martedì 19 luglio 2011

Manovra ok, Silvio ko. - di Marco Damilano


Passato il pacchetto Tremonti, finisce la tregua che la settimana scorsa ha tenuto insieme la maggioranza. Ora a rischiare il default è Berlusconi, mai debole come in questi giorni. E per lui si parla di un 'salvacondotto'.

Fino a che punto possono spingersi le larghe intese? In tempi di assalto della speculazione internazionale, di crisi di governo strisciante, di inchieste giudiziarie che fanno tremare il Palazzo, la ricerca spasmodica di inedite alleanze e di nuove protezioni può espandersi fino a diventare intese larghissime, onnicomprensive, a comprendere personaggi, settori, ambienti che in situazioni di normalità sarebbero inconciliabili. Per accorgersene bastava capitare domenica scorsa a Spoleto, all'Eremo delle Grazie, in occasione della cene finale del festival dei Due mondi, con l'orchestra del teatro San Carlo di Napoli in trasferta e un bel pezzo della città che conta ad accompagnarla. E osservare i commensali del tavolo d'onore, curato personalmente dal commissario del San Carlo Salvo Nastasi, che è anche capo di gabinetto del ministro della Cultura e devoto di Gianni Letta. Ed ecco, sorpresa, seduti uno accanto all'altro, di fronte al sindaco Luigi De Magistris, il sottosegretario Letta e il procuratore capo di Napoli Giandomenico Lepore, guida della procura più temuta e più incontrollabile d'Italia, da cui passano le inchieste sulla P4 e sul braccio destro di Giulio Tremonti, Marco Milanese. Al tavolo accanto, il pm Francesco Curcio, titolare dell'inchiesta sul grande amico di Letta, Luigi Bisignani. Tutti insieme, intenti a elogiare il menù tricolore, in onore dei 150 anni dell'Unità nazionale.

Massì, stringiamoci a coorte o almeno al desco e viva l'Italia, in questa settimana di paura, con il terrore del default che fa il miracolo, il Parlamento che vota in quattro giorni la manovra finanziaria, con l'intera opposizione Pd-Udc-Idv disposta ad accelerare i tempi di approvazione e con il ministro Tremonti che ne loda il senso dello Stato, unico precedente possibile la giornata più drammatica della storia repubblicana, il 16 marzo 1978, quando dopo il rapimento di Aldo Moro le Camere votarono in un pomeriggio la fiducia al governo presieduto da Giulio Andreotti.

Ma qui finiscono le somiglianze: perché nessuna unità nazionale è possibile attorno all'uomo del Crack, Silvio Berlusconi. E infatti nella stretta decisiva di lunedì 11 luglio, con la Borsa di Milano che si inabissava al meno 4 per cento, il premier si chiudeva nel silenzio e faceva perdere le tracce, impegnato probabilmente in una riunione familiare per decidere la strategia da adottare sul risarcimento di 560 milioni di euro da consegnare alla Cir di Carlo De Benedetti dopo la sentenza di Milano sul lodo Mondadori. E in assenza del presidente del Consiglio il governo della crisi finanziaria passava nelle mani del Quirinale, da Giorgio Napolitano, in collegamento con Letta a Palazzo Chigi.

Con le opposizioni, a partire dal Pd di Pier Luigi Bersani e dall'Udc di Pier Ferdinando Casini, avvistato nei giorni successivi a braccetto con Antonio Di Pietro in pieno Transatlantico, a dare il via libera per l'approvazione a tempo record, sia pure continuando a votare contro. "Se non lo avessimo fatto", ragiona il bersaniano Andrea Orlando, "Berlusconi avrebbe rovesciato addosso a noi la responsabilità della speculazione. Dopo l'approvazione della manovra, però, dovremo riprendere ad alzare la voce".

