sabato 29 ottobre 2011

Il debito pubblico italiano, quando e chi lo ha formato. Giorgio Arfaras*

Il debito pubblico in Italia

Governo dopo governo, dagli anni Cinquanta a oggi, come si è evoluto il rapporto percentuale debito pubblico/Pil nel nostro Paese? Perché si è formato questo debito? Quali le responsabilità? Infografica con una analisi di Giorgio Arfaras, direttore della Lettera economica del Centro Einaudi.

Il debito pubblico, che si manifesta come le obbligazioni emesse dal Tesoro, si forma perché le spese dello Stato sono maggiori delle sue entrate – il deficit pubblico. La differenza, se non è finanziata con l’emissione di moneta, è coperta con l’emissione di obbligazioni. Si deve perciò andare alla ricerca della fonte: come si è formato il deficit.
Più o meno tutti i Paesi sviluppati hanno visto crescere smisuratamente la spesa pubblica a partire dagli anni Sessanta. Quelli che hanno registrato una crescita delle imposte non troppo distante dalla crescita della spesa, hanno oggi dei debiti contenuti. Altri, invece, hanno speso velocemente, con le imposte che crescevano lentamente. Da qui i grossi deficit, che cumulati, hanno prodotto un gran debito.
La spesa pubblica si divide in spesa pubblica “per lo Stato minimo”, e in quella “per lo Stato sociale”. La prima finanzia la polizia, i magistrati, i soldati. Ossia l’ordine, la giustizia, la difesa. La seconda finanzia i medici, gli infermieri, le medicine, gli insegnanti, ecc. Ossia l’istruzione e la salute. Le pensioni sono ambigue, perché sono pagate – attraverso un apposito organismo – a chi è in pensione da chi lavora, quindi sono un trasferimento, non proprio una spesa.
Premesso ciò, la spesa per lo stato minimo è rimasta all’incirca la stessa nel secondo dopoguerra, mentre è esplosa quella per lo stato sociale. Ed è qui il punto. Quest’esplosione è avvenuta in tutti i Paesi europei. Negli Stati Uniti un po’ meno, ma non troppo meno, se si fanno dei conti sofisticati. Dunque non è un fenomeno solo italiano. O meglio, l’Italia spende più di alcuni altri Paesi, ma non “troppo di più”. Il punto è che ha incassato di meno per troppo tempo. (I conti comparati sulla spesa pubblica per lo stato minimo e per quello sociale vanno fatti escludendo la spesa per interessi sul debito, che è il frutto del cumularsi dei deficit nel corso del tempo e non della spesa corrente).
Abbiamo così a che fare con un fenomeno storico. Se abbiamo a che fare con un fenomeno storico, allora la crescita del debito non è attribuibile – se non in minima parte – a un bravo o cattivo presidente del consiglio dei ministri. Il protagonista è il “Processo” e non l’“Eroe”.
In conclusione, l’Italia ha speso più di quanto incassasse per troppo tempo, e si trova oggi ad avere un gran debito pubblico. Fino a quando ha speso più di quanto incassasse? Fino a prima dell’ultimo governo Andreotti. Il conto è fatto guardando la spesa pubblica meno le entrate prima del pagamento degli interessi (il saldo primario). Intorno al 1990 il bilancio dello Stato va in pareggio prima del pagamento degli interessi. In altre parole, non genera un nuovo deficit prima di pagare gli interessi sul cumulato dei deficit prodotti nel corso della storia (il debito).
Da allora il saldo primario è stato o in avanzo, o in leggero disavanzo. Il deficit è stato il figlio del pagamento degli interessi sul debito cumulato. I deficit solo finanziari hanno però prodotto altro debito. La crescita economica (la variazione del PIL) non è mai stata troppo robusta, e perciò il rapporto debito su Pil o è rimasto stabile, o è appena sceso, o è cresciuto. Ultimamente il rapporto è cresciuto molto, perché il PIL (il denominatore) è caduto molto nel biennio 2008/2009 e non si è ancora ripreso.
*Direttore di Lettera economica del Centro Einaudi.

