Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
domenica 10 luglio 2011
Un regno che affonda in un mare di scandali. - di EUGENIO SCALFARI
Talvolta però alla cupezza del dramma si accompagna la sconcia comicità della farsa; sconcia perché inconsapevole e quindi cupa e drammatica anch'essa. Vengono in mente alcuni comprimari del fine regno berlusconiano: Brunetta, Gasparri, La Russa, Quagliariello, Sacconi, Ghedini, Prestigiacomo, Gelmini, Alfano e il suo partito degli onesti. Con Calderoli siamo al culmine della comicità inconsapevole, a cominciare da come si veste e da come cammina: non è un pavone che esibisce la sua splendida ruota e neppure un tacchino con i suoi bargigli, ma ha piuttosto l'andare del gallinaccio, il più sgraziato dei pennuti.
Bossi no, non è comico ma profondamente drammatico: un leader lucido e sensibilissimo a cogliere gli umori della sua gente, cui la malattia aveva addirittura conferito un di più, quella parlata inceppata, quei gesti di una volgarità voluta, quella faccia segnata ma non rassegnata: così era stato fino a un anno fa, ma poi il vento è cambiato anche nella Lega e il Senatur ha cominciato ad annaspare. Ora sembra un timoniere senza bussola e senza stelle che procede alla cieca in una fitta foschia mentre infuria lo scontro per la successione.
Il dramma di Berlusconi è ancora più complesso ed enigmatica la sua comicità. A volte è anche per lui inconsapevole e quindi oscena come nel caso della nipote di Mubarak. Ma poi usa consapevolmente quella stessa comicità, la trasforma in barzelletta con la quale strappare al suo pubblico una risata e un applauso con la duplice intenzione di dimostrare la sua autoironia e la sua calma nella tempesta. A volte però la barzelletta non piace, non provoca la risata liberatoria ma un assordante silenzio e in lui sempre più spesso emerge la sindrome della solitudine, del tradimento, della congiura.
Leggendo l'altro ieri la sua intervista a "Repubblica" tutti questi passaggi sono chiarissimi: c'è la stanchezza d'un leader che preannuncia il suo futuro di padre nobile, il disprezzo verso i nemici esterni, l'ira verso i traditori interni, la volontà di mantenere il potere attraverso i figliocci da lui delegati. Infine il colpo di teatro d'affidare il lascito testamentario ad un giornale da lui attaccato, vilipeso, ingiuriato.
E Tremonti? Qual è la parte di Tremonti in questo fine regno sempre più incombente?
Ha appena varato una manovra finanziaria che avrebbe dovuto mettere al sicuro i conti pubblici e il debito sovrano, ma proprio nei giorni del varo i mercati sono stati scossi da una speculazione che ha il nostro debito, le nostre banche, i nostri titoli, come bersagli primari. Invece di rafforzare la stabilità del governo e della maggioranza la manovra ha aumentato le crepe diventando a sua volta un fattore di instabilità.
Potrà in queste condizioni il ministro dell'Economia restare al suo posto? Potrà reggere al dibattito parlamentare che si annuncia estremamente difficile?
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La storia - lo sappiamo - non si fa con i se, ma i se a volte ci aiutano a capir meglio i fatti che sono realmente avvenuti. Dove saremmo oggi se il 14 dicembre del 2010 Berlusconi non avesse avuto la fiducia?
Il governo sarebbe caduto, il Presidente della Repubblica avrebbe aperto le consultazioni e molto probabilmente avrebbe nominato un nuovo governo, un nuovo presidente del Consiglio, un nuovo ministro del Tesoro. I nomi non mancavano ed erano tutti di primissimo piano, da Mario Monti a Mario Draghi. I mercati sarebbero stati ampiamente rassicurati da quei nomi e dalla loro politica.
Purtroppo non andò così. Oggi i mercati stanno attaccando i titoli pubblici emessi dallo Stato e i titoli delle banche; il rendimento dei buoni del Tesoro decennali è salito al 5 e mezzo per cento, lo "spread" rispetto al Bund tedesco a 2,48.
