giovedì 28 aprile 2011

Berlusconi e l’attacco ai magistrati, Caselli: “E’ guerra totale alla legalità”. - di Gian Carlo Caselli



Con una lettera al “Corriere della Sera” Gian Carlo Caselli, procuratore di Torino risponde all'attacco ai magistrati: “parlare di br nelle procure, oltre che vergognoso, significa essere fuori dalle democrazie occidentali”. E difende Ingroia: “su di lui discredito gratuito, come accadde al pool di falcone e borsellino. Ma il bersaglio grosso è la sedicente riforma ‘epocale’ della giustizia che consegnerà alla maggioranza politica contingente (poco importa se verde, azzurra o rossa) il potere sulle indagini”.


"Caro direttore,
ormai è guerra totale alle Procure. Guerra unilaterale, combattuta con profusione torrentizia di mezzi. Con tattiche diverse, ma tutte ispirate al disegno di mortificare la magistratura; ridurne l’indipendenza; restringerne gli spazi d’intervento. In modo da circoscrivere il rischio che anche i potenti debbano rispondere delle violazioni di legge commesse.

L’escalation è inarrestabile: si parte sostenendo che per fare il lavoro di magistrati bisogna essere malati di mente o che i magistrati (variazione leggiadra) sono un cancro da estirpare; si prosegue invocando una commissione d’inchiesta col compito di stabilire che la magistratura è un’associazione a delinquere con fini eversivi; poi si organizzano manifestazioni di piazza contro i giudici accusati di essere avversari politici; infine si tappezzano i muri di manifesti incivili con la scritta «fuori le Br dalle Procure» .

Strano: anche le Br avevano dichiarato una guerra unilaterale, stabilendo – dal mondo cupo della clandestinità – quali «nemici» meritassero di vivere storpiati dalle gambizzazioni e quali invece dovessero morire ammazzati. E molti sono i magistrati che la violenza terroristica ha ucciso. È evidente allora che parlare di Br nelle Procure, oltre che vergognoso, significa collocarsi fuori dagli standard delle democrazie occidentali, non diversamente da coloro che per tutelare i loro privilegi presentano la nostra giustizia come un campo di battaglia fra interessi contrapposti.

La guerra alle Procure registra da ultimo un furibondo attacco ai Pm di Palermo ed in particolare ad Antonio Ingroia in relazione al «caso Ciancimino», con la delicata richiesta di «tirar fuori l’articolo 289 codice penale (attentato ad organi costituzionali) che punisce con 10 anni di galera chi cospira contro lo Stato». So bene che Ingroia non gradisce difese d’ufficio. Sa difendersi da solo (l’ha fatto molto bene proprio in un’intervista al Corriere). Parlano per lui, in ogni caso, gli straordinari successi ottenuti nel corso di un impegno antimafia ormai più che ventennale.

Ma la raffica di assalti dei giorni scorsi non può passare sotto silenzio. Intendiamoci: il caso Ciancimino è obiettivamente controverso (come lo stesso Ingroia non si stanca di ricordare), per cui vi è spazio per critiche ed opinioni divergenti. Ma tutt’altra cosa è farne un pretesto per screditare ingiustamente e addirittura mettere sul banco degli imputati magistrati onesti e coraggiosi: secondo un copione già sperimentato ai tempi della distruzione del pool di Falcone, accusato di scorretti rapporti con i collaboratori di giustizia (indimenticabile la favola dei cannoli portati a Buscetta), con la conseguente, micidiale calunnia di svilire la ricerca della verità ad azione politica ispirata da una fazione ai danni di un’altra.