Cgia Mestre: disoccupazione all'11% con le nuove norme sui licenziamenti.




Secondo le stime dell'associazione degli artigiani, in questi mesi di crisi, le promesse fatte alla Ue avrebbero fatto salire di quasi 3 punti percentuali il numero dei senza lavoro. Il ministero del lavoro ribatte: "Tesi senza fondamento, con nuove regole più occupazione".


MILANO - Se una normativa che rendesse più semplici i licenziamenti fosse stata applicata durante gli anni della crisi economica il tasso di disoccupazione in Italia sarebbe salito all'11,1%, anzichè essere all'8,2% attuale, conquasi 738 mila persone senza lavoro in più rispetto a quelle conteggiate oggi dall'Istat. È lo scenario delineato dall'associazione artigiani Cgia di Mestre, secondo quello che il segretario Giuseppe Bortolussi definisce "un puro esercizio teorico" ottenuto "ipotizzando di applicare le disposizioni previste dal provvedimento sui licenziamenti per motivi economici a quanto avvenuto dal 2009 ad oggi".

Nella simulazione della Cgia è stato calcolato il numero dei lavoratori dipendenti che tra l'inizio di gennaio del 2009 e il luglio di quest'anno si sono trovati in Cig a zero ore. Vale a dire i lavoratori che sono stati costretti ad utilizzare questo ammortizzatore sociale del quale, con il nuovo provvedimento - secondo la Cgia - potranno disporre probabilmente solo a licenziamento avvenuto. Pertanto, se fosse stata applicabile questa misura segnalata nei giorni scorsi dal Governo all'Ue, negli ultimi due anni e mezzo, questi lavoratori, che hanno usufruito della Cig, si sarebbero trovati, trascorso il periodo di "cassa", fuori dal mercato del lavoro.

Secondo la stima della Cgia, sommando le Ula (Unità di lavoro standard) che hanno utilizzato la Cig a zero ore nel 2009 (299.570 persone). Nel 2010 (309.557) e nei primi sette mesi di quest'anno (128.574), si ottengono 737.700 potenziali espulsi dal mercato del lavoro che in questi ultimi due anni e mezzo avrebbero fatto salire il tasso di disoccupazione relativo al 2011, all'11,1%.


Ma il ministero del Lavoro ribatte: l'ipotesi del centro studi della Cgia di Mestre, "guidato dal candidato del centrosinistra alla Presidenza della Regione Veneto", sull'aumento della disoccupazione a fronte di norme di semplificazione sui licenziamenti "è destituita di ogni fondamento", si legge in una nota del ministero del Lavoro secondo la quale le simulazioni sulla maggiore flessibilità in uscita anche realizzate a livello internazionale "danno più occupazione".  "Ciò che l'Unione europea chiede all'Italia è una combinazione di maggiore flessibilità nella risoluzione del rapporti lavoro e di maggiore protezione del lavoratore. Tutte le ipotesi di adempimento di questa richiesta sono quindi rivolte a consolidare il sistema di ammortizzatori sociali, a partire da tutte quelle situazioni nelle quali può essere conservato il posto di lavoro attraverso la cassa integrazione e gli accordi collettivi che è intenzione del governo ancor più incoraggiare", precisa la nota.

L’Euro e la (lucida?) follia di Berlusconi. - di Peter Gomez.







Adesso rischiamo davvero grosso. Il naufragio è realmente più vicino. Mentre con l’ultima asta dei Btp l’interesse sui titoli di Stato schizza al livello record del 6,06%, il Titanic Italia resta pilotato da un uomo (che appare) ormai in avanzato stato confusionale. Da un premier (che non sembra) più in grado di soppesare le conseguenze delle proprie affermazioni.

Prima il presidente del Consiglio boccia l’Euro durante un discorso davanti alla platea degli Stati Generali del commercio estero.