Nel frattempo ieri mattina la Corte civile d'appello di Milano ha condannato la Fininvest, nel processo di secondo grado sul Lodo Mondadori, a pagare alla Cir di Carlo De Benedetti 560 milioni di euro. Si tratta d'una sentenza che fa giustizia in sede civile d'uno dei più gravi reati che il nostro codice penale contempla: la corruzione di magistrati. Quel reato fu accertato con sentenza definitiva ma Berlusconi ne fu tenuto fuori perché per lui erano decorsi i termini della prescrizione.
Restava tuttavia il diritto della parte lesa al risarcimento del danno e a questo ha provveduto la sentenza di ieri. Essa certifica che l'impero editoriale del presidente del Consiglio è fondato su un gravissimo reato penale. Noi l'abbiamo sempre saputo e sempre detto e questo è per noi il valore politico e morale della sentenza di ieri.
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Ribadito che la reazione negativa dei mercati è motivata principalmente dall'implosione della maggioranza di centrodestra, occorre tuttavia esaminare la manovra nella sua impostazione politica e tecnica, ambedue estremamente manchevoli.
Il ministro dell'Economia aveva inizialmente spacchettato i tempi dell'operazione: per l'esercizio in corso un intervento di un miliardo e mezzo, di semplice manutenzione. Nel 2012 cinque miliardi e mezzo e tanto bastava secondo il calendario concordato con l'Ue. Il grosso nei due esercizi successivi, 20 miliardi in ciascuno di essi per azzerare il deficit nel 2013 e per realizzare il pareggio del bilancio nel 2014. In totale 47 miliardi, ai quali bisognava aggiungerne circa 32 utilizzati nel 2009-2010 per mettere i conti pubblici in sicurezza.
Sembrò che queste operazioni fossero sufficienti e che il loro risultato finale segnasse il pieno successo di Tremonti e per riflesso del governo di cui egli è il perno economico. Mancavano in questo quadro di rigore finanziario, interventi destinati alla crescita del prodotto interno lordo, ma il superministro non mostrava di preoccuparsene. La crescita sarebbe venuta al momento opportuno. Protestavano le imprese, protestavano i sindacati, protestavano le organizzazioni dei commercianti e dei consumatori e protestavano anche Berlusconi e Bossi, ma Tremonti restava fermo e sicuro con l'appoggio dell'Europa e - così sembrava - anche dei mercati.
Ma poi le cose sono radicalmente cambiate e una realtà del tutto diversa è venuta a galla. Fermo restando lo spacchettamento temporale, si è venuti a sapere che Tremonti aveva effettuato un altro tipo di spacchettamento: la manovra vera e propria non era di 47 miliardi ma soltanto di 40; di questi, 25 erano contenuti nel decreto firmato quattro giorni fa da Napolitano (dopo che era stata ritirata la vergognosa norma mirata a bloccare la sentenza sul Lodo Mondadori). Altri 15 miliardi sarebbero stati invece reperiti con la legge delega per la riforma fiscale, che dovrà anch'essa esser votata dal Parlamento nelle prossime settimane o nei prossimi mesi.
È proprio la riduzione della manovra che ha indotto Giorgio Napolitano nel momento in cui firmava il decreto a indicare la necessità di ulteriori interventi da prendere al più presto possibile. Senza ancora entrare nel merito, la criticità che ha allarmato i mercati si deve soprattutto a quei 15 miliardi affidati alla legge delega. Dovrà essere approvata dal Parlamento e dovrà poi confrontarsi, nel momento di emettere i decreti delegati, non solo con l'apposita commissione bicamerale ma soprattutto con la conferenza Stato-Regioni. E poiché la parte più rilevante dei 15 miliardi da reperire è prevista proprio a carico delle Regioni e degli Enti locali, è facile prevedere che il negoziato sarà lungo e molto complesso.
