mercoledì 6 luglio 2011

Traffico di migranti, decine di arresti “Arrivavano in costante pericolo di vita”.


Accusati di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, i trafficanti di uomini sono stati scovati in Lombardia, Emilia Romagna, Puglia, Abruzzo, Lazio e Calabria. L'inchiesta ha consentito di ricostruire l'organigramma dell'organizzazione: un vertice operativo in Grecia e Turchia e diverse cellule presenti in tutta Italia

Trafficanti di uomini di origine afghana, pachistana e indiana facevano arrivare clandestinamente in Italia migliaia di migranti (soprattutto pachistani, iracheni e afghani) per poi trasferirli in altri paesi europei, specie in Germania, Svizzera, Danimarca, Austria, Francia e Belgio. La Polizia li ha arrestati questa mattina all’alba con operazioni in tutta Italia. Le indagini, avviate a maggio del 2010 in seguito al consistente aumento dei flussi migratori, sono state condotte dal Servizio centrale operativo (Sco) e dalle squadre mobili di Lecce, Bologna e Ravenna, sotto il coordinamento della Direzione nazionale antimafia e dalle procure di Bologna e Lecce.

Accusati di associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, decine di persone sono state tratte in arresto in Lombardia, Emilia Romagna, Puglia, Abruzzo, Lazio e Calabria. L’inchiesta ha consentito di ricostruire l’organigramma dell’organizzazione: un vertice operativo in Grecia e in Turchia e diverse cellule presenti nel nostro paese, a Roma, Milano, Cremona, Bologna, Bergamo, Brescia, Teramo, Ascoli e Bari.

I migranti che l’organizzazione sgominata dalla polizia faceva arrivare clandestinamente in Italia, erano “in costante pericolo di vita” – come hanno accertato gli investigatori – per le modalità con cui avvenivano i viaggi, sia quelli verso l’Italia che quelli dal nostro paese verso gli altri paesi europei. I trafficanti utilizzavano infatti sia piccole imbarcazioni che puntavano sulle coste pugliesi, sia le navi di linea dirette ai porti sull’Adriatico.


Manovra, Tremonti: “Tagliati costi politica” Imbarazzo sulla norma salva Berlusconi.


Il sottosegretario Gianni Letta ha annunciato l'avvenuta firma del Capo dello Stato al Dl. Il ministro dell'Economia: "Sarà legge nei primi giorni di agosto". E sul lodo Mondadori: "Risponderà palazzo Chigi". Mentre il ministro Romani ha difeso la norma che tutelava Fininvest: "Era civiltà e responsabilità".


Del lodo Fininvest “ne parlerà Palazzo Chigi. La riunione di ora è per discutere del testo che c’è e c’è già molto da discutere. Ho già letto abbastanza retroscena”. Giulio Tremonti ha così evitato di rispondere sulla paternità della norma salva Berlusconi inserita nella manovra correttiva e poi cancellata. Il titolare dell’Economia, durante la conferenza stampa indetta per illustrare il testo del dl oggi firmato dal Capo dello Stato, ha suggerito di chiedere lumi a Gianni Letta ma il sottosegretario alla Presidenza aveva già lasciato la conferenza stampa “per altri impegni”. Rimane dunque ancora sconosciuto chi e perché abbia inserito il codicillo che garantiva al premier di non pagare subito i 750 milioni stabiliti in primo grado alla Cir di Carlo De Benedetti. E se Tremonti ha preferito non rispondere, il ministro Paolo Romani ha preso spontaneamente la parola per difendere la norma. “Era una norma di responsabilità, faceva pagare le sanzioni all’azienda all’atto della sentenza della Cassazione perché pagare prima mette in difficoltà la salute delle aziende”.

Le quasi due ore di conferenza stampa non sono dunque servite a chiarire di chi fosse la “manima”, per dirla con Pierluigi Bersani. Il ministro Tremonti, insieme ai colleghi dell’esecutivo Romani, Maurizio Sacconi, Roberto Calderoli e Renato Brunetta, ha illustrato a grandi linee la manovra senza preoccuparsi di dare spiegazioni. A parte “chiarire” che l’incontro con la stampa previsto ieri pomeriggio è stato rimandato “solo” per problemi di voli. “Vorrei davvero non fossero considerati una scusa per non fare la conferenza stampa che, come vedete si sta svolgendo oggi”. Tremonti ha inoltre fatto distribuire ai giornalisti un comunicato nel quale si illustrano i problemi del volo che l’avrebbe dovuto portare a Roma e la tempistica degli avvenimenti. “Ci hanno fatto atterrare a Pisa da dove avrei dovuto proseguire in treno o in autobus, quindi ho chiesto di spostare la conferenza stampa”, ha detto.

