sabato 10 settembre 2011

Nessun governo e il paese va. La formula magica del Belgio.




I partiti incapaci da oltre un anno di trovare un’intesa. Ma amministrazione ed economia funzionano.

C’è un paese nel cuore di quest’Europa sofferente che se la cava meglio degli altri. Il suo deficit pubblico è in netto miglioramento: era del 4,6 nel 2010, è del 3,6 nel 2011, sarà del 2,8 nel 2012. La sua crescita è superiore alla media: nel 2010 era stata del 2 per cento contro l’1,7 della zona euro, nel primo trimestre di quest’anno è stata dell’1 per cento contro lo 0,8 e il trend continua. Crolla la Grecia, trema l’Italia, persino la Francia sente franare il terreno sotto i piedi e la Germania cammina sulle uova. Ma il Belgio no, offre cifre virtuose e comportamenti diligenti. Quelli della Standard&Poor’s sono frustrati: avevano pronto il pollice verso, ma hanno dovuto rimettere la mano in tasca. Qual è il segreto del Belgio? Semplice, vien da dire: è senza governo dalla bellezza di 452 giorni. Una vacanza di potere che neanche l’Iraq dopo la guerra, che ce ne mise 289 per formare un esecutivo. Il Belgio è dunque acefalo, ma non per questo paralizzato. Nessun ictus istituzionale, nessuna paresi della macchina pubblica, nessun meccanismo fuori controllo. Le pensioni vengono regolarmente pagate, le immondizie puntualmente (quasi) raccolte, i malati normalmente curati e rimborsati, l’ordine pubblico decentemente garantito. I treni sono un po’ in ritardo, ma questo da sempre. Che il buon governo corrisponda a nessun governo?

In verità un governo c’è, guidato dal signor Yves Leterme. Sta lì dal 13 giugno del 2010, che fu giorno di elezioni politiche. Avrebbe dovuto curare gli “affari correnti” per qualche settimana in attesa di un esecutivo pienamente politico, figlio legittimo delle urne. Come si sa, la situazione s’imballò: nelle Fiandre il partito separatista fiammingo N-Va aveva sfiorato il 30 per cento, e gli altri non trovavano un punto di mediazione. Mentre Yves Leterme fungeva da “reggente”, si apriva un negoziato parallelo che dura tuttora, affidato all’intelligenza politica di Elio Di Rupo, socialista vallone di origini italiane. Sotto la sua guida, ogni tanto si ritrovano attorno ad un tavolo otto leader di partito. Senza fretta, per carità.
La settimana scorsa, per esempio, la riunione è saltata perché il verde Jean Michel Javaux, che è anche sindaco dell’amena cittadina di Amay, doveva imperativamente partecipare al consiglio comunale: si trattava di votare l’acquisto di una nuova macchina per i vigili e di un nuovo computer, mica bubbole. Di Rupo ha ancora una mesetto per concludere. Dopodiché, o partorisce un nuovo esecutivo di cui sarà il primo ministro (il primo vallone francofono da 32 anni a questa parte, e anche il primo omosessuale dichiarato al vertice di un paese europeo), oppure si torna alle urne.

Come si vede, non è che manchi il governo in senso stretto. Manca piuttosto il gioco politico dei partiti, confinato da un anno e mezzo nella stanza degli otto leader. Di conseguenza manca il conflitto parlamentare in tutta la sua gloria, che in Italia conosciamo bene. La reggenza di Yves Leterme sarà anche un vulnus per la democrazia belga, ma comporta alcuni vantaggi. Primo: le spese ministeriali sono ridotte al minimo. Secondo: il primo ministro reggente lavora al riparo dalle baruffe parlamentari tra valloni e fiamminghi, può quindi operare in base al buonsenso e non al punto minimo di mediazione. Terzo: lo stesso Leterme è esentato dall’adozione di misure di carattere elettoralistico, e ha potuto presentare una finanziaria non inquinata (per intendersi, priva di assatanati emendamenti localistici o corporativi: anche questi in Italia li conosciamo bene).