Lì davanti alle telecamere dice testualmente che “l’attenzione sull’Italia deriva dal fatto che c’è un attacco all’Euro che non ha convinto nessuno come moneta. E in effetti è una moneta un po’ strana, perché è una moneta non di un solo Paese, ma di tanti Paesi messi assieme, che però non hanno un governo unitario dell’economia, e che non ha alle sue spalle una banca di riferimento e di garanzia. È un fenomeno che non si era mai verificato e quindi l’Euro di per sé si presenta come moneta attaccabile dalla speculazione internazionale”.

Poi quando esplodono le polemiche, e il Quirinale va su tutte le furie, innesta un’incredibile, main realtà solo parziale, marcia indietro“Come al solito”, scrive in una nota , “si cerca di alzare pretestuose polemiche su una mia frase interpretata in maniera maliziosa e distorta. L’Euro è la nostra moneta, la nostra bandiera. E’ proprio per difendere l’Euro dall’attacco speculativo che l’Italia sta facendo pesanti sacrifici. Il problema dell’Euro è che è l’unica moneta al mondo senza un governo comune, senza uno Stato, senza una banca di ultima istanza. Per queste ragioni è una moneta che può essere oggetto di attacchi speculativi”.

Ora il punto non è che Berlusconi conduca pubblicamente riflessioni sull’Euro, mischiandole  ai consueti attacchi alla magistratura e a tutte le istituzioni di controllo. Quello che ha detto su una moneta unica di uno Stato che non esiste è in parte vero. Non è però vero che l’Euro non abbia “mai convinto nessuno”. E soprattutto anche un broker alle prime armi capirebbe che prendersela con la valuta europea, mentre è in corso una tempesta finanziaria come questa, è un sistema sicuro per peggiorare ancora la situazione. Per spingere non solo l’Italia, ma l’intera Unione, se non verso il default, almeno verso una nuova ondata di speculazione. Proprio quello che a parole (ma non con i fatti) il premer sostiene di voler evitare.

Per questo è il caso di andare oltre le apparenze. E di ricordare che il centro-destra è da sempre anti-europeista e che Lega, più volte in passato, si è pubblicamente schierata per il ritorno alla lira, in modo da poter svalutare la moneta nella speranza di recuperare competitività. Nel 2005 l’allora ministro del welfare, Roberto Maroni, aveva persino proposto di far votare ai cittadini l’uscita dall’Euro.

Così oggi, nella mente di molti esponenti della maggioranza – e in quella di Berlusconi che si sente offeso da Merkel e Sarkozy -, sta riprendendo corpo l’idea di far saltare tutto facendo la guerra a Bruxelles. Di tornare, traumaticamente, ai tempi e alla valuta antica.

Che questa sia la soluzione giusta per un Paese al collasso è, per usare un eufemismo, del tutto opinabile (le materie prime e petrolio si pagano, tra l’altro, ancora in dollari). Ma il progetto piace. Parecchio. Sia a chi fa politica, che sulla battaglia contro la valuta unica e gli odiati euroburocrati può impiantare un’intera campagna elettorale. Sia a chi in questi anni ha fatto tanti, e spesso oscuri, affari.

Anche perché nei conti esteri dei paradisi off-shore i soldi vengono depositati in dollari. E senza l’Euro, o con un Euro debolissimo, per quei ricchi Paperoni, sarebbe davvero tutta un’altra musica.


venerdì 28 ottobre 2011

Se Air France non ride e Alitalia piange. - di Leonardo Martinelli




A fine 2011 il bilancio del colosso francese dei cieli rischia di virare in negativo. "Colpa" della primavera araba che ha svuotato i voli verso il Mediterraneo. Le conseguenze peggiori - complice anche la sempre più evidente inimicizia tra Sarkozy e Berlusconi - potrebbero riversarsi sulla nostra compagnia di bandiera di cui i cugini posseggono il 25%.