Poi, il titolare di via XX Settembre è passato alla manovra sottolineando di aver “tutelato i risparmi delle famiglie”, ha detto. “Se si vuol fare una riforma per legge bisogna fare una legge che rispetti la legge. Resta la possibilità di fare un intervento alla Masaniello ma bisogna invece seguire un percorso che rispetti la struttura istituzionale del Paese”, ha sottolineato. Lo sviluppo “non si fa con un governo e non si fa con una legge”, ha aggiunto. E la crescita “non è un momento istantaneo”. Tremonti si è detto “convinto che questa manovra, che si aggiunge a quanto fatto negli anni passati, ci porta linearmente sul sentiero del pareggio di bilancio”. Un pareggio di bilancio “fondamentale perché meccanicamente porta alla discesa del debito”, prosegue Tremonti, che ricorda come in Italia, “negli ultimi anni la tradizione sia quella di un perfetto centramento degli obiettivi di bilancio europei”.

Per il pareggio di Bilancio un contributo di 17 miliardi – 2 nel 2013 e 15 nel 2014 – dovranno arrivare dalla delega assistenziale, prevista all’interno della delega fiscale, ha spiegato Tremonti. “Per l’anno in corso, il 2011, c’è un’esigenza di correzione, di manutenzione, di 2 miliardi di euro, e sono certo – ha sottolineato Tremonti – del fatto che l’obiettivo fissato al 3,9 sarà centrato. Nel 2012 c’è un’esigenza di correzione pari a 6 miliardi che si aggiungono a tutto quello che è stato fatto negli anni passati. Per il 2013 il dl prevede una correzione per 18 miliardi ai quali si aggiungono 2 che devono arrivare dalla delega assistenziale. Per il 2014 la correzione è di 25 miliardi dal decreto legge più 15 dalla delega assistenziale”.




Allarme pensioni, per il 42% dei giovani dipendenti non arriverà a 1.000 euro.


Roma - (Adnkronos) - La stima da uno studio Censis-Unipol: in molti si troveranno ad avere un reddito più basso di quello di inizio carriera. E la previsione riguarda solo i 'fortunati' con contratti fissi. Esclusi gli autonomi, gli atipici e i disoccupati. Sacconi: "Dati opinabili".

Roma, 6 lug. - (Adnkronos) - Il 42% dei lavoratori dipendenti che oggi hanno tra i 25 e i 34 anni andrà in pensione, nel 2050, con meno di 1.000 euro al mese. E' quanto emerge dai risultati del primo anno di lavoro del progetto 'Welfare, Italia. Laboratorio per le nuove politiche sociali' condotto dal Censis e dall'Unipol.

Attualmente, infatti, i giovani al lavoro che guadagnano una cifra inferiore ai 1.000 euro sono il 31,9%: ciò significa, si legge nel rapporto, "che in molti si troveranno ad avere una pensione pubblica più bassa del reddito di inizio carriera". Una previsione, questa, che riguarda i più "fortunati" cioè i 4 milioni di giovani oggi ben inseriti nel mercato di lavoro con contratti standard; senza cioè contare quel milione di giovani autonomi o con contratti atipici e i due milioni di giovane che non studiano né lavorano, dice ancora il rapporto.

In Italia, d'altra parte, si legge ancora "il problema pensioni non è risolto": l'Italia, infatti è uno dei paesi più vecchi e longevi al mondo. Nel 2030 gli anziani over 64, dice ancora lo studio Censis-Unipol, sarano più del 26% della popolazione totale, ci saranno, cioè, quattro milioni di persone non attive in più e due milioni di attivi in meno. Il sistema pensionistico dunque dovrà confrontarsi con seri problemi di compatibilità ed equità.