La reperibilità e la tempistica restano dunque i punti interrogativi che difficilmente saranno risolti nel prossimo esercizio.
Quanto al merito, la manovra da 25 miliardi e la riforma fiscale per reperirne altri 15 poggiano, come ha più volte osservato Bersani, su prelievi a carico del sociale: il taglio dei contributi agli Enti locali, le maggiori imposte territoriali, il peggioramento dei servizi, il potere d'acquisto delle famiglie, la mancata rivalutazione delle pensioni, i giovani disoccupati, l'età pensionistica delle donne.
Se si dovesse definire con due parole il significato politico di questa imponente operazione, di cui uno degli interventi principali è l'imposta sui titoli depositati nelle banche, si dovrebbe definirla una manovra di classe. Forse questo piacerà al Pdl e per alcuni aspetti anche alla Lega, ma certo non piacerà alle opposizioni e soprattutto a quelle fasce sociali che si sono manifestate nelle recenti elezioni amministrative e nel voto referendario.
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L'ultimo capitolo che marca il fine regno berlusconiano è la marea degli scandali che coinvolge due eminenti deputati del Pdl, Alfonso Papa e Marco Milanese, un ministro di recente nomina, quel Saverio Romano sul quale il Presidente della Repubblica nell'atto di firmare il decreto di nomina voluto da Berlusconi indicò un possibile impedimento giudiziario che in quel momento era soltanto potenziale ma che ora è diventato di stringente attualità perché a suo carico è stato formalizzato dal Tribunale di Palermo un mandato di cattura per associazione mafiosa.
Papa, Milanese, Romano sono i tre terminali sui quali stanno lavorando le Procure di Napoli, Palermo e Roma e che riguardano appalti, nomine in alcune imprese di natura pubblica, dazioni di danaro, gioielli, automobili di altissimo pregio, immobili, informazioni riservate ed usate per ricatti e vere e proprie estorsioni.
Il centro di alcuni di questi scandali e di questi reati è la Guardia di finanza e il suo Comando generale. Il ministro dell'Economia, ascoltato di recente come testimone dalla Procura di Napoli, ha addirittura ammesso che esistono due cordate nella Guardia di finanza che operano per favorire due diversi candidati alla nomina di comandante generale.
Tremonti del resto è coinvolto in pieno dallo scandalo Milanese; un uomo che è al suo fianco dal 2005 e che è stato colto con le mani nel sacco per decine di reati, ricatti, uso di informazioni riservate. Di tutto ciò il ministro garantisce di non essere mai stato al corrente. Delle due l'una: o il ministro non dice il vero oppure la sua dabbenaggine nella scelta dei collaboratori rasenta un livello tale da minare la sua credibilità.
In questa situazione sarebbe estremamente urgente che il Partito democratico producesse una seria proposta alternativa di politica economica, di politica istituzionale e di legge elettorale. Bersani si era impegnato a farlo subito dopo le elezioni del maggio scorso, ma quella promessa non è stata mantenuta, si è restati nel vago di dichiarazioni che non descrivono una politica nella sua completezza e concretezza.
Il Pd rischia di perdere un'occasione storica per ridare un ruolo al centrosinistra e al riformismo. Viene da dire - insieme alle donne italiane di nuovo mobilitate - se non adesso, quando?
Se non ora quando. di Alberto Capece Minutolo.
Il se non ora quando lo dico piuttosto all’opposizione e al suo maggior partito. Se non ora quando è tempo di presentare in Parlamento e al Paese una manovra economica alternativa che sia meno iniqua e oltretutto più credibile agli occhi del mercato? Se non ora quando è tempo di far capire al proprio elettorato, già deluso nei giorni scorsi, che l’opposizione è pronta a governare e si batterà perché al Berlusconi indecente non subentri un Berlusconi presentabile, ma pur sempre un Berlusconi? Se non ora quando l’opposizione vorrà dissipare l’orrenda sensazione di avere i cassetti vuoti perché prima di riempirli si deve decidere sulle alleanze centriste e quindi non si può osare dire qualcosa di sinistra?