La voglia di unità nazionale provocata dagli attacchi in Borsa mal si concilia con un quadro politico sempre più sfilacciato. La tregua sembra destinata a durare il tempo di dare ai mercati l'impressione di un Paese compatto: una volta passata la manovra in Parlamento la tensione è destinata a risalire. Nel mirino, più di tutti, c'è Giulio Tremonti. Isolato nella maggioranza, abbandonato dalla Lega, sfiorato dall'inchiesta giudiziaria che coinvolge pesantemente il suo uomo di fiducia Marco Milanese. Sull'orlo di una crisi di nervi, al punto di sentire il dovere di scusarsi con i senatori dell'opposizione a Palazzo Madama: "Non dormo da due giorni". Difficile che il ministro possa tornare a sonni tranquilli nei prossimi giorni. Dopo la tempesta economica sta per abbattersi su di lui quella politico-giudiziaria. "Prima si diceva che i mercati crollavano perché Tremonti minacciava di dimettersi. Ora si afferma che i mercati vanno giù perché Tremonti minaccia di restare", sintetizza un deputato della maggioranza. "Su Tremonti noi del Pd non abbiamo detto una parola per senso di responsabilità. Ma ora bisognerà prendere posizione", avverte Orlando. Angosciante lo spettacolo che arriva dall'inchiesta di Napoli: il potente ministro dell'Economia racconta ai pm di un tentativo di intimidazione ai suoi danni organizzato all'interno della maggioranza e del governo ("Dissi a Berlusconi di essere refrattario al metodo Boffo"), descrive la trama di un complotto ai suoi danni che parte dal Pdl e da Palazzo Chigi. Mentre nel gruppo parlamentare azzurro già calcolano a decine i colleghi pronti a votare per l'arresto di Milanese quando la richiesta arriverà in aula.



lunedì 18 luglio 2011

San Raffele, suicida il vice di don Verzè Il suo avvocato: “Non era indagato”.

Mario Cal si è sparato nel suo ufficio presso l'ospedale milanese, di cui era il massimo responsabile finanziario. Pochi giorni fa era strato sentito dal pm che indaga sul buco da un miliardo di euro nei conti dell'ente. "Ma non era indagato", afferma il suo avvocato. Il manager era stato coinvolto in due inchieste ai tempi di Mani pulite.


L’ex vicepresidente del SanRaffaele, Mario Cal, si è suicidato con un colpo di pistola nel suo ufficio all’interno dell’ospedale milanese, dove lavorava da circa trent’anni. Trevigiano, 71 anni, nei giorni scorsi era stato ascoltato dalla procura di Milano in relazione al buco da oltre un miliardo di euro nei conti del gruppo. Il numero due del fondatore don Luigi Verzè è stato negli ultimi anni l’anima finanziaria del San Raffaele e della Fondazione Monte Tabor, il protagonista di investimenti milionari in tutto il mondo, a volte azzardati. Pochi mesi fa, don Verzè lo aveva definito “un amico fraterno”.

“Cal non era indagato, i magistrati milanesi lo hanno sentito soltanto come persona informata sui fatti”, ha detto il suo avvocato Rosario Minniti, “e il San Raffaele non è coinvolto in alcuno scandalo finanziario”. Secondo Minniti, il colloquio con il pm Luigi Orsi ha riguardato semplicemente “la crisi finanziaria” dell’ente ospedaliero.

Il manager si è sparato con una calibro 38 regolarmente detenuta, dopo essere arrivato in ufficio per raccogliere gli effetti personali, visto che era dimissionario. Dopo aver salutato la segretaria, ha chiuso la porta e si è sentito il colpo. L’ex vice presidente ha lasciato due lettere, una destinata alla moglie e una alle sue segretarie. Poche righe ciascuna in cui non ci sarebbe riferimento, secondo le prime informazioni, alle vicende dell’ospedale, ma solo parole di commiato.

Sembrano destinati a diradarsi, invece, i dubbi sul ritrovamento della pistola, rinvenuta in un sacchetto di plastica lontano dal corpo di Cal. Secondo la prima ricostruzione, a spostare l’arma sarebbe stato un inserviente della struttura. L’uomo sarà sentito dai pm.

Poche parole intanto sono arrivate dalla struttura medica: “Mario Cal è deceduto alle ore 10.57 presso il pronto soccorso dell’ospedale San Raffaele, dove era stato portato alle ore 10.21″, afferma in un comunicato il primario dell’emergenza Michele Carlucci. “E’ stato immediatamente rianimato”, continua, “le sue condizioni sono apparse subito critiche ci sono stati periodi di stabilizzazione dei parametri vitali, tuttavia Cal è deceduto”.

“Non era preoccupato per l’inchiesta giudiziaria, ma per i debiti accumulati dal San Raffaele, che non aveva mezzi per far fronte al pagamento dei creditori”, ha dichiarato l’avvocato Minniti. Anche se pochi giorni fa è entrato in carica un nuovo consiglio d’amministrazione, guidato da Giuseppe Profitidel Bambin Gesù di Roma, sostenuto dal Vaticano e da un nutrito pool di banche.

Negli anni Novanta, Mario Cal era stato coinvolto in due inchieste del filone Mani pulite: quella sui terreni venduti sottocosto dall’ente assistenziale Ipab, guidato dal socialista Matteo Carriera, e per una storia di corruzione alla Guardia di finanza, per ordine dell’allora magistrato Antonio Di Pietro.