"Se le riforme degli anni '90 hanno garantito la sostenibilità finanziaria a medio termine del sistema previdenziale, oggi preoccupa il costo sociale e la riduzione delle tutele per le generazioni future", dice ancora il rapporto sottolineando come a fronte di un tasso di sostituzione del 72,7% per il 2010, i lavoratori dipendenti, nel 2040, beneficieranno di una pensione pari a poco più del 60% dell'ultima retribuzione, mentre gli autonomi vedranno ridursi il tasso fino a meno del 40%.

Scettico sui dati il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi per il quale "le proiezioni di questo tipo sono molto opinabili perché scontano ipotesi di percorsi lavorativi che nessuno puo' disegnare in un tempo di così straordinari cambiamenti". "Sono dati che non capisco, neanche la zingara saprebbe disegnare percorsi simili e io diffido da proiezioni di questo genere, anche se questo non significa sottovalutare l'esigenza di pensare al futuro", aggiunge sottolineando come "resta la necessità di organizzare forme di previdenza, di assitenza, di sanità complementari con modalità comunitarie".



Provincia di Milano, concorso con il trucco. Lo scandalo del dg per l’agenzia del Lavoro. - di Martino Valente




Luigi Degan all'agenzia per il lavoro ma senza titoli. C'è un esposto in Procura. Incarico da 130mila euro l'anno all'uomo del presidente Podestà. Ma dal notaio il nome era già scritto da un mese. E intanto si licenziano i precari.

Indovina chi viene in Provincia. Un gioco facile facile: arriva l’uomo di fiducia del presidente. Facile al punto che i consiglieri sospettosi possono andare da un notaio, depositare quel nome con largo anticipo e attendere con tutta calma l’esito del concorso. Risultato: all’apertura delle buste, il più qualificato è… l’uomo del presidente. E scatta l’esposto in Procura.

Tutto questo succede in Provincia di Milano dove il 31 gennaio scorso è ufficialmente partita la procedura di evidenza pubblica per individuare il nuovo Direttore generale dell’Agenzia per la formazione e il lavoro (Afol), l’ente che gestisce gli ex sportelli provinciali del lavoro.

La nomina di Luigi Degan è stata al centro di una doppia partita, durissima, tra maggioranza e opposizione in consiglio e tra correnti dello stesso Pdl al chiuso dellufficio di presidenza. In pratical’affaire Afol ha anticipato lo strappo tra Podestà stesso e i reggenti del centrodestra locale Casero eMantovani, con il primo che avrebbe cercato di imporre a tutti i costi l’uomo di fiducia e gli altri intenzionati a vendere cara una poltrona che vale 130mila euro l’anno per tre anni.

Risultato: un pasticcio su tutti i fronti. Che nella puntata di oggi, grazie all’iniziativa di Matteo Mauri e Ezio Casati (Pd) ha il suo epilogo più divertente e preoccupante con dieci righe che inchiodano Podestà e il suo favorito. Il documento è una scrittura depositata con atto notarile il 9 febbraio scorso, cioé appena aperta la gara per il posto da direttore generale. Il testo non lascia spazio a dubbi: “I sottoscritti consiglieri provinciali Casati e Mauri, informati che Afol Milano ha indetto un bando per la ricerca delle figura del Direttore generale dell’Agenzia, dichiarano di essere venuti a conoscenza che il vincitore sarà il dott. Luigi Degan. (…) Se il nome scelto sarà quello indicato, si manifesterebbe una gravissima violazione delle più elementari regole di trasparenza”.

Un mese dopo, il 4 marzo, il cda di Afol nomina il nuovo direttore: Luigi Degan.

E non è tutto. Perché se nella nomina c’è il trucco, questo sembra avere un pari corrispettivo nei requisiti del bando o nelle credenziali del proponente. Così i consiglieri chiedono formalmente di ottenere tutte le carte utili a verificare le competenze del nuovo dg. Ma gli viene negato. Si rivolgono alPrefetto che impone alla Provincia di mettere a disposizione tutti gli atti. E viene fuori di tutto. Degan risulta persona qualificata, certo, peccato che il suo cv sia stato “gonfiato” ad arte perché avesse i requisiti che altrimenti non avrebbe mai avuto, secondo i consiglieri, per ricoprire quella posizione.