Oppure si aspetta che la situazione divenga così drammatica da imporre un governo di unità nazionale che bastoni i ceti popolari perché ovviamente con certi compagni di strada, anzi di camarilla sarebbe sconveniente affrontare il tema dell’etica civile, dell’evasione ormai insopportabile, del precariato, del welfare?
Se non ora quando sarà il momento di affrontare questi problemi? Oppure si sta aspettando che vi siano le quote del coraggio politico e dell’intelligenza? Se non ora quando si capirà che proprio la mancanza di un’alternativa, in un Paese ormai diviso per bande, è il fattore di maggiore instabilità per la tenuta dell’economia? E se non ora quando si capirà che la prosecuzione del berlusconismo con tutto il peso dei mille conflitti d’interesse, con la devastazione dell’erario, con un sistema premiale della cialtroneria, è l’immagine peggiore che si possa dare ai mercati?
Ma ho una paura, che l’eco di questa richiesta non certo mia, ma che sale dal Paese, ritorni deformata, rimbalzata da un muro di gomma e suoni Se e Quando, ma non ora.
http://ilsimplicissimus2.wordpress.com/2011/07/10/se-non-ora-quando/
La visita di Ratzinger in Germania suscita un’ondata di critiche. Comunicato stampa.
Ed ecco i fatti: quale arcivescovo di Zagabria, Stepinać non solo fu una delle massime autorità ecclesiastiche di un regime cattolico-fascista benvisto da Hitler– dal 1941 al 1942 – ma, dal gennaio 1942, fu anche il vicario militare ufficiale delle milizie degli ustascia che in quel periodo avevano già convertito con la forza centinaia di migliaia di serbi ortodossi o li avevano assassinati – in molti casi compiendo entrambe le cose una dopo l’altra. I serbi furono fucilati, uccisi a pugnalate o bastonate, decapitati, annegati, squartati, strangolati, seppelliti vivi, arsi vivi, crocefissi o torturati fino alla morte. Le orrende crudeltà perpetrate sconvolsero perfino le truppe dei fascisti italiani e dei nazisti tedeschi stazionate nel paese. Tutto ciò non impedì comunque a Stepinać, vescovo supremo della Croazia, di collaborare del tutto apertamente con il regime fascista per tutto il periodo, festeggiando i compleanni del leader fascista e genocida Ante Pavelić facendo celebrare messe e Te Deum in tutte le chiese del paese. Stepinać non oppose pubblicamente nemmeno una protesta contro i massacri in massa che erano simili a un genocidio; nessuno degli assassini venne mai scomunicato. E del resto non sarebbe nemmeno stato possibile, dal momento che tra di loro si contavano numerosi monaci francescani, come per esempio Miroslav Filipović-Majstorović, che diresse per un certo periodo il famigerato campo di concentramento di Jasenovac, dove vennero assassinati circa 100.000 serbi ed ebrei. Ancora nel 1943 Stepinać ringraziò espressamente i francescani per i loro “meriti” nella “conversione” degli ortodossi. Le chiese e i monasteri cattolici venivano utilizzati come depositi di armi e centrali di comando; Stepinać e altri dieci ecclesiastici si fecero eleggere nel parlamento fascista. Anche Papa Pio XII non solo non si pronunciò in merito ai crimini di guerra, ma concesse continuamente con benevolenza udienza al comandante Pavelić e ai suoi generali, definendo il capo fascista un “cattolico praticante” e congendandosi da lui con “i migliori auguri per il lavoro da svolgere”. Dopo la guerra, Pavelić riuscì a fuggire grazie al “canale dei ratti” organizzato dal Vaticano e morì nel 1959 a Madrid con la benedizione del Papa.