Costi di casta, ogni nuovo gruppo parlamentare vale tre milioni di euro. - di Thomas Mackinson


Le formazioni - tra Camera e Senato ce ne sono tredici - hanno personale proprio e spese di segreteria che incidono per il 69,5% sui costi di funzionamento. Montecitorio spende 35,3 milioni di euro all'anno.


Casta, stipendi parlamentari e privilegi a non finire. Dopo la manovra che non taglia niente ai parlamentari ma impone pesanti sacrifici ai cittadini scatta una nuova ondata anti-casta con l’Italia intera che attraverso la rete invoca a gran voce una rivoluzione totale. Ma attenzione perché forse è meglio che nulla cambi, che tutto continui all’insegna della “l’immobilità parlamentare”. Perché ogni lite, ogni discussione o distinguo rischia solo di generare nuovi costi sulle spalle dei contribuenti. Lo rivela Il Sole24Ore che ha messo sotto la lente il costo dei Gruppi parlamentari e delle singole formazioni che ne fanno parte.

Il conto è salatissimo. I gruppi pesano sulle tasche degli italiani 35,7 milioni di euro e ogni volta che ne nasce uno nuovo arriva a costare da solo tre milioni di euro. Ogni gruppo, infatti, ha un suo personale, sue spese di segreteria che incidono complessivamente per il 69,5% sui costi per il funzionamento. Per ospitare un nuovo gruppo bisogna trovare nuovi uffici o adibire i vecchi a nuovi “ospiti”: sposta di qua, trova nuovi spazi di là, non è stupefacente il fatto che solo per l’affitto di uffici al centro di Roma Montecitorio spenda 35,3 milioni di euro all’anno. Alla fine dei conti la sola Camera spende ogni anno 57mila euro a deputato, aggiuntivi rispetto alle indennità e ai rimborsi vari. La loro conflittualità, infatti, costa cara ai cittadini. Resta una domanda di fondo: ma la legge elettorale non doveva mettere un freno alla proliferazione di partiti, sigle e partitini? Doveva, in teoria. Alle ultime politiche, infatti, i gruppi a Montecitorio erano solo cinque ma neanche due anni dopo sono diventati tredici. Con un costo aggiuntivo di 24 milioni di euro per i cittadini.

Il perché è presto detto. La legge elettorale ribattezzata “Porcellum” che porta la firma di Roberto Calderoli ha imposto sbarramenti al 4% dei voti a livello nazionale alla Camera e all’8% su base regionale al Senato. La legge ha quindi bloccato la “mobilità in entrata”, lasciando sulla soglia del Parlamento le minoranze e con esse buona parte della rappresentanza del Paese (ad esempio tutta la sinistra e la destra radicale). Ma non quella interna all’aula che si traduce in una proliferazione senza freni di nuove formazioni da parte degli eletti. Deputati e senatori, una volta occupato il loro legittimo scranno su mandato degli elettori, decidono di sedere su un altro. Così, complici i cambi di maggioranza, le scissioni si assiste al walzer dei gruppi e alla nascita di nuove sigle e siglette. Ogni gruppo ha un suo personale, sue spese di segreteria che incidono complessivamente per il 69,5% sui costi per il funzionamento. In pratica la Camera spende ogni anno 35,7 milioni di euro per il funzionamento dei gruppi: si tratta di 57mila euro a deputato, aggiuntivi rispetto alle indennità e ai rimborsi vari.

Storia di costi ulteriori, perché per ospitare un nuovo gruppo bisogna trovare nuovi uffici o adibire i vecchi a nuovi “ospiti”: sposta di qua, trova nuovi spazi di là, non è stupefacente il fatto che solo per l’affitto di uffici al centro di Roma Montecitorio spenda 35,3 milioni di euro all’anno. Ma questo pare interessare poco gli eletti, che non si lasciano imbrigliare dai costi e perseguono (ad ogni costo) i loro principi. Infatti i casi di scissione e nuova formazione sotto altre spoglie sono numerosi e stanno a destra e manca. Prima l’esodo di singoli nel Gruppo Misto, poi la diaspora dei finiani in Futuro e libertà e la nascita dei Responsabili, rispettivamente causa ed effetto del voto pro Berlusconi del 14 dicembre. A questi però vanno aggiunti i sottogruppi del misto (all’interno ci sono, per esempio, i Repubblicani azionisti e Liberaldemocratici) che comprendono anche l’Api di Francesco Rutellifuoriusciti dal Pd.

