martedì 3 aprile 2012

Lega, indagato il tesoriere Francesco Belsito.

Umberto Bossi e, a destra, Francesco Belsito
Umberto Bossi e, a destra, Francesco Belsito

Con i militari anche il pm napoletano Henry John Woodcock.


MILANO - Carabinieri e uomini della Gdf si sono presentati stamani nella sede della Lega in via Bellerio a Milano. La perquisizione in corso riguarda a quanto si è appreso una inchiesta relativa alla vicenda degli investimenti in Tanzania effettuati dal tesoriere del partito Francesco Belsito, il quale  risulta indagato per appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato.  Oltre alla Guardia di Finanza i carabinieri che oggi si sono recati in via Bellerio sono quelli del Noe, il Nucleo Operativo Ecologico di Roma e con loro c'é il pm napoletano Henry John Woodcock.
 Stamattina nell'ambito delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo e dai pm Paolo Filippini e Roberto Pellicano, come spiega una nota firmata dal procuratore della Repubblica di Milano Edmondo Bruti Liberati, "sono state eseguite perquisizioni nei luoghi in disponibilità degli indagati, nonché di soggetti loro collegati". La procura della Repubblica di Milano, si legge ancora nella nota, "procede per il reato di appropriazione indebita aggravata a carico di Belsito Francesco, Scala Paolo e Bonet Stefano, con riferimento al denaro sottratto al partito politico Lega Nord".
I pm procedono "inoltre per il delitto di truffa aggravata ai danni dello stato a carico dello stesso Belsito con riferimento delle somme ricevute a titolo di rimborso spese elettorali". La procura, infine, procede "per truffa ai danni dello Stato a carico di Bonet Stefano e Belsito Francesco con riferimento alle erogazioni concesse allo Stato sotto forma di credito di imposta in favore della società Siram Spa con sede a Milano". I presunti reati sarebbero stati commessi "in Milano e altrove dal 2010 al gennaio 2012". L'attività di indagine, conclude la nota, "é svolta in coordinamento con le procura di Napoli e Reggio Calabria".
Le perquisizioni in corso nella sede della Lega  e in quelle di società e aziende sono coordinate dalle procure di Napoli, Milano e Reggio Calabria. Per quanto concerne l'indagine degli inquirenti partenopei l'ipotesi di reato formulata è di riciclaggio. A quanto si è appreso l'inchiesta della procura di Napoli scaturisce dall'indagine che portò al coinvolgimento del direttore dell'Avanti! Valter Lavitola e dell'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini. I magistrati di Napoli sono alla ricerca di prove in relazione al presunto riciclaggio e indagano in particolare sui rapporti tra un imprenditore veneto e il tesoriere della Lega Francesco Belsito. Fonti della procura precisano che tuttavia la Lega non è coinvolta in attività di riciclaggio.

Ville di Antigua, una firma e una garanzia Così Berlusconi sbloccò l'operazione. - di Walter Galbiati e Emilio Randacio




Nelle carte dell'inchiesta Arner, il banchiere della Popolare di Sondrio racconta come ha raccolto la fideiussione del premier a un ex fallito. Per la banca non contava dove andavano quei soldi e per quale operazione. Bastava la firma di Berlusconi. Ora la procura ha chiuso le indagini contestando un danno per il Fisco DI 30 milioni di euro e riciclaggio.


MILANO - Non importa se i soldi vengono concessi a un bancarottiere qualsiasi, se l’operazione per cui servono ha poco senso dal punto di vista imprenditoriale e se quei denari vanno e vengono dall’Italia all’estero in barba a qualsiasi segnalazione prevista dalle normative antiriclaggio. Basta che a garantire il fido ci sia la firma di un soggetto «capiente». E capiente l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi, lo è sicuramente. A ricostruire come la Popolare di Sondrio, sulla carta una delle migliori banche italiane, abbia sborsato 10 milioni di euro a Giorgio Rivolta, grazie alla garanzia di Berlusconi per la costruzione delle ville ad Antigua, è Francesco Rota, direttore della sede di Milano della banca valtellinese e capo area di Genova e Torino. Uno meticoloso, preciso che annota tutti gli appuntamenti sulle agende e le conserva per molti anni.