Nel contempo il premier può svolgere senza patemi i compiti di competenza del governo federale, reggente o meno che sia: ha presieduto l’Unione europea nel secondo semestre dell’anno scorso, e ha anche spedito qualche F-16 in Libia con l’approvazione unanime del parlamento.Esteri e difesa, infatti, come la sicurezza sociale, il 95 per cento della fiscalità, gli indirizzi economici, le telecomunicazioni, insomma tutto ciò che tocca l’“interesse nazionale”, è di competenza del governo centrale. Il resto, è bene sapere, è affidato ad altri cinque governi, regionali e comunitari. È il federalismo che tiene in piedi il corpaccione belga, o quantomeno che gli assicura un’agevole sopravvivenza da 452 giorni. Non lo mette al riparo, invece, da una possibile evaporazione statuale e politica di tipo jugoslavo, pur in assenza di conflitto armato. Evitarlo sarebbe compito delle forze politiche, per ora in naftalina. Ma questa è un’altra storia, né amministrativa né contabile.



STRISCIONE Berlusconi la merda sei tu Via da questo paese..



Lui può offenderci, noi non gli possiamo restituire la "cortesia"

Berlusconi, le voci e i timori sul "colpo finale" dei magistrati. Il retroscena.







Passerà la mano, ma non ora. Perché non intende sottomettersi ai «diktat» della politica e delle procure, «che dal '94 sono all'opera per togliermi di mezzo».
Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.

I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.

Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».

All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.

Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».

Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.

Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...

Festa Pdl, Berlusconi all’attacco “Fermare strapotere toghe rosse”


Il Presidente del Consiglio a tutto campo dal palco di Atreju: "Non c'è nessuno al mondo che mi possa ricattare". Ma riguardo all'inchiesta di Napoli emerge l'intenzione del premier di "sottrarsi e non riconoscere una certa giustizia italiana"
Il voto espresso dalla volontà popolare viene puntualmente abrogato dai magistrati. Dal palco di Atreju, la festa dei giovani del Pdl, il Presidente del Consiglio torna ad attaccare il potere giudiziario: “I cittadini sono depositari della sovranità popolare; i cittadini votano e col voto passano la sovranità popolare al Parlamento e ai suoi membri. I membri del Parlamento votano, ma il risultato del loro voto viene abrogato dalla magistratura”. Questo perchè, ha continuato il premier,  ”ogni volta che viene approvata una legge, se questa “non piace a Magistratura Democratica, politicizzata e di sinistra, viene mandata alla Corte Costituzionale a maggioranza di sinistra e viene puntualmente abrogata”.
Nel suo lungo intervento Berlusconi parla, tra le altre cose, anche dell’inchiesta della procura napoletana secondo cui sarebbe stato vittima di estorsioni di denaro da parte del direttore deL’Avanti! Valter Lavitola e dell’imprenditore barese Gianpaolo Tarantini che gli avrebbero garantito in cambio il loro silenzio sul giro di escort a palazzo Grazioli. Alla troupe televisiva che gli ha domandato se avesse timore per il suo coinvolgimento, ha risposto: “No, non c’è nessuno al mondo che mi possa ricattare”.  Però la sua intenzione, rispetto all’audizione fissata per martedì con i pm partenopei titolari dell’inchiesta, è quella di “sottrarsi, di non riconoscere la validità dell’inchiesta e una certa giustizia italiana”. “Non ho alcuna voglia di incontrare questi signori e di rispondere alle loro domande”, avrebbe detto il presidente del Consiglio ad alcuni interlocutori, aggiungendo anche la sua volontà di “denunciare in sede internazionale l’atteggiamento della magistratura italiana e l’abuso delle intercettazioni nel nostro Paese, la mancanza del rispetto della privacy, la ‘barbarie’ di spiattellare conversazioni private sui giornali”.

Poi bolla come “sfogo personale” le parole emerse dalla telefonata con Lavitola in cui aveva definito l’Italia “un paese di merda”, e offre una rettifica sostenendo che la penisola è “il paese più bello”. “A volte vorrei scappare -ha aggiunto – ma resto per cambiare il Paese. Abbiamo davanti 18 mesi e dobbiamo essere in grado di fare la riforma dell’architettura istituzionale, della giustizia e quella fiscale”.