Berlusconi e Sarkozy, che al vertice di Bruxelles non hanno incrociato neppure gli sguardi. E una situazione contabile per Air France-Klm che, secondo le voci, sempre più insistenti a Parigi, è in fase di degenerazione accelerata. Siamo sicuri che il colosso-franco-olandese, che già possiede il25% di Alitalia, avrà ancora l’intenzione di accaparrarsi il resto del capitale a fine 2012, quando i soci italiani potranno vendere a chi vogliono? In realtà sta diventando sempre più improbabile. E al di là delle solite paturnie patriottiche, per la compagnia italiana questo può rappresentare solo un problema. Mesi ed anni futuri saranno economicamente difficili. Per tutti. Alitalia compresa.

Nei giorni scorsi radio Bfm Business ha dato per sicuro che «Air France-Klm procederà a un importante profit warning». Il gruppo prevedeva di terminare il 2011 con i conti positivi, ma gli analisti del settore a Parigi cominciano a storcere la bocca: possibile un bilancio in rosso. I vertici del colosso hanno opposto un no comment. Ma lo scorso 17 ottobre hanno già cacciato dalla poltrona di amministratore delegato Pierre-Henri Gourgeon, sostituito da Jean-Cyril Spinetta, che aveva già svolto quella funzione in precedenza. E alla guida di Air France, la componente francese (e più importante dell’alleanza), hanno messo Alexandre de Juniac, un manager che più sarkoysta non si puo’. Tutti segnali di nervosismo. Aggravati ora da uno sciopero indetto dai principali sindacati dei dipendenti che si prolungherà da domani, sabato, fino a martedì, giusto per rovinare il ponte dei morti di tanti viaggiatori francesi.

I dati del terzo trimestre dell’anno, che aiuteranno a valutare la situazione finanziaria, sono previsti per il 9 novembre. Ma quelli già disponibili, per il periodo aprile-giugno, non lasciano sperare niente di buono. Quel trimestre si è chiuso con perdite operative pari a 145 milioni e nette di 197, a causa soprattutto della «primavera araba» (i voli verso la sponda Sud del Mediterraneo partivano e ritornavano semivuoti: la situazione è solo in parte migliorata) e del disastro diFukushima in Giappone. A lungo i dirigenti di Air France-Klm hanno ripetuto che nel 2011 avrebbero migliorato i conti rispetto all’anno scorso (archiviato con un utile operativo di 28 milioni). A fine luglio, invece, si sono limitati a promettere conti positivi. Adesso potrebbero ammettere che il bilancio si chiuderà peggio del previsto, forse addirittura in rosso. Per quanto riguarda il risultato 2011 prima degli oneri finanziari (Ebit), un pool di esperti di Starmine, filiale di Thomson Reuters, prevede già da ora perdite per 88 milioni.

A tutto questo si aggiunge un indebitamento netto che a fine giugno era stimato a sei miliardi(1,4 per Lufthansa e 480 milioni per Iag, il tandem British Airways-Iberia). I due concorrenti principali soffrono, ma meno di Air France, che perde terribilmente quote di mercato nei confronti delle società low cost. Intanto in Borsa l’azione Air France-Klm è ormai sotto del 57% rispetto all’inizio dell’anno. Insomma, è molto improbabile che il colosso si preoccupi a breve e medio termine della sorte della «cugina» Alitalia, anche se questa avrà un bisogno disperato di fondi a fine 2012. A questo si aggiunge il fatto che il duo ora in sella ai vertici di Air France-Klm è legato mani e piedi all’entourage di Nicolas Sarkozy, in particolare de Juniac, che già nel lontano 1994 lo incrociò, allora ministro del Bilancio, operando per lui come consigliere. Dopo aver lavorato ad alti livelli per gruppi francesi, in particolare Thales, è stato il braccio destro di Christine Lagarde, già ministro dell’Economia di Sarkozy, prima che la signora andasse a dirigere il Fondo monetario internazionale. Insomma, anche negli ultimi anni i suoi legami con il Presidente sono stati strettissimi. De Juniac non muoverà un dito se Sarkozy non darà il via libera. Ed è assai improbabile che Sarkozy voglia collaborare in qualsiasi modo con lo screditato premier italiano. I rapporti tra i due, dopo i risolini del Presidente francese domenica scorsa, sono ormai pessimi. D’altra parte fu proprio Berlusconi a opporsi nel 2008 al un’offerta di Air France-Klm per comprare il 100% di Alitalia. I francesi ne acquisirono l’anno dopo il 25%, ma a prezzo stracciato , quando la compagnia italiana sembrava ormai bollita. «Merci Silvio», titolò il quotidiano Les Echos.