Questo tetro capitolo della storia del XX° secolo sarebbe quasi stato dimenticato, se lo storico jugoslavo Vladmir Dedijer („Vatican i Jasenovac“, Belgrado 1987, in italiano: „ Jasenovac – l’Auschwitz jugoslavo e il Vaticano “, 1988) e lo scrittore tedesco Karlheinz Deschner (La politica dei papi nel XX° secolo) non avessero documentato questi fatti per i posteri.
Come il suo predecessore, sembra che anche Papa Joseph Ratzinger, in occasione della sua visita in Croazia, non abba intenzione di elaborare questo terribile passato, ma al contrario intende pregare davanti alla tomba di uno dei responsabili” – così afferma l’associazione “Freie Bürger”. “Il Bundestag tedesco, che vuole invitarlo malgrado tutto a tenere un discorso, è quindi alleato con forze che accettano con la loro “benedizione” gli orrori della guerra fascista – come del resto il Vaticano, sotto la guida di Ratzinger, continua ad occultare fino ad oggi i crimini sessuali commessi su bambini. La Germania dovrebbe vergognarsi, se è disposta a mettere in gioco con tanta leggerezza la buona reputazione che si è guadagnata dopo la guerra quale nazione democratica con una costituzione esemplare.”
Torino. Fiaccolata no Tav e saluto al carcere.
A Torino come in Val Susa non bastano i gas, le botte, i lacrimogeni sparati come proiettili, la criminalizzazione feroce, i feriti e gli arresti a fermare la lotta popolare.
Nonostante le ambiguità del testo di indizione, gli oltre ventimila partecipanti alla marcia hanno dimostrato di avere le idee chiare, di non essere disposti a dividere chi resiste all’invasione in buoni e cattivi.
I cattivi, quelli veri, siedono nei consigli di amministrazione delle banche e delle aziende, che si apprestano a spartirsi la torta Tav; i cattivi, quelli veri, sono i partiti di governo ed opposizione che vogliono imporre con la forza delle armi un’opera inutile, dannosa, costosissima.
I cattivi sono al ministero dell’Interno: Maroni, non pago delle violenze e delle torture che gli uomini ai suoi ordini hanno inflitto a chi ha assediato la Maddalena il 3 luglio, a chi l’ha difesa il 27 giugno, oggi sostiene che in Val Susa ci sono “millecinquecento terroristi pronti ad uccidere”.
Una follia. La lucida follia di un criminale politico che ha deciso che la miglior cura per chi protesta, per chi si ribella, per chi non si piega alla violenza dello Stato sono galera e manganello.
Dopo la fiaccolata un centinaio di No Tav, prima di tornare a casa, è passato dal carcere Le Vallette, per fare un saluto ai quattro ragazzi arrestati domenica. Fuochi d’artificio hanno bucato la notte malata di questa tristissima periferia torinese, dove il confine tra il carcere e la galera quasi non si vede. Una mezz’ora di saluti accolti con calore dai prigionieri, che hanno risposto con grida e battiture.
Sarà dura. Resisteremo.
I No Tav della rete “Torino e cintura sarà dura”, che in questo mese e mezzo di lotta alla Maddalena, nonostante il pressante impegno in alta Val Susa, hanno continuato a fare iniziative di informazione e lotta a Torino e, in particolare in borgata Lesna. Dopo numerosi presidi, volantinaggi ed un’affollatissima assemblea all’istituto Albe Steiner mercoledì 13 presidio No Tav, sabato 15 luglio dalle 17 assemblea/festa/incontro popolare con interventi, musica, banchetto informativo ai giardini di via Monginevro angolo via Rizieri
Il vuoto.
David Wojnarowicz, Buffalo Falling
La natura rifugge il vuoto, l'Italia ne è attratta.
Politica, economia, società sono vuoti che ci ostiniamo a riempire con il nulla.
La nostra soluzione al vuoto che ci assedia, che divora gli spazi quotidiani, è sempre un altro vuoto.