Un assetto nuovo al sistema giudiziario è, secondo Berlusconi, necessario perché “è difficilissimo fare qualcosa di concreto in un sistema che non dà nessun potere a chi è alla guida del governo”. In questi anni il premier sostiene di aver sentito un “senso d’impotenza drammatico”. Ciononostante, sul suo operato finora appare sicuro di sé, e a chi gli chiede se ritiene di aver commesso errori, replica: “Non c’e’ nulla che io cambierei. Forse qualche volta ho esagerato in ironia, ma mai con offese brutali come quelle rivolte dai nostri oppositori. Quando mi guardo allo specchio non ho niente di cui rimproverarmi”.  L’ipotesi di un governo tecnico per il premier “fa ridere” : “Non vedo tecnici autorevoli quanto me – ha detto – non avrebbero nemmeno l’autorità per imporre i ministri”.

Quanto alle misure messe sul campo dal governo per fronteggiare la crisi economica, si difende sostenendo che la manovra è il frutto delle indicazioni fornite dalla Bce e da Bankitalia “nella lettera che ci hanno chiesto di mantenere riservata”. E poi i problemi del Paese sono il frutto degli errori della vecchia politica:  ”è una pesantissima eredità che ci viene dagli anni ’70 fino al ’92” , sono stati i governi del compromesso storico a generare il debito pubblico”, ha detto. La decisione di introdurre il pareggio del bilancio in Costituzione, invece, è un “record assoluto”, visto che l’ultimo pareggio “è stato raggiunto dal presidente del Consiglio Marco Minghetti nel 1876″.

E’ un Berlusconi a tutto campo quello che parla dal palco dell’Azione Giovani. Tra i vari temi, affronta anche quello della politica estera. Sui rapporti con Gheddafi nega che l’Italia si sia inchinata al raìs. “Io baciavo la mano a Gheddafi non come atto di sottomissione, ma di educazione” ha detto, sostenendo anche che è grazie alla sua “capacità di relazione” con il Colonnello che il Paese ha potuto consolidare la sua presenza in Libia, “importante per le forniture di gas e olio”. Ma la rivolta libica attualmente in corso è, secondo il premier, diversa rispetto a quella degli altri Paesi del Nordafrica “dove un vento di libertà inizia a soffiare”. A Tripoli, ha detto Berlusconi, “uomini di potere hanno deciso di dare vita a un’altra era facendo fuori Gheddafi”. Poi ha offerto al pubblico un ricordo dei momenti immediatamente precedenti all’intervento al fianco della Nato contro il dittatore: “quando si trattò di decidere, prima del vertice di Parigi, pensai addirittura di dimettermi, perché tra me e Gheddafi si era instaurato un sentimento di amicizia. Ho molto sofferto nel vedere come si comportava ma poi ho dovuto prendere le decisioni sulla base di ciò che era stato deciso dal Capo dello Stato e dal Parlamento e anche considerando che lui stava attaccando e decimando il suo popolo”.

Sempre sul piano della politica estera, si dice deluso anche dall’esito della vicenda riguardante l’estradizione del terrorista Cesare Battisti. UN caso sul quale, per il premier, non è ancora detta l’ultima parola: “Eravamo riusciti a instillare profondi dubbi nella Corte suprema di giustizia brasiliana, consideravo di aver convinto il presidente Lula, che invece nel suo giorno ultimo di governo ha dato ascolto ai sondaggi”, ha spiegato. Ma poi ha aggiunto che potrebbero “accadere delle cose che possono portare a modficare la situazione. Noi lavoreremo a questo riguardo”.

Il presidente del Consiglio offre poi uno sguardo sul futuro. Anzitutto quello del partito: rassicura la platea dei suoi supporter sul fatto che l’esecutivo ”è coeso e arriverà a fine legislatura”. E dopo? Su una sua ricandidatura rivela che deciderà solo alla scadenza del mandato. Ma due nomi li fa:Angelino Alfano come suo erede al Consiglio dei Ministri e Gianni Letta come possibile Capo dello Stato. “Sono due persone che stimo sopra gli altri”, ha affermato. E se il futuro per eccellenza sono i giovani, è a questi che il premier si rivolge, in chiusura, con un consiglio: ”prima di diventare professionisti della politica siate protagonisti nella vita come cittadini, manager e imprenditori. Se non si lavora si è staccati dalla realtà”. E soprattutto: “Lunga vita a voi e me: la medicina attualmente ci dà la possibilità di vivere fino a 120 anni. Approfittatene, approfittatene”.