Cina-Europa. Inizia la “lunga marcia” delle trattative per attirare i capitali orientali. - di Matteo Cavallito




Il salvataggio europeo passa dal coinvolgimento dei capitali cinesi. Ne è consapevole Klaus Regling numero uno del fondo salva-stati, atterrato ieri a Pechino per l’avvio delle discussioni. Le opzioni non mancano, ma la strada verso l’accordo è ancora tutta da percorrere.

E alla fine, se non altro, Giulio Tremonti potrà affermare senza remore il sempre consolante “io l’avevo detto”. Messo da parte dal suo presidente del Consiglio e ormai definitivamente escluso dalla stesura dei programmi del Governo (nella lettera di intenti presentata all’Ue non c’è traccia del suo contributo), il super ministro delle finanze può trovare infatti almeno il conforto della preveggenza. Visto che, a due giorni di distanza dalla notte più lunga dell’eurozona, i programmi a breve e medio termine dell’Unione sembrano confermare in pieno l’intuizione di fine estate del titolare dell’economia: per salvare l’Europa dalla catastrofe non si può fare a meno dei cinesi.

Aprire le porte a Pechino, coinvolgere i capitali cinesi nel finanziamento del Fondo salva Stati (Efsf), mettere sul piatto obbligazioni, beni immobili e, perché no, anche qualche golden share. Quello che all’inizio di settembre era stato il leitmotiv del vertice “segreto” Tremonti-Lou Jiwei (il presidente del fondo sovrano China Investment Corp. una bestia da oltre 400 miliardi di dollari) torna oggi prepotentemente alla ribalta su scala continentale. Il numero uno dell’Esfs Klaus Regling è volato ieri in Cina per incontrare, tra gli altri, il vice-ministro delle finanze della seconda economia del Pianeta, Zhu Guangyao. Per ora, ha fatto sapere quest’ultimo, nessun accordo è stato raggiunto. Ma la Cina, giurano a Pechino, è pronto a valutare ogni possibilità. E allora sotto a chi tocca, in una mega operazione di mutuo scambio che potrebbe dare una svolta decisiva alla risoluzione della più grave crisi della storia di eurolandia.

Qualche cifra chiave per avere un’idea del contesto. Il Fondo Ue ha in cassa oggi circa 250 miliardi di euro ma questo ammontare, ha stabilito l’accordo di mercoledì notte, dovrà essere quadruplicato. Come? Con un po’ di leverage, ovviamente, visto che l’Europa non è minimamente in grado di autofinanziarsi a questi livelli. Ed ecco allora la soluzione: ¼ di capitale proprio, ¾ dagli investitori, per una leva complessiva di 3 a 1. Se si trattasse di un’operazione speculativa (dove di solito si arriva facilmente a 20) ci sarebbe anche da sorridere, ma per un investimento “di lungo” lo sforzo è notevole. I cinesi, che possiedono riserve estere per oltre 3.200 miliardi di dollari, sono candidati ideali, tanto più che un salvataggio europeo è di certo nel loro interesse. Ma siccome a Pechino hanno capito da tempo che il denaro non va sperperato, ecco sorgere la necessità di valutare attentamente ogni opzione.