Se il quadro nazionale è questo bisogna poi verificare gli effetti a valle delle scissioni a monte. Perché se a Roma nasce un nuovo gruppo, facilmente questo si ritroverà a sedere su altre poltrone anche in regioni e province. Con effetti “moltiplicatori” dei costi che spesso sono stupefacenti. Sempre il quotidiano di Confindustria stigmatizza la situazione della Basilicata dove la popolazione conta circa 600mila abitanti (metà di quella milanese) e in consiglio regionale siedono in 30, divisi però in ben 11 gruppi. Uno, in particolare, segna il massimo della coesione interna: Popolari Uniti, infatti, sono uniti davvero perché il loro gruppo è composto da un solo consigliere che è ovviamente capogruppo e lo stesso accade a Io amo la Lucania, a Per la Basilicata, oltre a Sel, Idv, Psi, Api ed Mpa. Così gli 11 capigruppo ai 6.529,49 euro al mese che compongono l’indennità e i rimborsi del consigliere senza stellette possono aggiungere 667 euro al mese per il grado di capogruppo. Più generoso l’extra dei capigruppo nel Lazio (813 euro), e in Piemonte e Veneto (mille euro). La riprova che a trainare le scissioni e i nuovi gruppi sia il vil denaro arriva dal Molise dove non sono ammessi per statuto extra per i capigruppo. Qui il tempo si è fermato: la geografia dei gruppi è rimasta la stessa del 1994 con i gruppi di Forza Italia, Alleanza Nazionale, i Ds, la Margherita, lo Sdi e l’Udeur. Nel consiglio regionale molisano ci sono ancora tutti, e convivono serenamente con le ultime novità in fatto di partiti (c’è il Fli, oltre all’Mpa) e con le sigle locali (Per il Molise, Progetto Molise e Molise Civile).




Dal bollo al forfettone del 5% Chi vince e chi perde con il Fisco. - di Enrico Marro

Il prelievo sul conto titoli fino a 680 euro, l'Irap al 4,2%, la tassa sulle stock option: che cosa cambia.

ROMA - Più tasse per le società concessionarie, per le banche e per le assicurazioni. Più tasse per i risparmiatori, ma anche per i manager sui bonus e sulle stock option e per le auto di lusso. Vantaggi fiscali, invece, per l'imprenditoria giovanile e per il finanziamento delle nuove aziende. Infine, procedure semplificate per chiudere rapidamente e a condizioni vantaggiose il contenzioso col Fisco e una sanatoria sulle partite Iva non attive. La parte strettamente fiscale della manovra è corposa e concorre in maniera decisiva alla correzione dei conti pubblici. Basti dire che, nel 2014, ben 29 dei 48 miliardi di euro necessari per azzerare il deficit di bilancio verranno da maggiori entrate e solo 19 da tagli di spesa. Ma vediamo più da vicino le norme approvate.

Aumenta l'Irap
Salirà dal 3,9% al 4,2% l'aliquota Irap per le società concessionarie ad esclusione di quelle autostradali, già dall'anno di imposta 2011. Viene, inoltre, incrementata di 0,75 l'aliquota Irap applicata alle banche e alle società finanziarie, che sale così al 4,65%, e di due punti quella sulle assicurazioni, che diventa quindi del 5,9%. Anche qui a decorrere dal periodo d'imposta 2011. L'operazione frutterà allo Stato 889 milioni nel 2012 e 480 sia nel 2013 sia nel 2014. Viene infine consentito alle Regioni di variare le aliquote addizionali fino a un punto percentuale.

Più caro il deposito titoli
La manovra inasprisce l'imposta di bollo sul deposito titoli, sia pure in maniera più lieve di quanto inizialmente previsto. In particolare gli importi vengono modulati per fasce di valore complessivo dei titoli depositati presso l'intermediario finanziario. Il bollo è pari a 34,2 euro per un valore di titoli non superiore a 50 mila euro. Sale a 70 euro per depositi tra 50 mila e 150 mila euro, a 240 euro per quelli tra 150 mila e 500 mila euro e a 680 per i volumi superiori a 500 mila euro.

Fisco per i manager
L'articolo 23 del decreto legge modifica le norme del 2010 per il trattamento degli emolumenti variabili percepiti da dirigenti e collaboratori di imprese del settore finanziario. Quelle norme fissavano un'aliquota addizionale del 10% sui bonus e le stock option per la quota degli stessi superiore al triplo della parte fissa della retribuzione. Per effetto della manovra, sui compensi erogati a decorrere da oggi, l'addizionale del 10% si applica alla quota di bonus e stock option che eccede l'importo della retribuzione fissa. Saranno quindi molti di più i manager colpiti. Il maggior gettito previsto ammonta a 5,4 milioni nel 2011 e a 21,6 milioni nel 2012 e per gli anni successivi.