D’Alema è un "nobiluomo" del Vaticano Il vice conte Max emblema della sinistra snob.




La scoperta: il leader Pd è "nobiluomo" del Vaticano dopo aver richiesto invano un titolo superiore. Tre benemerenze in sei anni: così il "compagno" è diventato un nobile. Idealizzava una società senza classi, ora si ritrova in business class. Da anni la sinistra è un susseguirsi di yacht, case chic e lussi...


Il «conte rosso» per antonomasia è sempre stato Luchino Visconti. L’idea che ora possa esserlo Massimo D’Alema è di sicura impronta marxiana: la storia, ammoniva il gran barbuto di Treviri, quando si ripete è sempre una farsa. Il Fatto pubblica delle foto del conte Max, allora ministro degli Esteri, infracchettato e superdecorato in un’udienza papale del 2006: più che il diavolo e l’acqua santa è una specie di Miseria e nobiltà: al posto del principe di Casador c’è un N.H. con i baffi, l’Ordine Cileno, la Legion d’Onore di Francia e, fresco di nomina pontificia, lo stellone di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine Piano sul petto. Voleva il titolo più alto, lui. Quello di conte. Ma non sapeva che il Vaticano lo riserva ai capi di Stato.
Così si è dovuto «rassegnare» a essere solo un vice. Ma, a conti fatti, vice conte val bene una messa. Si ignora se avesse ai piedi le famose e costose scarpe di cuoio fatte a mano scoperte qualche anno prima presso un calzolaio calabrese, e se sul «Tevere più largo» dell’intesa fra Stato e Chiesa ci fosse arrivato in barca a vela. Si può escludere, visto il rigido protocollo e l’assenza dello chef Vissani, che ci sia stato il tempo per una risottata catto-comunista nella foresteria vaticana.
Abbiamo convissuto per anni con l’idea che i «compagni» fossero persone serie, pericolose proprio perché convinte delle loro idee. Eravamo giovani e quindi eravamo ingenui: non avevamo capito che sotto il vestito rosso non c’era niente, bastava invitarli a pranzo o portarli dal sarto e la rivoluzione sarebbe finita lì.
Da anni ormai la sinistra è un susseguirsi di yacht, merchant bank dove non si parla inglese, vigneti e abiti griffati. Ci siamo abituati ai vellutini di Fausto Bertinotti e ai foulard di Achille Occhetto, agli sloop di 60 piedi di SuperMax, alle piccole Atene di Capalbio (o era Cetona? Ah, saperlo), alle tenute agricole nelle Langhe care a Cesare Pavese, o nell’ubertosa Umbria da sempre cuore caldo della sinistra di lotta (ma dai) e di governo (ma sì). Ci siamo anche abituati all’idea di leader del comunismo che fu, pronti a giurare che loro, comunisti, non lo erano mai stati (Veltroni docet). Perché sorprenderci ora se li vediamo inseguire un titolo nobiliare? È vero: già Giovanni Giolitti sosteneva che un sigaro e una croce di cavaliere non si negavano a nessuno, ma quella era l’Italietta liberal-conservatrice, mica il «Paese normale» della retorica progressista...
Diceva Chateaubriand che l’aristocrazia passava per tre età successive: «L’età delle qualità superiori, l’età dei privilegi, l’età delle vanità. Uscita dalla prima, degenera nella seconda e si spegne nell’ultima». La sinistra è divenuta aristocrazia senza averne i meriti e accontentandosi dei difetti: perpetua i privilegi, è superbamente vanitosa. Da tempo non rappresenta più nulla, ma ha imparato a farlo con sussiego e prosopopea: la «diversità», la «questione morale», la «parte sana» eccetera, eccetera.
È una sinistra con la puzza sotto il naso, il mutuo cospicuo in banca e il contratto da rinnovare in Rai, o presso qualche ente, o presso qualche grande editore, sempre indignata e sempre sofferente, per anni convinta di doversene andare, sdegnata, in esilio: il clima si era fatto invivibile, la democrazia non c’era più. Naturalmente è ancora qui.
Si dirà: non c’è niente di male a volere un po’ di ricchezza, a sognare un’ascesa sociale, a inseguire un quarto di nobiltà... Ci mancherebbe: dalla società senza classi alla business class può anche essere un programma politico. Basta saperlo. Male che vada, voli Freccia alata, giri il mondo e bombardi la Serbia. È per questo che fin dall’infanzia ci si iscriveva alla Direzione del Pci.