La prima, la più semplice, consiste nel finanziamento obbligazionario dell’Efsf, cosa che per altro sta già avvenendo. I famosi eurobond che tanto fanno inorridire Berlino sono infatti sul mercato da tempo per iniziativa del Fondo stesso. Il 40% del totale, ha spiegato Regling, è finito in mano agli investitori asiatici tra cui ovviamente i cinesi. La quota complessiva della partecipazione di Pechino non è nota, ma c’è da credere che non sia minoritaria. Ora l’Europa vorrebbe convincere la Cina a concedere ulteriore credito garantendo ai bond Efsf un rating da tripla A. Solo che a questo punto i conti non tornano: in sintesi si tratterebbe di garantire un interesse “tedesco” scaricando contemporaneamente un rischio che è anche “italiano, spagnolo, greco e portoghese”. Decisamente un cattivo affare. A partire dal 2007, Pechino ha acquistato titoli provenienti da Lisbona, Atene e Madrid che si affiancano ai 1.000 miliardi di dollari già investiti nelle obbligazioni sovrane Usa e ai 76 miliardi di crediti vantati con il Tesoro italiano (circa il 4% del nostro debito pubblico). Investimenti che, soprattutto nel caso delle periferie europee, non rendono come dovrebbero e che, proprio per questo motivo, non possono essere replicati con la stessa facilità.

Tremonti se lo deve essere sentito dire già un mese fa, ed è probabile che per Regling la musica sia la stessa. A meno che, è ovvio, l’Europa non sappia mettere sul piatto qualche altra contropartita. E qui si aprono le altre opzioni, quelle che Pechino giudica più interessanti. Prima di tutto proprio sul fronte dei bond con Pechino, sostiene il Financial Times, che avrebbe intenzione di chiedere che una parte delle future emissioni del Fondo siano denominate in valuta cinese per ammortizzare le fluttuazioni dell’euro. Poi ovviamente ci sono altre opportunità, dagli ingressi di capitali cinesi nelle grandi società europee (per l’Italia si era parlato di quote in Eni ed Enel, le famose golden shares nelle partecipate), fino all’eterna partita che si disputa in sede Wto. La Cina chiede da tempo all’Europa il riconoscimento del suo status di “economia di mercato”, un nulla osta che renderebbe illegittime le politiche protezionistiche (anti dumping) adottate dal Vecchio continente contro l’export di Pechino. Probabile, a questo punto, che il governo cinese torni a battere su questo tasto in occasione dei prossimi incontri con i leader europei. Il primo appuntamento è per il vertice del G20, in programma a Cannes tra meno di una settimana
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La lettera dei sogni. - di Massimo Giannini




È arrivato il verdetto sul piano anti-crisi smerciato da Berlusconi ai leader di Eurolandia. Lo hanno emesso i mercati, che nel vuoto abissale della politica sono ormai gli unici giudici di ultima istanza delle malefatte dei governi. Ed è un verdetto pesantissimo. L'asta dei Btp decennali fa il tutto esaurito, ma a un costo che è ormai da allarme rosso. Il "premio di rischio" richiesto dai fondi e dagli investitori internazionali per sottoscrivere i titoli del debito pubblico italiano ha sfondato il tetto del 6%. Una soglia psicologica, oltre che aritimetica, che fa temere il peggio ovunque. Ma non in Italia, dove il presidente del Consiglio continua beatamente a sproloquiare di riforme scritte sull'acqua 1 e a lanciare appelli accorati e pelosi all'opposizione, facendo finta di non vedere che alle sue spalle non c'è più una maggioranza che lo spalleggia e un ministro del Tesoro che lo appoggia.