A dirlo non sono solo i detrattori del dirigente ma i suoi stessi datori di lavoro. L’elenco delle esperienze curricolari poi risultate false e mendaci è ora al vaglio della magistratura. Nel mirino finisce la sua esperienza presso il Centro studi Adapt, Associazione per gli Studi Internazionali e Comparati sul Diritto del Lavoro e sulle Relazione industriali, dal 2002 al 2004 e presso Confindustria Bergamodal 2007 al 2011. Queste esperienze, riporta l’esposto, oltre ad essere evidentemente non aderenti al profilo ed ai requisiti di ammissione richiesti, risultano anche non veritiere.

Presso Confindustria, è risultato dalle indagini successive, Degan era un semplice funzionario amministrativo e presso Adapt svolgeva un lavoro di classico “assistente universitario”. Non certo quel ruolo di “coordinamento direzionale di strutture tecnico direzionali” con il quale si è assimilato il lavoro di Degan al requisito del bando nel “vantare una qualificata e pluriennale esperienza, di almeno 5 anni, nel coordinamento direzionale di strutture tecnico gestionali complesse, con poteri di direttiva e spiccate competenze nel ramo del lavoro e della Formazione Professionale”.

A rivelare quanto poco aderente al vero fossero gli incarichi di Degan, si diceva, sono le lettere dei suoi datori di lavoro. Per gli anni dal 2002 al 2004, ad esempio, l’esposto presenta una dichiarazione del Professor Michele Tiraboschi, direttore scientifico di Adapt, in risposta ad una richiesta ufficiale del Presidente della Commissione Garanzia e Controllo della Consiglio provinciale che pur esprimendo apprezzamenti circa il lavoro svolto dal Degan presso Adapt, escluda che questi abbia svolto alcuna attività di coordinamento direzionale di strutture tecnico gestionali complesse con poteri di direttiva e tanto meno di spesa come chiedeva il bando provinciale e attestava il cv del candidato. Adapt al tempo inoltre, per stessa dichiarazione del professor Tiraboschi, era una esile struttura che contava tre dipendenti, alcune collaborazioni e stagisti. Altro che “struttura tecnico gestionale complessa”.

Duro il commento di Matteo Mauri (Pd) che, oltre a svelare il trucco, pone l’accento sui problemi dei lavoratori Afol sui cui si è abbattuta la forbice della Provincia: “Qui c’è in ballo anche la sorte di 27 lavoratori precari di Afol che l’amministrazione guidata da Podestà ha lasciato a casa. Senza dimenticare che una riduzione di personale così elevata sta causando anche grossi problemi al servizio fornito dall’agenzia. Ne hanno fatto recentemente le spese gli insegnati precari che si sono recati nei giorni scorsi negli uffici di viale Jenner per presentare domanda di disoccupazione. Oltre 700 persone hanno fatto la fila sotto il sole. Un vero pasticcio, le cui conseguenze le stanno pagando i lavoratori precari e i disoccupati”.

Insomma, da una parte si regala e dall’altra si taglia.



E la Lega chiamò il Colle: non ne sapevamo nulla. Pronti ad aprire la crisi. Fiorenza Sarzanini.


La rabbia di Maroni: «È una vicenda che ci imbarazza»

Maroni
Maroni
ROMA - Nella bozza di decreto consegnata al termine del Consiglio dei ministri e inviata all'ufficio legislativo del Viminale, l'articolo 37 non c'era. Ma soprattutto non c'era alcun altro articolo che contenesse la norma ormai ribattezzata «salva Fininvest», come hanno potuto verificare gli esperti giuridici incaricati da Roberto Maroni di controllare il testo. La stessa cosa si può dire per il dicastero delle Riforme guidato da Umberto Bossi e per quello alla Semplificazione di Roberto Calderoli. Ed è proprio quando arriva la conferma dei «tecnici» su questa «mancanza» che l'ira dei leghisti esplode. Perché la scelta di Palazzo Chigi di inviare al Quirinale un provvedimento diverso da quello concordato durante la riunione dell'esecutivo di giovedì scorso viene vissuta come uno schiaffo, l'ennesimo, agli alleati. E dunque è bastato un rapido giro di consultazione telefonica tra i leader del Carroccio per decidere la linea: o la norma viene ritirata o si va a casa.