"Inganno Globale", di Massimo Mazzucco



Il film-inchiesta italiano di Massimo Mazzucco, il responsabile di Luogocomune.net.

L'atto di accusa contro tutte le incongruenze, assurdità e bugie che i media e le inchieste ufficiali stanno offrendo al pubblico da quel lontano settembre 2001. Nessuna teoria della cospirazione, nessuna fantasiosa ricostruzione, ma solo una serie di domande che nessuno ha mai voluto porre prima ed a cui nessuno ha voluto mai rispondere.



Leggi anche:
https://www.facebook.com/notes/mario-scarpanti/1-tutto-quello-che-avreste-sempre-voluto-sapere-sull11-settembre-2001-ma-che-non/10150315283195909


https://www.facebook.com/notes/mario-scarpanti/2-tutto-quello-che-avreste-sempre-voluto-sapere-sull11-settembre-2001-ma-che-non/10150315270915909


http://www.tempi.it/11-settembre-tutte-le-tesi-complottiste-e-le-versioni-ufficiali?page=3



venerdì 9 settembre 2011

Da www.mentecritica.net




  • Sacconi Neri
  • Default Italia, 62 Giorni al Fallimento: I Maledetti Sindacati
  • Sciopero CGIL, Camusso: questo è uno sciopero politico!
Sacconi Neri

La barzelletta, l’aneddoto, chiamiamolo come ci pare, di Sacconi. E vabbé, il delirio di un tizio che sembra survoltato da chissà quale sostanza – visto quanto si agita? – e reduce probabilmente la sera prima dalla visione annebbiata di “Flavia la monaca musulmana”. Sono miserie da vecchi dai neuroni morenti.
Piuttosto io ho notato Bonanni, lì a fianco, che non ha battuto ciglio. Ecco, un pensierino, un leggerissimo sfanculamento anche per lui non guasterebbe. Per par condicio.
Vado a dar di rota alla vecchia Guillottin.
 

Default Italia, 62 Giorni al Fallimento: I Maledetti Sindacati

C’è chi, da centro-destra, da filo-governativo o da servo di Berlusconi, ha bocciato lo sciopero della Cgil e  definito la Camusso una in “crisi d’identità che sciopera per un mondo che non c’è più”.

E’ vero. Un certo mondo non c’è più. Ma i lavoratori ci sono. Il mondo del lavoro, c’è. Con buona pace dei berlusconiani.
Si tratta di capire – onestamente  – quale sia oggi il contesto specifico professionale di quel mondo e quello più ampio della società dove gli italiani lavorano, non trovano lavoro, hanno un lavoro precario.
Liquidare lo sciopero del 6 settembre 2011 proclamato dalla Cgil, e al quale hanno aderito anche lavoratori iscritti ad altre sigle sindacali o non iscritti, come il solo tentativo di sopravvivenza di una parte di rappresentanza sindacale significa non capire o, peggio ancora, non voler capire cosa sia il paese reale.
Qualcuno ha anche definito come “demenziale” lo sciopero proclamato dalla Cgil. Per un solo motivo: ne temeva la partecipazione estesa.
Costoro, come coloro che dal centro-destra hanno sminuito in buona o mala fede la scelta di manifestare, non hanno presente quale sia stata l’evoluzione o l’involuzione del lavoro in Italia.

Molti anni fa, nel nostro paese c’era il lavoro ma non c’erano i diritti dei lavoratori. O quanto meno, non erano garantiti in maniera adeguata rispetto ai dettami della Costituzione, al rispetto della dignità della persona, alla logica del do ut des che presiede un corretto e proficuo rapporto professionale.
In anni successivi, i lavoratori hanno visto riconosciuti i loro diritti. C’era lavoro. C’erano i diritti dei lavoratori. L’approvazione dello Statuto dei lavoratori è stato un atto importante. Indispensabile.