I perfidi "speculatori", malefici demoni faustiani secondo l'iconografia spicciola e autoassolutoria della destra italiota, hanno dunque sentenziato: le diciassette cartelle della falsa "rivoluzione liberale" che il premier ha illustrato a Bruxelles sono solo carta, che forse presto sarà anche straccia. Non ci voleva un genio, per capire che il diversivo berlusconiano (un documento programmatico invece di un decreto legge) sarebbe stato sufficiente a guadagnare qualche ora di tempo davanti al direttorio franco-tedesco, ma non certo a convincere i trader che ogni giorno, a colpi di ordini di compravendita, decidono le sorti di questo o di quel debito sovrano. E infatti non si sono convinti. Come dargli torto? Al contrario dei politicanti domestici, ottusi e provinciali, gli operatori internazionali ricordano benissimo le innumerevoli lettere di intenti (con tanto di firme autografe di Papandreou su altrettanti impegni solenni accolti con entusiasmo dalla Ue) con le quali è lastricata la via dell'inferno che sta portando la Grecia al default.

L'Italia sta seguendo paurosamente e irresponsabilmente lo stesso sentiero. Il Cavaliere non ha capito quello che invece ha compreso Zapatero, che a Bruxelles si è presentato non con un elenco di promesse, ma con i provvedimenti di risanamento (compresa la riforma costituzionale sulla "golden rule") già approvati dal Parlamento di Madrid. Questo ha salvato la Spagna e l'ha messa oggi in una condizione migliore della nostra, sia pure in presenza di fondamentali economici persino peggiori. Questo deficit di comprensione rischia adesso di travolgere non solo l'inerte governo Berlusconi, ma l'intero Sistema-Paese. Per questo è urgente la "discontinuità", cioè la caduta del Cavaliere, la nascita di un gabinetto di salute pubblica o in ipotesi estrema il ritorno alle urne. Ai mercati non interessa il "libro dei sogni", ma solo il "libro dei fatti".



Patto scellerato?



Leggendo delle varie inchieste per corruzione pubblicate dai giornali, viene quasi naturale pensare che sia stato progettato ed attuato un patto scellerato di accaparramento, da parte di pochi, di tutte le ricchezze del paese.
Partiamo, ad esempio, dall'INPS
L'INPS, come tutti sappiamo, incamera i contributi di tutti i lavoratori dipendenti ed autonomi per assicurare loro, una volta usciti dal mondo del lavoro, una pensione equivalente alle quote versate durante la vita lavorativa. Ma se qualcuno incomincia a prelevare dalle casse dell'INPS anche importi che non hanno una corrispondenza in termine di versamenti effettuati, vedi pensioni di vecchiaia e cassa integrazione, e non continua a versare ulteriori ed adeguati contributi, vedi  precariato, nelle casse dell'Ente si verificheranno ammanchi spaventosi. Un'azienda solida si mantiene adeguando le uscite alle entrate.
Sorge, pertanto, il dubbio che vi sia una volontà di distruggere l'Ente per far fiorire società assicurative, a scapito dei lavoratori per il profitto dei pochi.
Prendiamo ad esempio Equitalia. Come ben sappiamo, Equitalia è l'agenzia alla quale è stato demandato il compito di riscuotere i tributi dovuti dai cittadini di gran parte d'Italia. A parte che sarebbe più logico e trasparente se il governo procedesse personalmente ad incassare i tributi dovuti, ma perchè dare ad un'agenzia questo compito? E perchè queste agenzie possono caricare i tributi non versati con interessi illegali da anatocisto? E perchè affidare ad un'agenzia il compito di confiscare i beni di chi è in ritardo con i pagamenti? Sappiamo anche, e lo leggiamo sui giornali, che attorno a questa agenzia sono state create apposite società, tra i cui soci ci sono anche alcuni politici, che acquistano a prezzi stracciati, i beni confiscati ai contribuenti morosi:  http://www.nocensura.com/2011/10/ecco-come-equitalia-rovina-le-famiglie.html


 Anche Equitalia è stata creata per togliere ai tanti per il profitto dei pochi?


E possiamo continuare all'infinito.


(I miei post)