Salgono le accise
Diventa permanente l'aumento delle accise di 4 centesimi stabilito il 28 giugno per benzina e gasolio da autotrazione. Dalla norma deriveranno consistenti entrate, quantificate dalla relazione tecnica in circa 1,7 miliardi di euro.

Superbollo auto
Per i veicoli di potenza superiore a 225 chilowatt scatta un bollo aggiuntivo di 10 euro per ogni chilowatt oltre 225. Sono 418 le supercar colpite. In qualche caso per importi notevoli. Per esempio per le Ferrari 599 GTB e per le nuove FF si pagheranno rispettivamente altri 2.310 e 2.600 euro.

Agevolazioni per i giovani
Il nuovo regime prevede l'applicazione di un'imposta sostitutiva del 5%. Nel testo finale l'agevolazione è stata estesa oltre il quarto periodo di imposta successivo a quello di inizio dell'attività, ma non oltre il compimento del trentacinquesimo anno di età. Sono così incentivati ad aprire una azienda anche i giovani sotto i 30 anni. Ma la concessione del beneficio è condizionata al fatto che l'attività sia effettivamente nuova e non una prosecuzione di precedenti imprese.

Finanziamenti alle imprese
Per favorire l'accesso al capitale di rischio e la crescita di nuove imprese è prevista l'esenzione dai proventi derivanti dalla partecipazione ai fondi di venture capital per le società che abbiano determinati requisiti: 1) Investano almeno il 75% dei capitali raccolti in società non quotate nella fase di sperimentazione, di costituzione, di avvio dell'attività o di sviluppo del prodotto; 2) Non siano quotate; 3) Svolgano attività di impresa da non più di tre anni; 4) Abbiano un fatturato precedente all'investimento nel fondo di venture capital non superiore a 50 milioni di euro.

Proroga del bonus sul salario di produttività
Il governo, sentite le parti sociali, provvederà entro il 31 dicembre 2011 alla determinazione del sostegno fiscale e contributivo alle quote di salario legate alla produttività. Nel 2011 la detassazione al 10% è stata concessa per i redditi fino a 40 mila euro.

Mediazione fiscale
La manovra prevede anche una sanatoria sulle liti fiscali pendenti al primo maggio 2011 di valore non superiore a 20 mila euro, al netto di sanzioni e interessi, che costituiscono oltre la metà di quelle instaurate presso le commissioni tributarie. Il contribuente potrà presentare un reclamo per l'annullamento totale o parziale della lite (tranne che riguardi il recupero di aiuti di Stato). Se l'ufficio non ritiene di accogliere il reclamo, scatta la mediazione sulla base della proposta avanzata dallo stesso contribuente al quale l'Agenzia delle entrate può opporre una controproposta.
Se il valore della lite è di importo fino a 2.000 euro il contribuente potrà chiudere la vertenza pagando 150 euro. In caso di valore superiore a 2.000 euro, si aprono tre possibilità. Il contribuente dovrà pagare il 10% del valore della lite qualora a soccombere nell'ultima pronuncia sia stata l'amministrazione fiscale, il 50% qualora a perdere sia stato il contribuente, il 30% qualora la lite penda ancora nel primo grado di giudizio. Infine, la manovra estingue di diritto i processi in materia previdenziale che vedono coinvolto l'Inps, se sono pendenti nel primo grado di giudizio alla data del 31 dicembre 2010 e il cui valore non superi complessivamente i 500 euro. L'estinzione assicura la vittoria al ricorrente.



Bossi show a Piacenza: “Secessione” “Bombe sulla Libia? Colpa di Napolitano”. - di Massimo Paradiso


Il senatur su Papa: "Niente manette in Parlamento, ma voteremo l'arresto". "Alemanno? Farà la fine della Moratti". "Guerra in Libia? Berlusconi non c'entra, colpa del capo dello Stato". "Stipendi ai parlamentari? I miei voterebbero per ridurli, gli altri no". In realtà il Carroccio ha sempre votato contro...

“Questa è stata una settimana difficile, faceva caldo in strada e c’erano 40 gradi dentro la politica. Sono queste le premesse del leader della Lega, Umberto Bossi, che in serata ha arringato la folla di piacentini alla ventesima festa del Carroccio diPodenzano, località alle porte di Piacenza.

Il Senatur non nasconde, infatti, il difficile clima che si è respirato in maggioranza in quest’utlima settimana di passione per il governo Berlusconi, alle prese da una parte con la difficile manovra economica da approvare in tempi record e la decisione di procedere con l’arresto del deputato Pdl, Alfonso Papa. Sul quale torna a essere per l’arresto, con una posizione piuttosto confusa. Ma quando sente che il suo popolo vuole tornare alle origini ecco Bossi che torna Senatur e abbandona il federalismo: “Si, meglio fare la secessione, è la miglior medicina contro la crisi”.