Negli anni successivi, la triade sindacale Cgil-Cisl-Uil ha rafforzato il suo potere contrattuale e, di fatto, è diventata la terza gamba politica: governo, parlamento, sindacato.
In questo ruolo ha contribuito al disfacimento della società italiana quando ha scelto di battersi per privilegi, quando ha ottenuto condizioni – ne cito una: andare in pensione con lo stipendio medio degli ultimi cinque anni – che aumentavano la spesa pubblica e nulla avevano a che vedere con il giusto riconoscimento dei diritti dei lavoratori. Erano gli anni in cui la triade sindacale, accanto a battaglie contrattuali anche sensate, ha spesso difeso lavativi e ricattatori più che sostenere misure economiche indirizzate ad una maggiore giustizia sociale. Così facendo, ha indebolito il lavoratore nel contesto sociale generale. In quel periodo, CGIL, CISL e UIL erano fuori dal mondo. E non lo sapevano.

Gli errori commessi in quegli anni li stiamo pagando. Non solo i giovani. Li stanno pagando anche i  lavoratori e le lavoratrici ai quali oggi si vuole allungare l’età pensionabile.
Costoro devono pagare le pensioni baby, il sistema retributivo (pensione determinata in base agli stipendi degli ultimi anni) anziché contributivo (pensione determinata secondo gli effettivi contributi) nonché tutti gli sperperi, le inefficienze, le ruberie della classe politica.
Capite che, in questa condizione, tanto vale dire ai lavoratori: scordatevi la pensione. Oppure: morite prima.

Passano gli anni.
Siamo nella cosiddetta seconda repubblica. Lo scenario è prevalentemente quello di una classe politica mediamente volgare, incapace di governare un paese, e con un italiano medio – va detto – che ha perso il senso della collettività ed è soggiogato dal modello consumistico e, a seguire, dal modello del berlusconismo.  
I sindacati ci sono sempre. La logica comportamentale non è cambiata. Stanno però cambiando alcune condizioni sociali. L’introduzione dell’euro già chiede di “tirare la cinghia”. Gli anni dall’euro ad oggi hanno prodotto un impoverimento degli italiani perché, nel contesto dell’individualismo e del berlusconismo, si è approfittato per aumentare prezzi mentre pensioni e stipendi rimanevano al palo. I nodi stanno venendo al pettine.

Siamo quindi partiti con: lavoro ma non diritti, siamo passati a lavoro con diritti, poi a lavoro, diritti e privilegi. E oggi come siamo messi?
Oggi stiamo con padri e madri di famiglia che perdono il lavoro, con giovani senza lavoro o con lavori precari che non consentono un reddito adeguato al costo della vita. E con il tentativo di perdere i diritti acquisiti. Coloro che hanno ottenuto privilegi non sono minimamente toccati da nessuna manovra economica. Siamo sommersi di evasione ma stiamo anche pagando pensioni in misura maggiore di quanto spetterebbe. Stiamo dando un reddito pensionistico minimo ad alcuni ma anche servizi aggiuntivi che forse andrebbero tagliati o ridimensionati. Perché non si può riconoscere un reddito in base ad un modello sociale che dobbiamo cambiare. Perché se non cambiamo il nostro stile di vita, salteremo per aria.
In realtà: una parte del paese salterà per aria. Un’altra no. Perché continuerà ad evadere e quindi potrà continuare a vivere assorbita dal modello del berlusconismo.

Alla classe politica – di governo e di opposizione – agli economisti che ci intrattengono sullo spread dei Btp e sull’andamento delle borse che corrisponde o non corrisponde alla situazione reale dell’impresa italiana (avrei da dire su questo punto, ma al momento tralascio), ai giornalisti – pochi indipendenti e troppi servi e/o condizionati dalla pubblicità che paga il loro stipendio – ai sindacati, non vorrei sfuggisse  in che mondo siamo.
Stiamo entrando, o siamo già, nell’era: senza lavoro, senza diritti, con i soliti privilegi. In qualsiasi modo siano stati ottenuti: per evasione, corruzione, clientelismo, sindacalismo.
Senza lavoro e senza diritti non si può stare. E non perché lo affermi la Costituzione. Perché lo sancisce il diritto alla dignità della persona. Che si garantisce comprendendo la realtà, cercando onestamente soluzioni ai problemi sociali, rimediando agli errori del passato non aggiungendo altri errori.
Non so se la Cgil sia in “crisi d’identità per un mondo che non c’è più”. Credo di sapere però che CISL e UIL non abbiano le proposte adeguate e non facciano le azioni appropriate per rimediare agli errori del passato.
Ovvio che tanto più vale per la classe politica. Ma vale anche per tutti gli italiani che non sono in grado, culturalmente, mentalmente, di capire che è ora di rivedere un modello sociale. Nel quale, certi errori non sono più ammessi.