La decisione presa dai leghisti ieri di primo mattino è quella di fare quadrato contro l'iniziativa del premier, soprattutto tenendo conto che nessuno di loro era stato neanche preavvisato dell'intenzione di Silvio Berlusconi di inserire nella manovra economica quel codicillo che lo può mettere al riparo - almeno fino al giudizio della Corte di cassazione - dal pagamento del risarcimento danni alla Cir dell'ingegner Carlo De Benedetti. Si discute di tattica, ma anche di strategia. E si stabilisce di procedere senza prendere alcuna posizione pubblica, dunque evitando dichiarazioni.
Maroni vola a Zagabria per un bilaterale su traffico di droga, immigrazione e terrorismo, ma rimane costantemente in contatto con i colleghi di partito e in particolare con Bossi. Il «capo» dispone le mosse, ma preferisce restare in retrovia. È Calderoli a incaricarsi di tenere aperta la linea con il Colle per manifestare la contrarietà forte del Carroccio. Le indiscrezioni parlano di un suo colloquio con il capo dello Stato Giorgio Napolitano subito dopo il funerale solenne del militare italiano ucciso in Afghanistan per confermargli come la Lega sia stata tenuta all'oscuro fino alla fine. Una conversazione nella quale il presidente della Repubblica sarebbe stato informato della volontà di appoggiare la sua eventuale scelta di non firmare la norma, ma soprattutto della determinazione ad arrivare anche a una crisi di governo qualora Berlusconi avesse deciso di non fare marcia indietro.
«È una vicenda che ci imbarazza - si sfoga Maroni con i suoi - perché è l'ennesima volta che ci troviamo di fronte a una legge che i cittadini non possono comprendere, ma soprattutto che noi non possiamo in alcun modo far passare». Parla di imbarazzo, ma si capisce che il suo stato d'animo è ben diverso. Perché gli impegni presi a Pontida con la «base» del Carroccio sono chiari e non si può rischiare di perdere ulteriore consenso. Ma anche perché i leghisti si sentono letteralmente «truffati», visto che nessun cenno a questo provvedimento è mai stato fatto durante le riunioni degli ultimi giorni, comprese quelle ufficiali.

Non a caso nelle telefonate del mattino, oltre a decidere la linea dura, si concorda sulla necessità di conoscere l'identità di chi abbia materialmente provveduto a scrivere il testo e soprattutto chi fosse stato informato. «Tremonti - insiste Maroni - deve per forza averlo saputo visto che è toccato a lui trasmettere il decreto al Quirinale. Come può aver dato il via libera? Non ha compreso quali conseguenze poteva avere? E Berlusconi, come poteva pensare di farla franca?». La scelta del ministro dell'Economia di annullare all'ultimo momento la conferenza stampa per la presentazione della manovra fa ben comprendere il suo disappunto e questo ammorbidisce i leghisti nei suoi confronti. Ma ancora ieri sera appariva chiaro come la decisione del premier di annunciare il ritiro della norma, spiegata in una telefonata a Maroni, non sarà sufficiente a placare gli animi e a spegnere le tensioni che questo tentativo di colpo di mano dello stesso Berlusconi ha provocato nel governo e nella maggioranza.


Sospetti e veleni sul comma cancellato. Francesco Verderami.



Il colloquio Berlusconi-Tremonti, il ruolo degli avvocati: la storia segreta della norma.

La verità sulla norma «salva Fininvest» non esiste, è un intrigo che si basa su alcuni indizi e moltissimi sospetti, rivela la durezza dello scontro tra il premier e il ministro dell'Economia.
La storia segreta del «comma 23» è l'ennesima sconfitta «ad personam» di Berlusconi, offre la plastica rappresentazione di come i nodi politici, giudiziari e ora anche finanziari si sono intrecciati, trasformandosi in un cappio che rischia di asfissiare il Cavaliere. E non c'è dubbio che sia stato lui a mettere il collo in questa corda, è lui infatti che alla vigilia della sentenza sul Lodo Mondadori ha chiesto uno scudo giuridico da inserire nella manovra per evitare di pagare subito il conto a De Benedetti, nel caso fosse condannato in appello dal Tribunale di Milano.