A finzione si sussegue uguale finzione. A ogni problema, nessun rimedio. Navighiamo a vista, ma non vediamo più l'orizzonte e neppure la stella polare.
Siamo in default, con un Tremorti azzoppato, l'ennesimo ministro inconsapevole di favori ricevuti.
Un governo di figuri e figuranti presieduto da un vecchio corruttore è al comando della nazione.
Sindaci e assessori finiscono in galera senza sosta, gli arresti sono diventati routine. L'opposizione è una via di mezzo tra una larva e un parassita. Un vuoto a perdere.
Due eventi concomitanti ci attendono. Il primo è il fallimento economico conclamato dell'Italia, il secondo è il crollo degli attuali partiti.
Entro fine anno dovremo vendere 200 miliardi di titoli di Stato a interessi sempre più alti. Se non ci riusciremo salta il banco.
Non ci sarà una tragedia greca, ma una commedia all'italiana. L'improvvisa ricerca dei colpevoli da parte degli stessi colpevoli.
I moniti alti e circostanziati di Napolitano. I guaiti di Confindustria. Gli appelli all'Europa dei principali editorialisti e, in fondo al tunnel, la bandiera bianca, forse il nostro vero simbolo nazionale.
I maggiori responsabili, la triade Pdl, Pdmenoelle e Lega, collasseranno, come avvenne nel 1992 per Dc e per il Psi. Molti loro esponenti saranno ospiti delle patrie galere, altri ripareranno all'estero emuli di Bottino Craxi.
Si sente nell'aria una nuova Tangentopoli.
Gli arresti di Torino, Parma, Voghera possono saldarsi in una rivolta popolare.
Osservare i tranquilli parmigiani chiedere la testa del loro sindaco e affrontare a pugni nudi le forze antisommossa dovrebbe far scendere un brivido nella schiena di molti.
L'Italia può trasformarsi in un'enorme bacino di White Bloc, cittadini comuni che pretendono onestà dalle amministrazioni e dalle istituzioni a qualunque costo, con qualunque rischio personale.
Il vuoto politico di inizio anni '90 fu riempito con il trasformismo.
La Dc si divise in due, Dc di sinistra e Dc di destra, e sopravvisse tranquillamente.
Il Psi si arruolò sotto le bandiere di Forza Italia.
Il PCI si limitò a cambiare nome.
Oggi il trasformismo non è più possibile. In politica, i vuoti sono spesso riempiti dall'uomo della Provvidenza.
Da un cialtrone che dichiara poteri taumaturgici. L'italiano ne è da sempre affascinato come un coniglio da un serpente a sonagli. Il presidente della Repubblica deve, al più presto, dare l'incarico di formare un nuovo governo a un uomo estraneo ai partiti con l'unico obiettivo di evitare il peggio, altrimenti ci aspetta un altro 8 settembre, ma forse anche questo non sarà sufficiente.
Loro non si arrenderanno mai (ma gli conviene?). Noi neppure.
http://www.beppegrillo.it/2011/07/il_vuoto/index.html
"Berlusconi è il corruttore" Illegalità per creare un impero. - di Giuseppe D'Avanzo
Le motivazioni della sentenza del processo Mondadori: decisioni cambiate a suo favore. Il premier ha voluto, organizzato, finanziato la corruzione di Vittorio Metta che gli consegna la più grande casa editrice del Paese.
Berlusconi impugna il lodo dinanzi alla Corte d'appello di Roma. E' qui si consuma il coup de théatre, il crimine, il robo. All'indomani della camera di consiglio, il giudice relatore Vittorio Metta deposita centosessantasette pagine d'una sentenza che dà partita vinta a Berlusconi. Era stata già scritta e non l'ha scritta il giudice e non è stata scritta nemmeno nello studio privato o nell'ufficio del giudice in tribunale. Preesisteva, scritta altrove. Il giudice ha venduto la sentenza per quattrocento milioni di lire - il giudizio è definitivo, è res iudicata (Corte d'appello di Milano, 23 febbraio 2007, respinto il ricorso dalla Cassazione il 13 luglio 2007) .