Lo sciopero della CGIL aveva una ragione d’essere. Non è fuori del mondo. Lo sarà, se questo sindacato si limita a contarsi e compiacersi. Lo sarà, se questo sindacato non capisce che non è più tempo per certi errori. Che bisogna conoscere la realtà del lavoro e quali diritti debbano essere tutelati.
Senza cedimenti. Senza compromessi. Senza pateracchi. Ovviamente, l’auspicio vale anche per CISL e UIL e le altre sigle sindacali.

Non sono più accettabili contrattazioni per ottenere illogiche condizioni, privilegi, sprechi dei contributi pubblici. La classe politica è incapace di governare e legiferare. Il sindacato vuole continuare ad essere la terza gamba degli incapaci? 

Sciopero CGIL, Camusso: questo è uno sciopero politico!

Da wikipedia “Al di là delle definizioni, la politica in senso generale, riguardante “tutti” i soggetti facenti parte di una società, e non esclusivamente chi fa politica attiva, ovvero opera nelle strutture deputate a determinarla, la politica è l’occuparsi in qualche modo di come viene gestito lo stato o sue substrutture territoriali. In tal senso “fa politica” anche chi, subendone effetti negativi ad opera di coloro che ne sono istituzionalmente investiti, scende in piazza per protestare.”
Si è svolto ieri lo sciopero della CGIL che ha visto la partecipazione, oltre agli aderenti alla CGIL, anche di iscritti alla CSL e UIL.
Una grande manifestazione contro la manovra economica che il governo sta approntando e di cui ha messo, proprio ieri, la fiducia.
La Camusso, nel suo discorso a Roma, oltre alle critiche, ormai conosciute, alla manovra, di cui la CGIL ha preparato una contromanovra, (vedi anche qui) ha ribadito un concetto importantissimo in risposta a chi sosteneva la politicità dello sciopero: “ancora una volta si è detto che lo sciopero della CGIL è uno sciopero politico. Si, lo è, perché il sindacato ha una funzione alta. Non abbiamo paura di questa parola. Piuttosto ci spaventa l’anti-politica. Abbiamo fatto tante proposte, le cose da fare non mancano. Si potrebbe cominciare con il taglio del vitalizio ai parlamentari. Solo così potremmo scoprire se questa maggioranza fa gli interessi del Paese o solo ed esclusivamente della classe politica eletta”.
Dunque, lo sciopero non è solo uno strumento di ricatto, ma è, innanzi tutto, uno strumento politico con cui chi non detiene il potere può bloccare provvedimenti governativi che sarebbero negativi per loro o ritenuti tali per l’intera società.
Niente di più vero in una società che, pur richiamandosi a valori democratici e laici, tende ad usare i cittadini unicamente come serbatoio elettorale togliendo loro ogni possibilità di intervento. Al riguardo basta pensare alle resistenze quando, i cittadini, raccolgono firme per un referendum che, dopo lo sciopero, è l’unico momento in cui può intervenire direttamente.
Lo sciopero di ieri è stato uno sciopero politico, e non poteva essere diversamente visto i problemi affrontati. Ma politico lo sarebbe, e lo erano, anche qualora si fosse trattato di richieste salariali o, comunque, riguardanti il mondo del lavoro. Questo perché la politica non è e non deve essere appannaggio dei soli “politici”, anzi, la politica è proprio il contrario di quanto vogliono farci credere, specialmente a destra. La politica è l’interesse generale nei confronti della società e di coloro (i politici) che sono chiamati a gestirla. Se cosi non fosse, il cittadino sarebbe degradato a semplice numero elettorale; perderebbe i presupposti democratici di responsabilità che sono alla base anche della nostra costituzione.
Concludendo, è giusto riportare lo sciopero alla sua dimensione politica perché, in ogni caso, influenza le decisioni dei politici.