STIPENDI AI PARLAMENTARI, “QUESTI NON VOTANO CONTRO I PROPRI INTERESSI”. Da sotto il palco del giardino Hawaii, i militanti della Lega hanno chiesto al Capo a più riprese rassicurazioni sulla propria pensione, comparandola a quella “d’oro” dei parlamentari. “Gli stipendi dei parlamentari sono stati ridotti di molto – risponde Bossi alla base – e ora sono stati portati nella media europea. E’ dura però convincere questi a votare contro i propri interessi, ma so già che se dico ai miei di tagliarsi gli stipendi – mette la mano sul fuoco il Senatur – i miei dicono che va bene mentre gli altri oggi ci sono e domani non vengono più”. Un particolare Bossi lo dimentica: nelle proposte di legge per la riduzione degli stipendi dei parlamentari presentate negli ultimi anni, la Lega ha sempre votato contro.

Bossi ha quindi parlato a lungo di economia, puntando l’indice contro “l’euro troppo forte che va bene per comprare il petrolio, ma ci danneggia e danneggia i nostri imprenditori”, ma sul possibile default dell’Italia, incrocia le dita: “Spero di no, anche perché Tremonti ha il braccino molto corto“.

Ma, stando a Bossi, Pontida ha influito molto sulla manovra approvata dal parlamento questa settimana, “li ha spaventati” dice a fianco a Rosy Mauro “e questa volta Tremonti ha tagliato sul serio”. Ma i tagli dovevano andare anche nella direzione delle “missioni di pace”, cosa non avvenuta.

MISSIONI DI PACE: “NAPOLITANO HA IMPOSTO A B. IL BOMBARDAMENTO DELLA LIBIA”.Appena si nominano le guerre in cui è impegnata l’Italia all’estero, i primi militanti cominciano a fischiare, ma il leader frena: “Quando è venuta la Clinton, Berlusconi ha detto che voleva far tornare gli uomini a casa perché non ci sono soldi, e l’ha detto Berlusconi - scherza il Senatur- che quando si tratta dell’America…” e fa il verso di inginocchiarsi. “Ma su questa cosa qui – continua- è il presidente della Repubblica che ha imposto a Berlusconi di bombardare“. Un concetto, che è stato ripreso almeno due volte durante la serata: “Sulla guerra Berlusconi non ha colpa – rimarca il leader della Lega – il presidente della Repubblica lo ha imposto, per non fare nomi, e Berlusconi ha dovuto dire di sì”.

PAPA? “NON VOGLIO LE MANETTE IN PARLAMENTO, MA VOTEREMO PER L’ARRESTO”.Dopo diversi cambi d’opinione nall’arco di dieci ore, Bossi sembra aver scelto la strada da seguire per non inciampare più sull’affaire Papa, una situazione in cui “può capitare di dire cose sbagliate, ma le manette in Parlamento, mai”. Insomma, sull’arresto di Papa ci si va cauti: “Prima si faccia un processo – riferisce Bossi – ma non si mettano manette prima della condanna” anche se la linea del partito è “quella di votare per l’arresto“.

RIFIUTI DI NAPOLI, “SERVE UNA STANGATA”. Durante il comizio piacentino, Bossi ha anche parlato dei rifiuti campani. La settimana scorsa il gruppo della Lega in consiglio provinciale aveva infatti promosso una mozione per impegnare la giunta targata centrodestra a mettere in atto tutte le misure per scampare l’arrivo dei rifiuti napoletani a Piacenza. “Dei rifiuti napoletani non ce ne può fregare di meno – urla Bossi dal palco incassando l’ennesimo applauso – ma mi fanno pena i ragazzi in mezzo alla spazzatura, ai topi. Una stangata lì va data, sennò il problema si ripete ciclicamente”.

“ALEMANNO COME LA MORATTI, CON B. VEDREMO SE ANDARE DA SOLI”. Prima del termine del comizio, durato più di un’ora, Bossi ragiona anche di elezioni vede nero per Alemanno. “Alemanno farà la fine della Moratti a Milano. Dimenticato”, facendo caput con la mano. Mentre l’alleanza con Berlusconi, osteggiata dalla base leghista, è in forse: “Vediamo se fare l’accordo con lui o andare da soli”. Ma dai militanti, il grido è chiaro: “Soli!”.



