e urgenze di modernizzazione e le fece valere con una forza direttamente proporzionale alle industrie e alle banche che ne rappresentavano il tessuto produttivo e finanziario. I confini territoriali e la grande pianura solcata dal Po e dai suoi affluenti fecero il resto, un polo di attrazione che trasferì dal Sud al Nord risorse, talenti e maggior attenzione dei governi.

Sarebbe fazioso tacere che un movimento di capitali dal Nord al Sud vi fu: la rete dei trasporti, la rete dell'elettricità, capitali e lavori pubblici: lo Stato non lesinò, ma il grosso di quelle risorse fu intercettato dalle clientele meridionali, in gran parte latifondiste e agrarie. L'alleanza politica fu tra la classe dirigente settentrionale e le clientele del Sud. Le plebi - come allora le chiamavano - presero la via della grande emigrazione verso la Francia e verso le Americhe.

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Io credo che il dibattito revisionista sul Risorgimento, che fu aperto a sinistra da Gramsci e dalla parte cattolica da Sturzo, sia stato utile e culturalmente fecondo. I continuatori furono liberali e radicali: Luigi Einaudi, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni.

Non altrettanto fecondo è stato il revisionismo più recente, che si trasformò in una denigrazione sistematica del moto risorgimentale con una venatura abbastanza evidente anche se dissimulata di nordismo. Fece da apripista al leghismo becero che ormai è un potere in grado di condizionare l'intero assetto politico del paese.

Il leghismo dalle mani pulite rappresenta un fenomeno corruttivo molto profondo: tollera, anzi puntella il potere delle "cricche" con uno scambio politico ormai chiarissimo: fate i vostri comodi nel Centro, nel Sud, nelle istituzioni ma in contropartita riconoscete che il Nord è cosa nostra, il federalismo siamo noi a gestirlo e a farne le leggi e i decreti di attuazione.

Così un partito che vale il 12 per cento in termini nazionali ma il 30 per cento nella Padania, è diventato non solo il possessore della golden share nella politica nazionale, ma la forza che sta costruendo un federalismo secessionista con la complice benevolenza del berlusconismo, tanto più eminente quantitativamente e tanto più fragile come potere forte. C'è da discutere se la Lega sia costola del berlusconismo o viceversa. Propendo per il viceversa: il berlusconismo è nordista non meno della Lega, ma da Torino a Treviso, con la sola eccezione del potere aggregato di Formigoni, è Bossi che governa. Se continua così, Berlusconi diventerà il proconsole di Bossi nell'Italia centromeridionale. Le premesse ci sono tutte e Tremonti ne è consapevole e fa parte del gioco.

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Dice Napolitano che, nonostante queste torsioni costituzionali che deformano il volto della democrazia, il moto risorgimentale sboccato nell'Unità ha di gran lunga migliorato le condizioni non solo del Nord ma anche del Sud. È certamente così in termini assoluti, ma non lo è in termini relativi e infatti è lo stesso Presidente a segnalare - da qualche tempo con accresciuto vigore - quelle criticità. In specie se riguardano i giovani. Se la media nazionale della disoccupazione giovanile segna un pauroso 30 per cento, nel Sud tocca il 40 con punte del 50. Un abisso, nel quale la gioventù meridionale rischia di scomparire diventando un esercito di disperati abbandonato a se stessi, senza futuro e senza presente. La coesione sociale è ormai una lastra di vetro che può infrangersi con conseguenze letali per tutto il Paese.

Proprio mentre si celebra l'unità d'Italia, la separazione tra le istituzioni e il popolo ha superato i livelli di guardia e non è un caso se la sola istituzione che raccoglie il massimo consenso sia proprio quella che ha sede al Quirinale: un'istituzione che però ha il solo potere della parola e della testimonianza, così come si era già visto quando toccò a Ciampi lo stesso compito.

Il Risorgimento può essere interpretato in molti modi, ma ce n'è uno che sottolinea la continuità ideale tra l'unità del paese e i valori culturali della modernità ed ha la sua icona nella bandiera dei tre colori. I tre colori e i tre principi: libertà eguaglianza fraternità.

La rinuncia a quei tre colori e a quei tre principi significherebbe la fine dell'unità perché su di essi si basa il patto costituzionale. Il federalismo agganciato a quei tre principi è un avanzamento; senza di essi ed anche senza uno solo di essi il federalismo disgrega il patto costituzionale, disgrega la convivenza, disgrega l'economia e la coesione sociale.

Facciamo voti perché ciò non avvenga, ma l'esito dipende da ciascuno di noi e dalla sua volontà di battersi affinché quei tre colori e i principi che rappresentano non siano cancellati dalla nostra storia.


sabato 8 gennaio 2011

Consulta, sul legittimo impedimento il verdetto slitta ancora: giovedì 13.