Il corruttore è Silvio Berlusconi. Ascoltate, perché questo è un brano della storia che solitamente viene trascurato. L'Egoarca porta a casa la ghirba per un lapsus del legislatore. Il parlamento vuole inasprire
Allora, per chi vuole ricordare, le cose stanno così: Berlusconi ha voluto, organizzato, finanziato la corruzione di Vittorio Metta che gli consegna - come il bottino di una rapina - la più grande casa editrice del Paese, ma non può essere punito.
Con buona pace di Marina Berlusconi e dei suoi argomenti ("un esproprio") e arroganza ("neppure un euro è dovuto da parte nostra"), dov'è la politica in questa storia? C'è soltanto la contesa di mercato tra due imprenditori. Uno dei due, Berlusconi, si muove come un pirata della Tortuga. Non gli va bene. Lascia troppe tracce in giro. Lo beccano. La sentenza della Corte d'appello civile è molto chiara in due punti decisivi.
1. Berlusconi è il corruttore. Scrivono i giudici: "Ai soli fini civilistici del giudizio, Silvio Berlusconi è corresponsabile della vicenda corruttiva".
2. Con la corruzione del giudice, Berlusconi non ha soltanto sottratto a De Benedetti la chance di prevalere nella causa sul controllo del gruppo Mondadori-Espresso (come ha sostenuto la sentenza di primo grado), ma gli ha impedito di vincere perché De Benedetti senza la corruzione giudiziaria avrebbe di certo conquistato un verdetto favorevole alle sue ragioni.
Oggi a distanza di venti anni, che non sono pochi soprattutto per chi ha patito l'inganno, Berlusconi - evitato il castigo penale - paga il prezzo della rapina, risarcendone il danno. Tutto qui?
Andiamoci piano. E' un "tutto qui" che ci racconta molte cose di Berlusconi e qualcuna sul berlusconismo.
Si sa, il Cavaliere si lamenta: "Mi trattano come se fossi Al Capone". Lo disse accompagnando la sentenza di primo grado, in questo processo civile. La sentenza di appello ci consente di comprendere meglio che cosa l'Egoarca condivida con Al Capone: il rifiuto delle regole, il disprezzo della legge, l'avidità. Lo abbiamo già scritto in qualche altra occasione. Come Al Capone testimonia simbolicamente la crisi di legalità negli Stati Uniti degli Anni Venti, Berlusconi rappresenta - ne è il simbolo - l'Italia corrotta degli Anni Ottanta e Novanta, la crisi strutturale della sfera pubblica che ancora oggi, nonostante Tangentopoli, comprime il futuro del Paese. E' infatti irrealistico immaginare Berlusconi fuori dal corso di quegli eventi: capitali oscuri, costanti prassi corruttive, liaisons piduistiche, un'ininterrotta presenza nel sottosuolo pubblico dove non esiste un angolo pulito. Berlusconi è quella storia e senza amnistie, senza un incessante e rinnovato abuso di potere, senza riforme del codice e della procedura preparate dai suoi governi, egli sarebbe considerato oggi un "delinquente abituale".
Accostiamo, per capire meglio, la sentenza di ieri della Corte d'appello civile di Milano con gli esiti processuali di un altro processo per corruzione. Questa volta non di un giudice, ma di un testimone, David Mills.