Ma Ingroia (non se n’abbia a male…) è un bersaglio piccolo. Il bersaglio grosso è spianare la strada alla sedicente riforma «epocale» della giustizia: quella che consegnerà alla maggioranza politica contingente (poco importa se verde, azzurra o rossa) il potere di aprire o chiudere il rubinetto delle indagini penali e di regolarne l’intensità. Può esserci argomento più suggestivo di una «cospirazione politico giudiziaria», di una «calunnia di stato» avallata da un notissimo magistrato? Alla lunga sotto le grottesche accuse di macchinazione apparirà l’insofferenza per il controllo di legalità. Ma intanto la tecnica di presentare come verità anche le tesi più assurde è partita: implacabile. E qualcosa purtroppo rischia di restare."

mercoledì 27 aprile 2011

Il 6 maggio l'Anm organizza la "notte per la Costituzione"


Nino Di Matteo, presidente Anm Palermo: "E' opinione diffusa in tutta la magistratura come questa riforma riduca il potere giudiziario servo di quello politico".


di Giuseppe Pipitone

Antonino Di MatteoIl sera del prossimo 6 maggio le luci del Palazzo di Giustizia di Palermorimarranno accese. La giunta distrettuale dell'Associazione Nazionale Magistrati ha infatti organizzato una manifestazione a difesa della Costituzione. La "notte per la Costituzione" prenderà il via dalle ore 20. In un periodo in cui gli articoli della carta costituzionale corrono il pericolo concreto di essere stravolti dall'attuale maggioranza di governo, i magistrati palermitani hanno voluto aprire le porte del tribunale ai cittadini e dibattere con lorofar sentire la loro voce. "E' una manifestazione che abbiamo organizzato perchè sentiamo il bisogno di spiegare e discutere con i cittadini degli attuali pericoli per la fondamentale tenuta della separazione dei poteri in Italia" spiega Antonino Di Matteo, sostituto procuratore alla Dda di Palermo e presidente distrettuale dell'Anm.
"E' opinione diffusa in tutta la magistratura italiana, senza differenze di ruolo o di formazione culturale - sottolinea sempre Di Matteo - come questa riforma riduca il potere giudiziario in condizione servile nei confronti di quello politico, mettendo a repentaglio l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. E' necessario che su questi importantissimi temi si cerchi il confronto con la cittadinanza".

http://www.iquadernidelora.it/articolo.php?id=218


Luttwak Berlusconi non ha più credibilita politica 26 04 11



"Politici vanno a incontri se fanno guadagnare voti. Ora i leader non incontrano volentieri Berlusconi perche' recentissimamente ha perso credibilita' politica". Lo ha detto il politologo Edward Luttwak nel corso di Ballaro'

Associazione a delinquere e truffa: in manette il deputato Minardo (Mpa).


Il presidente della commissione Affari istituzionali dell'Ars è accusato di truffa e associazione a delinquere.


di Piera Farinella

Riccardo MinardoL’ennesimo arresto all’Ars. Dopo il deputato del Pd Gaspare Vitrano, sorpreso con una mazzetta in tasca e poi trasferito ai domiciliari e il deputato del Pid Fausto Fagone, coinvolto nell’inchiesta Iblis e tutt’ora in cella, è la volta dell’autonomista Riccardo Minardo. Il deputato regionale dell’Mpa, presidente della I commissione dell'Ars Affari istituzionali ed ex parlamentare nazionale, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza nell'ambito di un'inchiesta su una presunta truffa legata a finanziamenti statali ed europei. Le accuse nei suoi confronti sono di associazione per delinquere, truffa aggravata e malversazione ai danni dello Stato.

L'inchiesta, condotta dalla Procura di Modica punta i riflettori sui finanziamenti al Copai, il Consorzio di sviluppo dell'area iblea e sull'acquisto di Palazzo Pandolfi, un antico edificio di Pozzallo (Ragusa) che doveva essere destinato aCentro Polivalente, di un altro antico palazzo nobiliare a Modica, Palazzo Lanteri, e della emittente Radio Onda Libera. Le indagini hanno coinvolto diverse persone e hanno consentito di accertare l’esistenza “di un’attività associativa criminosa”, utilizzata dagli indagati per la commissione di un numero imprecisato di delitti. Le indagini delegate dalla Procura di Modica alla Guardia di Finanza di Ragusa avrebbero fatto emergere la gestione privatistica del patrimonio del Copai, costituiti da fondi di provenienza pubblica.