Timori tra i giudici: "Dobbiamo guardarci da tutte le parti, ma decideremo in piena autonomia"

Dovrebbe essere giovedì 13 gennaio, il giorno in cui Berlusconi saprà se tornerà ad essere un imputato contumace o se continuerà ad essere un imputato congelato, oltre che presidente del Consiglio. Alla Corte costituzionale, dove martedì mattina ci sarà l’udienza pubblica sul legittimo impedimento “ad premier e ministri”, sono state fissate camere di consiglio fino a giovedì quando la Corte dovrebbe emettere la sentenza sulla legge che ha consentito finora al Cavaliere di bloccare i suoi processi a Milano. “Una bocciatura della legge sarebbe indecente”, ha detto Berlusconi nei giorni scorsi.

Ricordiamo la considerazione del presidente del Consiglio a uno degli alti giudici, lui sospira e ammette le pressioni a cui sono stati sottoposti: “Dobbiamo guardarci da tutte le parti. Ciascuno può commentare come vuole, ma noi decideremo con l’indipendenza che la Corte ha saputo dimostrare”. Il toto sentenza è ai massimi livelli e anche se al Palazzo della Consulta non si vuole sentir parlare di “compromesso”, sembra proprio che dal confronto dei 15 giudici sul legittimo impedimento ad hoc, finora la posizione dominante sia proprio quella di emettere un verdetto che rappresenti una mediazione tra “le giuste esigenze della politica” e il “doveroso corso della giustizia”. Dunque non avrebbero la meglio né i giudici che si sono schierati per l’accoglimento della legge (Luigi Mazzella ha caldeggiato la norma con una lettera ai colleghi) né quelli che pensano sia incostituzionale perché “viola il principio di uguaglianza” e perché già il codice di procedura penale prevede che un imputato (e quindi anche Berlusconi) possa ottenere il rinvio dell’udienza se il giudice riconosce che l’impedimento sia legittimo.

La terza via, quella che dovrebbe venir fuori la settimana prossima, si chiama sentenza interpretativa di rigetto. Se dovesse esserci questo pronunciamento, la Corte respingerebbe i ricorsi dei giudici dei processi Mediaset, Mills e Mediatrade, ma contemporaneamente fisserebbe dei paletti: nessun automatismo del legittimo impedimento dietro un certificato del segretario generale di Palazzo Chigi, fino a 6 mesi consecutivi, come prevede la legge approvata nell’aprile scorso. Deve invece esserci la discrezionalità del giudice, tenendo presente anche quanto già stabilito dalla Consulta nel 2001, ai tempi dei processi a carico di Cesare Previti. Nel “sindacare” sul legittimo impedimento di un esponente politico, il giudice deve conciliare l’agenda degli impegni istituzionali con le esigenze del processo.

Non è escluso, però, che possa essere proclamata una illegittimità parziale della legge nella parte in cui riconosce come legittimo impedimento le “attività preparatorie e conseguenti nonché le attività comunque coessenziali alle funzioni di governo”. La Consulta la prossima settimana non dovrà pronunciarsi soltanto sull’ennesima norma ad personam, ma anche sull’ammissibilità di sei referendum tra cui quello sull’abolizione del legittimo impedimento speciale, promosso dall’Idv. Un referendum che non si terrebbe certamente soltanto nel caso in cui la Corte dovesse bocciare la legge, come ha fatto con i “lodi” Schifani e Alfano. Ma se i giudici dovessero bocciare la legge parzialmente, allora dovrà essere l’ufficio centrale della Cassazione a decidere sul voto previsto, eventualmente per la primavera prossima.

Se, invece, dovesse esserci la sentenza che a oggi viene data per favorita, ovvero quella interpretativa di rigetto, allora il referendum per abrogare il legittimo impedimento ci sarà. E potrebbe svolgersi mentre sono comunque ripresi i processi milanesi, con la difesa Ghedini-Longo impegnata ogni volta a presentare l’agenda di Palazzo Chigi per bloccare l’udienza. Ma se la legge ridarà una certa discrezionalità ai giudici, potranno anche respingere alcuni impedimenti. Insomma o per via della Consulta, o per via referendaria, l’attuale premier potrebbe tornare ad essere un imputato come gli altri. O quasi.

da Il Fatto Quotidiano dell’8 gennaio 2010



Futuro zero.