Tutte le accuse a Saverio Romano. - di Giuseppe Lo Bianco

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Alla base delle accuse per mafia al Ministro per le politiche agricole Saverio Romano ci sono le dichiarazioni dei pentiti Francesco Campanella, Nino Giuffrè Angelo Siino e le testimonianze di Salvatore Aragona, Mimmo Miceli e Giuseppe Acanto. C'è poi l'informativa della polizia con decine di pagine di intercettazioni telefoniche.

Il suo principale accusatore e' Francesco Campanella, un giovane e rampante prodotto del vivaio democristiano, cresciuto all'ombra di Clemente Mastella, che fu suo testimone di nozze, insieme con Toto' Cuffaro, l'ex presidente della Regione che sta scontando a Rebibbia una condanna a sette anni per favoreggiamento alla mafia. Per Saverio Romano, primo ministro imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, i guai principali arrivano da questo personaggio a cavallo tra politica e mafia, che da presidente del consiglio comunale forni' a Bernardo Provenzano la carta d'identita' per il suo ''viaggio della speranza'' sanitaria a Marsiglia, dove fu operato per un tumore alla prostata. Ma oltre a Campanella, che ai pm di Palermo ha indicato il ministro come uomo politico ''a disposizione'' della cosca di Villabate, ci sono i pentiti Nino Giuffre' e Angelo Siino, le dichiarazioni dei medici Salvatore Aragona e Mimmo Miceli, entrambi condannati, degli esponenti politici Giuseppe Acanto, Giuseppe Bruno e Rosario Enea.

E poi un'informativa di decine di pagine della polizia, centinaia di intercettazioni telefoniche e le sentenze dei processi Cuffaro, Aragona e Micelli completano il quadro delle accuse riassunto in circa tre pagine della richiesta di rinvio a giudizio firmata dal procuratore aggiunto Ignazio De Francisci e dal sostituto Nino Di Matteo. Secondo i pm, che hanno firmato la richiesta dopo l'ordinanza del gip che ha imposto loro di sollevare l'imputazione, il ministro delle Politiche Agricole ha ''consapevolmente e fattivamente contribuito al sostegno ed al rafforzamento dell'associazione mafiosa Cosa Nostra''. Come? ''Intrattenendo, anche al fine della ricerca dell'acquisizione di sostegno elettorale rapporti diretti o mediati con numerosi esponenti di spicco'' dell'organizzazione mafiosa, tra cui Angelo Siino, allora definito, per ironia della sorte, ''ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra'', a cui Romano nel 2001 chiese sostegno elettorale per Cuffaro, quell'anno candidato alle regionali (e poi eletto con un plebiscito).

Ed intrattenendo rapporti anche con i medici Giuseppe Guttadauro, Domenico Miceli e Salvatore Aragona, tutti condannati per reati collegati alla mafia, e i presunti mafiosi Antonino Mandala', Francesco Campanellae Nicola Notaro, ''mettendo a disposizione di Cosa Nostra il proprio ruolo cosi' contribuendo alla realizzazione del programma criminoso tendente all'acquisizione di poteri di influenza sull'operato di organisni politici e amminisrativi''. Nella richiesta di rinvio a giudizio i magistrati indicano due episodi, entrambi legati alla formazione delle liste elettorali: Romano, scrivono i pm, ''responsabile delle liste per le regionali del 2001 del Cdu, in concorso con Cuffaro e nel contesto di un dialogo di disponibilita' reciproche tra Romano e Guttadauro(ritenuto il capomafia di Brancaccio, ndr), contribuiva ad inserire Mimmo Miceli nelle liste del Cdu per esaudire i desideri di Guttadauro''. Un rapporto proseguito anche dopo, proseguono i pm, visto che Romano ''in esito allo svolgimento delle elezionali regionali continua ad accreditare Miceli ed il suo referente Guttadauro quali interlocutori da ascoltare e soggetti da considerare nella gestione degli equilibri del Cdu''.

E sempre '' in concorso con Cuffaro, nella sua veste di responsabile per la formazione delle liste Biancofiore, assecondando le richieste provenienti da Mandala' e rappresentate da Campanella (Romano,ndr) si adoperava per inserire Giuseppe Acanto nelle liste dei candidati del Biancofiore.
Saverio Romano ha sempre negato ogni accusa, ha parlato di corto circuito giudiziario sottolineando la lunghezza del procedimento e la difformita' di vedute tra gip e pm (che nella richiesta di archiviazione avevano comunque parlato di una sua ''evidente e duratura contiguita' con ambienti mafiosi di alto livello'') ed ha annunciato che non intende dimettersi.