Si tratterebbe di una frode messa in atto per percepire indebitamente denaro dallo Stato, dalla Regione siciliana e da altri enti pubblici, per arricchirsi personalmente. Il deputato dell’Mpa, oltre che di associazione per delinquere, truffa aggravata e malversazione ai danni dello Stato, è accusato anche di estorsione aggravata. Avrebbe costretto quattro imprenditori agricoli, dai quali era stato incaricato di istruire le loro istanze per accedere a dei fondi Por 2000/2006, a consegnare la somma di 112.784,24 euro con la minaccia di farli decadere dal finanziamento e di far restituire le somme già percepite a titolo di acconto.

A questo punto c'è chi propone di tornare alle urne. Il responsabile nazionale Organizzazione dei Comunistiitaliani e componente dell’esecutivo nazionale della Federazione della Sinistra Orazio Licandro afferma che "questi nuovi fatti dimostrano che la stagione a Palazzo dei Normanni si è esaurita” e che si "chiude all'insegna delle inchieste giudiziarie". E’ dello stesso avviso il deputato del Pd all’Ars, Giovanni Barbagallo, che afferma:"Le commissioni legislative all'Ars vanno rinnovate senza ulteriori ritardi, non solo perché due presidenti di commissione (Fagone e Minardo) sono stati arrestati, ma perché la rappresentanza dei gruppi parlamentari all'Ars è ampiamente mutata, sia con riferimento alla consistenza numerica, sia anche in relazione al numero dei gruppi stessi e alla loro equilibrata collocazione politica".

http://www.iquadernidelora.it/articolo.php?id=227


Davanti alle coste siciliane arrivano le trivelle dei petrolieri.


La Transunion comincerà a sondare i fondali tra qualche giorno. In estate potrebbero iniziare le trivellazioni a 13 miglia da Pantelleria. L'Italia chiede il 4 per cento di royalty contro l'85 per cento della Libia e l'80 della Russia.


di DARIO PRESTIGIACOMO e LORENZO TONDO

La Transunion ha già annunciato ai comuni iblei che a fine aprile inizierà a sondare il fondale dello specchio d'acqua davanti a Pozzallo, a 27 chilometri dalla costa. L'Audax, invece, di sonde non ha più bisogno: in estate, si legge sul suo sito web, potrebbe cominciare a trivellare a 13 miglia da Pantelleria. Non molto lontano, nei dintorni delle Isole Egadi, anche la Northern Petroleum riscalda i motori delle sue piattaforme.

Sotto l'ombra dell'inferno libico e quella di un possibile blackout energetico, la primavera delle trivelle sul mar Mediterraneo - esorcizzata dal ministro dell'Ambiente Stefania Prestigiacomo che prometteva di difendere a spada tratta il Canale di Sicilia, costi quel che costi - è oramai alle porte.

Secondo i dati delle associazioni ambientaliste, sarebbero più di cento i permessi di ricerca di idrocarburi richiesti o vigenti nel Mediterraneo. Alcuni concessi a un tiro di schioppo da sabbie dorate e banchi corallini. Le piattaforme, che - secondo quanto riportato dai bollettini pubblicati sui siti delle compagnie petrolifere - potrebbero già entrare in azione tra poche settimane, confermano i timori manifestati negli ultimi mesi dagli ambientalisti: il decreto anti-trivella, firmato e fortemente voluto dal ministro Prestigiacomo, emanato lo scorso 26 agosto, non servirà a proteggere le acque del Mediterraneo.

La Northern Petroleum lo sa e lo scrive: "La legislazione italiana che vieta le trivellazioni off-shore entro le 12 miglia dalla costa - si legge nel comunicato - avrà un effetto irrilevante sugli assetti della compagnia". Così, in barba al no della Regione e a quello dei sindaci, la Northern fa sapere di poter estrarre dai suoi giacimenti ben 4 miliardi di barili che tradotti in quattrini significano 400 miliardi di euro nelle tasche dei petrolieri. Briciole o nulla per lo Stato italiano dove le royalty che le compagnie minerarie lasciano al territorio dove estraggono senza imporre franchigie arrivano a malapena al 4 per cento contro l'85 di Libia e Indonesia, l'80 di Russia e Norvegia, il 60 in Alaska, e il 50 per cento in Canada.