È Berlusconi al centro della vicenda, ma in pochi nel governo possono realmente dire di non averne mai saputo nulla. Molti hanno solo girato la testa. In principio è l'avvocato Ghedini a spingere perché il premier ottenga dal ministero della Giustizia, dunque da Alfano, un rimedio tecnico al problema. Da un anno se ne discuteva nelle riunioni riservate a Palazzo Grazioli, per un anno la questione era stata accantonata. A tempo scaduto si cerca una soluzione d'emergenza, e sebbene il Guardasigilli si mostri titubante, viene individuato un «gancio legislativo» nella modifica di alcuni articoli del codice civile, con cui si mira a velocizzare i processi.
Non è vero però che la norma «salva Fininvest» viene inserita all'ultimo momento, «non è stata certo aggiunta di soppiatto», racconta un ministro: sta infatti nelle pieghe di questo capitolo della manovra, nell'articolo 37. E c'è un indizio che lo dimostra: il tema viene discusso alla riunione di martedì 28 giugno del pre-Consiglio, e già in quella sede i tecnici ravvisano problemi di costituzionalità. Già in quelle ore scatta l'allarme al Colle. Nel corso dei rituali contatti tra gli uffici legislativi di Palazzo Chigi e dei ministeri con il Quirinale, la presidenza della Repubblica anticipa la propria contrarietà a una simile norma: è un altolà preventivo, il preavviso di un possibile scontro.


E si capisce come mai il Guardasigilli ieri spiegava che non c'era nè ci poteva essere «alcun sotterfugio»: d'altronde non era pensabile che un provvedimento di tale portata sfuggisse allo staff di Napolitano. Se così stanno le cose, non si comprende perché il premier decida di insistere, e con quali garanzie. Regna ancora l'incertezza quando giovedì 30 giugno si arriva al Consiglio dei ministri convocato per la manovra. La riunione viene a un certo punto sospesa in modo da trovare un compromesso sulla norma per i tagli ai costi della politica. Trovata l'intesa, però, il Consiglio non riprende subito, perché nel salone di palazzo Chigi mancano all'appello Berlusconi e Tremonti.
Ricorda un ministro come «in quel momento tutti abbiamo avuto la netta percezione che qualcosa non andasse». Dopo mezz'ora i due rientrano nel salone di Palazzo Chigi. È a quel colloquio che viene fatta risalire l'intesa sulla norma «salva Fininvest». Un indizio, a cui si aggiunge un interrogativo che porta a verità contrastanti: il titolare dell'Economia ha solo accettato quell'articolato o - come sostengono i fedelissimi del Cavaliere - è stato lui a riscrivere il testo, inserendo quel tetto di venti milioni che l'ha resa una evidente norma «ad aziendam»?


Una cosa è certa, Tremonti sapeva. Il resto sono accuse che Berlusconi gli rivolge contro, intingendo l'ira nel sospetto. «Chiedetevi chi ci guadagna da questo disastro», urlava ieri sera, puntando l'indice contro il padre di una manovra che «ci ha fatto perdere il gradimento del 65% del nostro elettorato»: «Se pensa di arrivare così a Palazzo Chigi può scordarselo». Il premier - a proposito del provvedimento - sostiene di aver chiesto al superministro di «avvisare la Lega sui dettagli», come a dire che sulle linee generali i rappresentanti del Carroccio erano a conoscenza dell'operazione.
Ecco come si giunge alla stesura definitiva della manovra, ed è in questo passaggio che compare sulla scena Gianni Letta, fino ad ora rimasto formalmente ai margini della trattativa sulla «norma salva Fininvest». Ma è possibile che il braccio destro di Berlusconi, l'uomo che conosce tutti i risvolti del Lodo Mondadori, non sapesse della mossa disperata del Cavaliere? Anche se così fosse, è stato l'ultimo a leggere il testo della manovra prima di inviarla al Colle. E se è vero che ieri il sottosegretario alla Presidenza rimarcava come la vicenda fosse stata gestita «malissimo», dato che «non si presenta una simile norma senza averla concordata con il Quirinale», come mai non ha bloccato anzitempo il premier?

A Letta è toccato gestire l'ultima trattativa con Napolitano, quando ormai si trattava solo di recuperare i cocci. A Letta è toccato informare Berlusconi che per il capo dello Stato non c'era altra soluzione che ritirare la norma. A Letta è toccato sentire lo sfogo del Cavaliere, che si sente vittima del «banditismo politico-giudiziario» dei magistrati milanesi, che sente approssimarsi una «sentenza di condanna già scritta», e che - in un moto di sfida - ha commentato: «E se ora io non firmassi la manovra?». La storia segreta del «comma 23» è l'ennesima sconfitta «ad personam» del premier, una sconfitta che ha molti padri ma alla fine un solo colpevole: Berlusconi.