Agrigento, riapre una chiesa con dedica a Cuffaro. E mezzo Pd non vota la censura. - di Antonio Condorelli


A Raffadali l'inaugurazione dell'edificio è l'occasione per celebrare l'ex senatore ed ex presidente della Sicilia, finito in carcere per favoreggiamento a Cosa Nostra. In Comune tre consiglieri del Pd su cinque si astengono sulla mozione di condanna. Associazione AdEst: "Inconcepibile, a pochi giorni dall'anniversario della morte di Borsellino".


Al cospetto di vescovi, militari e politici, l’inaugurazione della nuova Chiesa Madre di Raffadali (Agrigento) si trasforma nell’elogio di Totò Cuffaro, l’ex governatore siciliano in carcere per favoreggiamento a Cosa Nostra. Tutti ad applaudire, il caso finisce in Consiglio comunale, dove tre esponenti del Partito democratico su cinque non votano la mozione di censura.

Salvatore Cuffaro, i compaesani di Raffadali lo chiamano “Totò” da quando era piccolo. E’ una cittadina nota per il paesaggio splendido, per le centinaia di autobus turistici gestiti da “Peppuccio” Cuffaro, il fratello di Totò, e per il Comune amministrato da “Silviuccio” Cuffaro, il terzo fratello di Totò. Qui, la riapertura dopo 14 anni della Chiesa Madre si è trasformata nell’elogio del compaesano incarcerato e quando il presidente del Consiglio comunale ha pronunciato il nome “Totò”, tra le navate della cattedrale è scoppiato l’applauso. Vera testimonianza di fede e devozione.

Ad Agrigento, appena un anno fa, è stata dedicata al boss di Palma di Montechiaro la vittoria di una squadra locale nel campionato di eccellenza. “A Raffadali – spiega Gaetano Alessi, dell’associazione AdEst – hanno pensato bene di dedicare a un carcerato per fatti di mafia l’inaugurazione della Chiesa Madre al cospetto di vescovi, carabinieri e dell’intera rappresentanza politica, anche di centrosinistra”.

In provincia di Agrigento ci sono le radici del potere di Totò, che è stato assessore regionale all’Agricoltura del governo guidato per due anni (1998-2000) da Angelo Capodicasa, uno dei fondatori del Partito democratico, aderente alla mozione di Piero Fassino. Nessuno così si è meravigliato quando, due giorni fa, la questione dell’elogio a Cuffaro è finita in Consiglio comunale e i tre consiglieri del Pd non hanno votato la censura, lasciando quasi solo il capogruppo del partito Aldo Virone (è stato lui a presentare la mozione di censura), che sulla dedica dell’inaugurazione a Cuffaro ha commentato: “Siamo in una terra difficile, dove chi rappresenta le Istituzioni deve fare una scelta chiara e non ingenerare dubbi o equivoche interpretazioni con le proprie parole: o sta con chi la mafia la combatte ogni giorno o sta con quel sistema di potere che ha fiancheggiato la criminalità organizzata fino ad esserne condannato”. E ancora: “Capisco che l’ex presidente della Regione è il padrino politico di molti dei presenti in Consiglio comunale, ma l’affetto non può far dimenticare i doveri connessi alla rappresentanza istituzionale, né tanto meno l’insegnamento di Cuffaro che ha accettato la condanna in silenzio e con rispetto delle istituzioni”.

Durante la discussione in municipio, il consigliere Claudio Di Stefano, coordinatore dell’Udc, ha verbalizzato una dichiarazione di voto che sposava l’elogio a Cuffaro sottolineando il ringraziamento e la vicinanza dell’intera cittadinanza e di tutti i consiglieri di maggioranza.

Lo scontro dal municipio si è trasferito sulla Rete e su Facebook. “A due giorni dal ricordo dell’uccisione di Paolo Borsellino – spiega Gaetano Alessi – quello che è accaduto è inconcepibile. Di Stefano farebbe bene a tacere e non confondere i raffadalesi con la stretta cerchia dei cuffariani che ha devastato il nostro paese negli ultimi 10 anni. La stessa cerchia che non si sta facendo scrupolo di passare di partito in partito per avere sempre un posto al sole. Il voto in Consiglio comunale conferma ancora una volta che a Raffadali c’è chi sta dalla parte delle vittime di mafia e chi invece ‘onora’ i condannati”.

L’amministrazione che elogia Cuffaro è la stessa che sino ad oggi si è rifiutata di dedicare una via a una delle vittime più illustri di Cosa Nostra: Peppino Impastato. “In questo contesto – conclude Alessi – vorremmo sapere con chi sta il Pd: con il suo capogruppo che ricorda a tutti che i valori sono fondamentali per la crescita culturale o con gli esponenti dell’Udc e del cosiddetto Terzo polo che difendono i condannati per fatti di mafia?”.