"Al di là dell'aspetto ecologico, per l'Italia le trivelle sono anche antieconomiche" spiega Mario Di Giovanna, portavoce di "Stoppa la Piattaforma". "Se ci adeguassimo agli standard delle royalty degli altri paesi, facendo i conti della serva, potremmo estinguere, solo con una minima parte del canale di Sicilia, il 25 per cento del debito pubblico italiano".

In Italia, la franchigia per le piattaforme off-shore è di circa 50.000 tonnellate di greggio l'anno, equivalenti a 300 mila barili di petrolio. Sotto questo tetto di estrazione, le società non sono tenute a pagare nemmeno l'esiguo 4 per cento di royalty. La piattaforma Gela 1, a 2 km dalle coste siciliane, dal 2002 al 2008 ha prodotto petrolio e gas sempre sotto la soglia di franchigia. La Prezioso e la Vega producono invece il doppio oltre il limite (circa 100/120 mila tonnellate), pagando la franchigia solo per la metà della loro produzione. Forti delle agevolazioni fiscali italiane, le società le decantano ai loro investitori. A pagina 7 del rapporto annuale della Cygam (società petrolifera con interessi nell'Adriatico) si parla del nostro paese come il "migliore per l'estrazione di petrolio off-shore", sottolineando la totale "assenza di restrizioni e limiti al rimpatrio dei profitti".

Intanto Atwood Eagle, la contestatissima trivella dell'Audax che dall'11 luglio scorso galleggiava a 13 miglia dalle coste di Pantelleria, dopo un temporaneo abbandono dell'area, tra qualche mese potrebbe riprendere i sondaggi, mentre Shell ha già detto di aspettarsi dal Canale di Sicilia 150mila barili al giorno. Qualche settimana fa la Transunion Petroleum Italia ha inviato ad alcuni comuni della zona iblea, tra cui Pozzallo, Modica e Ragusa, un'istanza di avvio della procedura di valutazione d'impatto ambientale relativa ad un'area con un'estensione di 697,4 km quadrati, situata nel Canale di Malta. Le autorità locali hanno tempo fino al 27 aprile per le dovute osservazioni.

Il decreto anti-petrolio potrebbe non salvare nemmeno il mare agrigentino, dove la Hunt Oil Company ha avanzato una richiesta di permesso a poche miglia dall'Isola Ferdinandea, una delle tante bocche vulcaniche di un massiccio complesso sottomarino: il regno di Empedocle, l'Etna marino, il gigante sommerso che fa ancora tremare i fondali.

http://palermo.repubblica.it/cronaca/2011/04/26/news/davanti_alle_coste_siciliane_arrivano_le_trivelle_dei_petrolieri-15387797/




Strage del rapido 904, indagato Totò Riina. Per i pm fu lui il mandante dell'attentato.



Napoli - (Adnkronos) - L'esplosivo utilizzato per la strage del 1984, in cui morirono 16 persone, è lo stesso di quello impiegato per l'eccidio di via D'Amelio a Palermo avvenuto sette anni e mezzo dopo.

Napoli, 27 apr. - (Adnkronos) - Un'ordinanza di custodia cautelare e' stata consegnata in carcere all'ex capo di Cosa nostra Toto' Riina per la strage del Rapido 904 che il 23 dicembre del 1984 provoco' la morte di 16 persone. L'inchiesta che ha portato all'arresto di Riina e' stata coordinata dai pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli che accusano l'ex numero uno di Cosa nostra come il mandante della strage. Per questa vicenda vi sono gia' stati degli altri condannati in via definitiva tra i quali l'ex boss della mafia Pippo Calo'.