Pd e Pdl uniti da elettori sempre più vecchi, Bersani precipita tra lavoratori e disoccupati

Il segretario del Pd Bersani insieme ai militanti

Due partiti per vecchi. Un sondaggio riservato, commissionato dal segretario del Pd Pier LuigiBersani a una multinazionale del settore, conferma che il suo partito (stimato attorno al 25% del voto totale) vale il 30-32% tra gli ultracinquantacinquenni e poco più del 20% nelle fasce più giovani. Il Pdl, quotato al 29%, raccoglierebbe il 35,5% tra gli ultrasessantacinquenni. Anche la Lega va mediocremente tra i giovani, che sembrano attratti dalla sinistra-sinistra di Vendola e dagli altri leader corsari: Di Pietro, Fini, Casini. Tutti vanno meglio tra gli under 35.
Dal punto di vista di Bersani, lo scenario politico deve risultare vagamente schizofrenico. Da una parte c’è l’ex segretario Walter Veltroni che chiede il congresso anticipato del Pd e discetta di “fallimento della linea tutti contro Berlusconi”, in un tripudio di liti su politica delle alleanze e primarie sì/primarie no. Dall’altra parte c’è lo stato maggiore del Pdl che va a caccia di parlamentari all’asta per puntellare la maggioranza, mentre alcune teste d’uovo progettano “nuovi predellini”.

Questa abbagliante sagra del politichese natalizio ostacola la visuale su un dato strutturale della politica. I due maggiori partiti, Pdl e Pd, hanno fatto finalmente il vero “inciucio”, hanno trovato il grande accordo: insieme si stanno allontanando da interi pezzi della società italiana, ai quali risultano (ciascuno a suo modo) incomprensibili.

Se infatti Silvio Berlusconi è il leader più amato dalle casalinghe (il 40% delle quali scelgono Pdl), i pensionati sono attratti in egual misura da Pd e Pdl, che li attraggono per il 32 e rotti per cento ciascuno. Se in Italia votassero solo i pensionati, Pdl e Pd metterebbero insieme il 65% dei voti, anziché il 53,6% generale rilevato dallo stesso sondaggio.
Ciò significa che il consenso dei due partiti maggiori crolla in altre categorie. Innanzitutto il massiccio appoggio raccolto dai due partiti maggiori tra anziani e pensionati significa che Pdl e Pd vanno male tra chi lavora. Il partito di Bersani, se votasse solo chi ha un lavoro, prenderebbe il 22%. Il Pdl non andrebbe oltre il 26%. La Lega salirebbe al 14% (contro un dato generale dell’11,5%).

In particolare, il Pdl non riesce a catturare l’attenzione degli impiegati e degli insegnanti (24%) e degli studenti (20%). Il Pd è in crisi verticale tra i lavoratori autonomi, l’unico gruppo sociale in cui Pdl e Lega Nord raccolgono la maggioranza assoluta dei consensi: il partito di Bersani qui non va oltre il 14%. Ma soffre anche tra gli operai, i disoccupati e le casalinghe, tre categorie nelle quali il consenso del Pd è sotto il 20%. Gli operai ormai sembrano persi. Votano a sinistra (Pd, Idv, Pdci, Prc, Vendola) per il 35%, a destra (Pdl+Lega) per il 46%. I dati consegnati a Bersani confermano che il Pd è un partito che piace al pubblico impiego, cioè ai cosiddetti garantiti. E poco a chi se la passa male e tra essi, come abbiamo visto, ai disoccupati.
Quest’ultimo dato va letto insieme a quello sui livelli culturali. Infatti il Pd è anche il partito dei laureati. Se in Italia votassero solo i cittadini dotati di laurea, paradossalmente verrebbero esclusi dal voto alcuni influenti boss del Pd (a cominciare da Veltroni e D’Alema che risultano sprovvisti), ma Bersani, con la sua laurea in Filosofia, stravincerebbe le elezioni con il 28% dei voti e un’eventuale alleanza Pd-Di Pietro-Vendola-Prc-Pdci andrebbe trionfalmente al governo con quasi il 52% dei voti (35% tra gli operai, ricordiamo).

Lo scenario rimane teorico, visto che in Italia vige per ora il suffragio universale. Ma illumina un tema drammatico per entrambi i maggiori partiti. Per il Pdl, l’incapacità di risultare convincente per chiunque abbia qualche buona lettura alle spalle (tra i laureati, il partito di Berlusconi e la Lega non vanno oltre il 27%, contro un consenso generale che supera il 40%).
Per il Pd c’è un aspetto ancora più grave: i laureati sono pochi, come relativamente pochi sono gli studenti. Il dato forse più allarmante per Bersani è proprio questo. Il consenso del 26% tra gli studenti e del 22% tra gli under 25 indica una forbice pericolosa. Basta confrontare il dato con quello raccolto dai tre partiti di sinistra-sinistra, che tra gli under 25 vedono aumentare il loro voto del 50%, dall’8 al 12%.

Dunque, il Pd non sa parlare ai giovani che non possono studiare, agli operai, ai disoccupati, alle partite Iva, ai precari, alle casalinghe. Insomma, non sa più parlare a quella che una volta si chiamava la povera gente, quella che affidava alla sinistra un sogno di riscatto.

da Il Fatto Quotidiano del 7 gennaio 2011



Wikileaks e la guerra Usa all’informazione.