Via norma sul lodo Berlusconi: 'La ritiriamo'. - di Yasmin Inangiray



Berlusconi: 'Ma era norma giusta, polemiche dell'opposizione sono vergognosa montatura'.


ROMA - Una norma "giusta e doverosa" che però sarà "ritirata". Al termine di un giornata convulsa fatta di contatti febbrili tra Palazzo Chigi ed il Quirinale, Silvio Berlusconi prende la decisione di fare un passo indietro ed evita così lo scontro frontale con il Capo dello Stato che aveva chiesto, senza mezzi termini, una marcia indietro sul cosiddetto lodo Mondadori inserito in sordina nella manovra.

l premier affida ad una nota l'annuncio della cancellazione delle tanto discusse 'tre righe' rivendicando però l'impianto deL provvedimento: Si tratta - spiega - di una norma non solo giusta, ma doverosa specie in un momento di crisi dove una sentenza sbagliata può creare gravissimi problemi alle imprese e ai cittadini". Rispedita poi all'opposizione l'accusa di aver pensato che 'la mossa a sorpresa' servisse per mettere al riparo Madiaset nella sentenza sul lodo Cir-Fininvest: "Conoscendo la vicenda sono certo - mette in chiaro con una certa sicurezza il Cavaliere - che la Corte d'Appello di Milano non potrà che annullare una sentenza di primo grado assolutamente infondata e profondamente ingiusta. Il contrario costituirebbe un'assurda e incredibile negazione di principi giuridici fondamentali". La nota ufficiale, se ha lo scopo di riallacciare un filo di dialogo con il Colle che ha espresso anche altre criticità al testo, anche sui temi dell'Ice e delle quote latte (secondo fonti della maggioranza), mette fine ai mal di pancia di Umberto Bossi che si è messo di trasverso facendo arrivare alle orecchie del Cavaliere la sua contrarietà ad un provvedimento subito ribattezzato come una nuova legge 'ad personam'.

I sospetti però su cosa sia realmente avvenuto tengono banco nei conciliaboli in Transatlantico. Molti ministri del Pdl non esitano a descrivere un premier irritato per l'ennesimo trabocchetto creato da Giulio Tremonti con il placet dello stesso Carroccio. Se infatti molti pidiellini sono convinti che il provvedimento fosse frutto di un lavoro ristretto tra Berlusconi e Angelino Alfano, nessuno mette in dubbio che anche il Tesoro essendo l'estensore del provvedimento fosse all'oscuro del 'coup de theatre'.

Il superministro, è il ragionamento dei più maligni, avrebbe acconsentito all'inserimento sapendo che dal Quirinale sarebbe arrivato lo stop. In più la presa di distanza del titolare di via XX Settembre dalla norma stessa, è il ragionamento di un ministro del Pdl, la dice lunga sui rapporti con il capo del governo. "Se c'é una norma, l'abbiamo votata tutti. Io non so se c'é...E' la tesi del ministro dell'Agricoltura Severio Romano. Ancora più criptico Roberto Calderoli: "Non posso commentare ciò che non ho visto...e letto". Con i suoi fedelissimi il Cavaliere per tutto il giorno chiuso a palazzo Grazioli è tornato ad accusare quella parte di magistratura che, a suo dire, continua a perseguitarlo ed il risarcimento da De Benedetti ne sarebbe un esempio. Tant'é che ai suoi uomini non avrebbe nascosto l'ipotesi di dover vendere le aziende in caso la sentenza fosse a suo sfavore.

Lo stralcio del provvedimento fa comunque tirare un sospiro di sollievo a chi nella maggioranza, e cominciavano ad essere in tanti, già immaginava, con un certo imbarazzo, una nuova battaglia con il Quirinale, ma soprattutto fa gridare vittoria all'opposizione. "Si tratta di una norma vergognosa", accusa il segretario del Pd Pier Luigi Bersani che poi si chiede "quale manina metta sempre delle norme ad hoc in ogni procedura". Critico anche il leader dell'Udc Pier Ferdinando Casini che parla di "balletto indecoroso". Pollice verso anche dal leader dell'Idv Antonio Di Pietro: "Berlusconi, colto con le mani nel sacco, ha deciso di ritirare la norma salva Mondadori. Oggi l'ha fatto . si chiede l'ex pm - perché domani vuole ripresentarne un'altra simile?"

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