L'ordinanza di custodia cautelare e' stata firmata dal giudice delle indagini preliminari presso il Tribunale di Napoli Carlo Modestino su richiesta dei pm della Direzione distrettuale antimafia Sergio Amato e Paolo Itri coordinati dal procuratore aggiunto Alessandro Pennasilico.

Tra gli elementi nuovi dell'inchiesta sul Rapido 904 vi sarebbe la certezza che l'esplosivo utilizzato per la strage del treno di Natale e' lo stesso di quello utilizzato per l'eccidio di via D'Amelio a Palermo avvenuto sette anni e mezzo piu' tardi dove furono uccisi il giudice Paolo Borsellino e cinque tra uomini e donne della sua scorta.

Il Rapido 904 era partito da Napoli il 23 dicembre 1984 ed era diretto a Milano ma nei pressi della galleria di San Benedetto Val di Sambro, nel Bolognese, a causa di una bomba posizionata sul portabagagli della carrozza 9 di seconda classe esplose. Erano le 19.08, il Rapido 904 era pieno di viaggiatori che tornavano al nord per festeggiare il santo Natale. Nel tunnel la bomba esplose, non fu un fatto casuale ma studiato a tavolino per provocare un effetto molto piu' violento.

A incastrare Toto' Riina sarebbero state le dichiarazioni di numerosi collaboratori di giustizia di origini siciliane. Ma, gli investigatori (l'indagine e' stata condotta dai carabinieri del Ros di Napoli) hanno anche eseguito accertamenti riguardo alla provenienza e alle caratteristiche oggettive e alla composizione chimica dei materiali esplosivi utilizzati per compiere la strage e dei congegni elettronici utilizzati per l'attentato o comunque ad esso direttamente o indirettamente ricollegabili.

Dagli accertamenti eseguiti e' emerso tra l'altro che una parte dell'esplosivo utilizzato per la strage del rapido 904 -Semtex H- proveniva da un'unica originaria fornitura di armi e materiale esplodente risalente agli inizi degli anni '80 destinata ai clan della mafia siciliana parte della quale venne poi successivamente sequestrata nel febbraio del '96 dalla Dia di Palermo in Contrada Giambascio di San Giuseppe Jato. Il sequestro fu considerato all'epoca il piu' grande arsenale della mafia mai scoperto nel secondo dopoguerra.

Successivamente emerse che l'esplosivo sequestrato a San Giuseppe Jato aveva la stessa identica provenienza di quello ritrovato a suo tempo nel maggio del 1985 in provincia di Rieti nella disponibilita' di Pippo Calo' presso il casale di Poggio San Lorenzo dove fu scoperto lo stesso tipo di esplosivo "Semtex H" utilizzato nella strage di Natale. Si tratta di due mine anticarro di fabbricazione belga e di alcuen saponette di tritolo di probabile provenienza sovietica identiche a quelle a suo tempo trovate nella disponibilita' di Calo'.

Dalla consulenza sarebbe poi emerso che in entrambi gli arsenali, quello di San Giuseppe Jato e di Poggio San Lorenzo era presente lo stesso tipo di esplosivo plastico "Semtex H" risalente alla produzione anteriore al 1989 a base di pentrite e T4 in composizione chimica analoga tra loro con la prevalenza in entrambi i casi della componente di pentrite.





Biotestamento, l’Udc tenta il blitz. Una prova scivolosa per la maggioranza spaccata. - di Sara Nicoli


Trappole parlamentari, avvertimenti elettorali. Mentre la maggioranza va a pallino sul fronte libico e si piega ai francesi su Parmalat, alla Camera si consuma l’ennesimo regolamento di conti sulla delicata questione del biotestamento. Da settimane lasciato in naftalina perché considerato troppo spinoso per essere discusso in campagna elettorale, il ddl sul fine vita risorge oggi a Montecitorio per volere dell’Udc, intenzionata a chiedere l’inversione dell’ordine del giorno dei lavori e, quindi, a rimettere la palla in campo. La maggioranza è in ordine sparso, in questo caso incapace di controllare i numeri e, dunque, esposta ad essere impallinata anche dal fuoco amico. Persino Domenico Scilipoti, l’icona dei Responsabili, ieri era stato netto sul biotestamento: “Se qualcuno mi dicesse che farei la fine della povera Eluana Englaro, credo che vorrei che mi staccassero i fili…questa legge, cosi com’è, io non la voto”.