Il dipartimento della giustizia americana ha ordinato a Twitter di fornirgli tutti i dati e le informazioni in suo possesso in relazione ad una serie di accounts facenti capo a Julian Assange,Brigitta Jònsdottir (la parlamentare islandese promotrice della Icelandic Modern Media Initiative), Bradley Manning (il soldato accusato di aver comunicato a Wikileaks le informazioni trafugate dagli archivi del Pentagono) ed altri attivisti di Wikileaks.

L’ordine, stando a quanto si apprende, sarebbe stato trasmesso a Twitter il 14 dicembre scorso con esplicita richiesta di non informare neppure i titolari degli account oggetto di investigazione dell’ordine stesso. Successivamente, tuttavia, il 5 gennaio, la consegna del segreto verso i titolari degli account sarebbe stata revocata e questi ultimi sarebbero stati, quindi, informati dell’indagine in corso. Stando a quanto si legge nell’ordine di acquisizione delle informazioni presso Twitter, i dati e le informazioni richieste risulterebbero necessari nell’ambito di un procedimento penale attualmente pendente.

Il Dipartimento della Giustizia statunitense, dopo settimane di attesa e minacce indirette, sembrerebbe, dunque, aver rotto ogni indugio ed essere ora intenzionato a trascinare Julian Assange e quanti lo hanno sin qui supportato, sul banco degli imputati, anche se non è dato sapere quale sia esattamente il reato contestatogli. Si tratta, tuttavia, presumibilmente di cospirazione in danno degli Stati Uniti d’America. Siamo ad un passo da un’autenticadichiarazione di guerra all’informazione del XXI secolo.

Il dipartimento della Giustizia Usa, quello del presidente Barack Obama che aveva manifestato l’intenzione di dar vita alla più trasparente amministrazione nella storia degli Stati Uniti d’America, chiede ad un fornitore di servizi di comunicazione elettroniche di fornirgli dati ed informazioni relativi all’attività online svolta da una parlamentare di un paese straniero.
Si tratta, come ha già annotato il ministro dell’Interno islandese di un fatto gravissimo, soprattutto se si considera che il crimine per il quale si procede consiste, nella sostanza – in attesa di conoscere la contestazione formale – nell’aver contribuito alla diffusione di informazioni di indubbia rilevanza per l’opinione pubblica, ma classificate come segrete dalla stessa amministrazione procedente.

E’ difficile – peraltro senza conoscere regole e riti del diritto statunitense – prevedere come andrà a finire e, soprattutto, capire se l’amministrazione Usa sta “solo” mostrando i muscoli e cercando goffamente di fare terra bruciata attorno a Julian Assange o, piuttosto, crede davvero di poterportare alla sbarra Wikileaks ed addirittura la parlamentare islandese, rea, per quanto sin qui noto, di aver proposto un disegno di legge volto a trasformare l’Islanda in un “paradiso dell’informazione”.

E’, però, fuor di dubbio che soffia vento di guerra dagli Usa e che la guerra in questione, quella che potrebbe scoppiare nelle prossime ore, sarebbe uno dei conflitti più “immateriali” della storia dell’uomo ma, ad un tempo più devastanti: si tratterebbe, infatti, di una guerra a colpi di informazioni contro l’informazione. Troppo difficile, stando seduti da questa parte dell’oceano, capire chi ha ragione e chi ha torto a norma di legge e, persino, se ed in che misura sia il diritto americano a dover essere utilizzato per dirimere il conflitto ma, è egualmente difficile non trovare miope e donchisciottesca la reazione statunitense.

Julian Assange e Wikileaks non sono che la punta dell’iceberg di un universo dell’informazione che, ormai, si è fatto largo nell’oceano della Rete. Metterli a tacere – ammesso che ciò sia possibile – non varrà a tornare indietro nel tempo ed a restituire al segreto di stato l’impenetrabilità di ieri. E’ facile prevedere che il posto di Wikileaks e dei suoi verrà presto preso da altri che, magari, questa volta, agiranno con il volto coperto sotto un passamontagna digitale e sfrutteranno le leggi, non lontane a venire, di un paese che, come l’Islanda, scelga di ergersi a paradiso della libertà di informazione e di sfidare, così, le leggi americane, proprio come, sino a ieri, molti paesi costituiti da pugni di sabbia nell’oceano, hanno sfidato i regimi tributari delle nazioni più ricche e potenti.

E’ un peccato che tanta miopia politica – sfortunatamente diffusa nella gerontocrazia di Palazzo – abbia colpito anche l’amministrazione di Barack Obama, quella che si era candidata ad essere la più trasparente della storia e la protettrice degli informatori ed oggi, per uno strano scherzo del destino, si trova a combattere una guerra contro un “eccesso di trasparenza” o, piuttosto, contro un “abuso dei media e della libertà di espressione”.