Lo si ricorderà. David Mills, per conto e nell'interesse di Berlusconi e con il suo coinvolgimento "diretto e personale", crea e gestisce "64 società estere offshore del group B very discreet della Fininvest", dove transitano quasi mille miliardi di lire di fondi neri; i 21 miliardi che hanno ricompensato Bettino Craxi per l'approvazione della legge Mammì; i 91 miliardi (trasformati in Cct) destinati non si sa a chi (se non si vuole dar credito a un testimone che ha riferito come "i politici costano molto ed è in discussione la legge Mammì"). E ancora, il controllo illegale dell'86 per cento di Telecinco (in disprezzo delle leggi spagnole); l'acquisto fittizio di azioni per conto del tycoon Leo Kirch contrario alle leggi antitrust tedesche; la risorse destinate poi da Cesare Previti alla corruzione dei giudici di Roma tra i quali (appunto) Vittorio Metta; gli acquisti di pacchetti azionari che, in violazione delle regole di mercato, favorirono le scalate a Standa, Mondadori, Rinascente. In due occasioni (processi a Craxi e alle "fiamme gialle" corrotte), David Mills mente in aula per tener lontano il Cavaliere dai guai, da quella galassia societaria di cui l'avvocato inglese si attribuì la paternità ricevendone in cambio "enormi somme di denaro, estranee alle sue parcelle professionali", come si legge nella sentenza che lo ha condannato.
Sono sufficienti questi due approdi processuali (Mondadori e Mills) per guardare dentro la "scatola degli attrezzi" di Silvio Berlusconi e lasciare senza mistero la sua avventura imprenditoriale. Da quelle ricostruzioni, che non hanno mai incontrato un'alternativa accettabile, ragionevole, credibile nelle parole o nei documenti del Cavaliere, si può comprendere come è nato il Biscione e di quali deformità pubbliche e fragilità private ha goduto per diventare un impero. Se solo la memoria non avesse delle sincopi, spesso determinate dal controllo pieno dell'informazione, che cosa ne sarebbe allora del "corpo mistico" dell'ideologia berlusconiana, della sua agiografia epica? Chi potrebbe credere alla favola del genio, dell'uomo che si fatto da sé con un "fare" instancabile, ottimistico e sempre vincente, ispirato all'amore e lontano dal risentimento?
La verità è che finalmente, dopo un ventennio, comincia a far capolino e - quel che più conta - a diventare consapevolezza anche tra chi gli ha creduto come, al fondo della fortuna del premier, ci sia il delitto e quindi la violenza. Scorriamo i reati che gli sono stati contestati nei dodici processi che ha subito finora. Salta fuori il resoconto degli "attrezzi" del Mago: evasione fiscale; falso in bilancio; manipolazione delle leggi che regolano il mercato e il risparmio; corruzione della politica (che gli confeziona leggi ad hoc); della polizia tributaria (che non vede i suoi conti taroccati); dei giudici (che decidono dei suoi processi); dei testimoni (che lo salvano dalle condanne). Senza il controllo dei "dispositivi della risonanza" - ripeto - sarebbe chiaro da molto tempo come la chiave del successo di Berlusconi la si debba cercare nel malaffare, nell'illegalità, nel pozzo nero della corruzione della Prima Repubblica, di cui egli è il figlio più longevo.
Oggi come ieri per far dimenticare la sua storia, per nascondere il passato, salvare il suo futuro, tenere in vita la mitologia dell'homo faber, Berlusconi non inventerà fantasmagoremi. L'Egoarca muove sempre gli stessi passi, ripete sempre le stesse mosse. Come per un riflesso automatico, si esibirà nell'esercizio che gli riesce meglio: posare da vittima "politica", bersaglio di un complotto politico-giudiziario. Confondendo come sempre privato e pubblico, con qualche metamorfismo mediatico - ha degli ordigni e sa usarli - trasformerà la sua personale e privatissima catastrofe di imprenditore, abituato all'imbroglio e al crimine, in affaire politico che decide del destino della Nazione. Ha cominciato la figlia Marina, accompagnata dalla volgarità ingaglioffita e aggressiva dei corifei. Domani - comoda la prognosi - sarà il Cavaliere a menare la danza in prima fila. Con un mantra prevedibile e in attesa di escogitare un qualche sopruso vincente, dirà: "Contro di me tentano un attacco patrimoniale".