Insomma, sul fine vita la maggioranza numerica alla Camera è incontrollabile. Non è granitico neppure il Pd, dove l’area cattolica di Fioroni si è dichiarata a favore della legge così come scritta dal Pdl, mentre la posizione contraria dell’Idv è sempre stata netta. Difficilmente monitorabili anche gli uomini di Fini e, appunto, i Responsabili, provenienti da aree politiche diverse. Insomma, una situazione a geometria variabile. L’agguato politico dell’Udc di chiedere l’inversione dell’ordine del giorno ha quindi una doppia valenza; quella di mettere in difficoltà la maggioranza in campagna elettorale su un tema etico e di obbligarla – probabilmente – anche a ventilare l’ipotesi di mettere una fiducia sulla legge che potrebbe diventare scivolosissima. D’altra parte, il testo di legge è gravato da oltre 2 mila emendamenti, ma il Pdl ha fretta di chiudere. E con una scusa che puzza davvero di bruciato: “Vogliamo chiudere il prima possibile – ha spiegato ieri Domenico di Virgilio, relatore di maggioranza della legge – per difendere i cittadini da ulteruori intromissioni della magistratura che non può decidere sul fine vita”. Insomma, l’aggressione pidiellina al diritto non conosce confini. Così come l’uso elettorale della medesima.

Ma cosa c’è scritto dentro il ddl sul biotestamento che divide, in modo assolutamente trasversale, le forze politiche in campo? Non parla di testamento biologico ma di “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”. Si vieta, all’art. 1, ogni forma di eutanasia e di assistenza al suicidio, si riconosce che “nessun trattamento sanitario può essere attivato a prescindere dall’espressione del consenso informato” e si specifica che “in casi di pazienti in stato di fine vita o in condizioni di morte prevista come imminente, il medico debba astenersi da trattamenti straordinari non proporzionati, non efficaci o non tecnicamente adeguati rispetto alle condizioni cliniche del paziente o agli obiettivi di cura”.

L’articolo 2, tra l’altro, stabilisce che tutori, curatori e amministratori di sostegno, in caso di soggetti incapaci, abbiano la facoltà di prendere decisioni “avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute e della vita dell’incapace”. L’art. 3 stabilisce poi che nelle Dat (le dichiarazioni di alleanza terapeutica) “il dichiarante esprima il proprio orientamento in merito ai trattamenti sanitari in previsione di un’eventuale futura perdita della propria capacità di intendere e di volere” e “dichiari il proprio orientamento circa l’attivazione o non attivazione di trattamenti sanitari”. Può “anche essere esplicitata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale”. Non sono ammesse indicazioni che violano il divieto penale di omicidio del consenziente e del suicidio assistito, mentre, nel rispetto della Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità, “alimentazione ed idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”. Che, però, è facoltativa, dura cinque anni, può essere modificata in ogni momento e assume rilievo solo se il soggetto si trova “nell’incapacità permanente di comprendere le informazioni circa il trattamento sanitario e le sue conseguenze e, per questo motivo, di assumere le decisioni che lo riguardano”.

Le volontà espresse nelle Dat sono prese in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario (o i parenti, se non c’è fiduciario nominato) annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno, ma “non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente o comunque in contrasto con le norme giuridiche o la deontologia medica”. In caso di contrasto tra fiduciario e medico curante, la questione è sottoposta a un collegio di medici, “il cui parere è vincolante per il medico curante, il quale non è comunque tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico. Resta comunque sempre valido il principio della inviolabilità e della indisponibilità della vita umana”.