È l’8 maggio 2008, quando Rota viene convocato in via Paleocapa dall’amministratore delegato della Fininvest, Pasquale Cannatelli. Una convocazione che non stupisce Rota perché i rapporti con l’azienda del premier sono «consolidati e storici». È presente anche Silvano Spinelli, il “cassiere factotum” di Berlusconi, reso celebre dai pagamenti a Ruby e alle “Olgettine”. È lui a fissare il successivo appuntamento ad Arcore, presso la villa di Berlusconi. «Cannatelli - mette a verbale Rota il 27 gennaio 2011 - mi raccontò che era in corso un’operazione immobiliare ad Antigua con la costruzione di ville di lusso e che il cavaliere Berlusconi era interessato a comprare due ville per un prezzo di circa 15 milioni di euro. Mi presentò Rivolta come dominus dell’operazione. Rivolta operava attraverso la Siti. Cannatelli mi disse che vi era l’esigenza di finanziare 10 milioni di euro e mi chiarì da subito che Rivolta non era in grado di accedere autonomamente al credito anche perché aveva avuto dei problemi in passato. Cannatelli mi disse che Berlusconi era disposto a rilasciare una garanzia personale pari all’importo finanziato, a condizione che non fosse di prima richiesta, ma contro garantisse la fideiussione personale di Rivolta».

Viene attivata la procedura d’urgenza e, visti gli importi in gioco, viene chiamato in causa il consiglio di amministrazione della banca. «La ragione dell’affidamento - chiarisce Rota - appoggia esclusivamente sulla garanzia personale di Berlusconi. La preoccupazione della banca non fu di valutare la fondatezza e la rischiosità dell’operazione, riguardante la costruzione di Antigua», anche se «gli elementi di debolezza dell’iniziativa erano per altro evidenti». Così il 19 maggio 2008, Rota va a casa dell’ex premier: «su appuntamento fissato da Spinelli, mi sono recato ad Arcore per raccogliere la firma di Berlusconi. Era presente oltre a Berlusconi e Spinelli, Scabini (giuseppino, responsabile comparto estero di Finivest) e un’altra persona di cui non ricordo il nome che si presentò come architetto o geometra della società». Con la firma arrivano 10 milioni di euro, che secondo la procura, attraverso la Siti, sarebbero stati riversati su una società offshore, la Flat point di Antigua. 

L’operazione è al centro di una inchiesta per riciclaggio ed esterovestizione con un danno per il fisco italiano di 30 milioni di euro. «La banca non ha considerato la destinazione delle somme né si pose il problema di effettuare segnalazioni di operazioni sospette alla Banca d’Italia», sostiene Rota, aggiungendo che solo dopo che il caso di Antigua ebbe risonanza mediatica nacque il problema. Eppure anche “a caso Antigua” conclamato, il 24 maggio 2010, Rota si recò a casa di Berlusconi per raccogliere la firma per il rinnovo della garanzia. «Erano presenti Berlusconi, Spinelli, Scabini e Sciascia (responsabile fiscale di Fininvest)». E il consiglio di amministrazione della banca invece di interrogarsi sulla destinazione dei soldi, concesse nuovamente il fido «nella forma “a revoca”, cioè senza una scadenza predeterminata». 
 

La riforma può aggravare le conseguenze dei provvedimenti del governo Berlusconi. - di Domenico D'Amati



Nel valutare le possibili conseguenze di una riforma dell’articolo 18 non si deve dimenticare che l’indebolimento delle garanzie contro i licenziamenti arbitrari si inserirebbe in un contesto già intaccato da provvedimenti legislativi varati dal governo Berlusconi. Si tratta in particolare del decreto legge n. 138 del 2011 (manovra bis) che ha previsto la possibilità di derogare, con contratti collettivi sottoscritto a livello aziendale o territoriale, alle leggi in materia di mansioni, contratti a termine, modalità di assunzione, conseguenze del licenziamento ecc.. E’ lo strumento utilizzato da Marchionne per le sue esigenze “organizzative” che hanno portato all’espulsione della Fiom dagli stabilimenti Fiat. E’ ovvio che, eliminate le garanzie dell’articolo 18, le possibilità dell’azienda di ottenere deroghe sempre più ampie a suo favore sarebbero notevolmente accresciute, stante le diminuite capacità di resistenza dei lavoratori. V’è poi la normativa diretta ad ampliare il ricorso all’arbitrato introdotta con la legge n. 183 del 4.11.2010 meglio nota come Collegato Lavoro. E’ bene ricordare che originariamente questa legge prevedeva la possibilità di far sottoscrivere al lavoratore una clausola compromissoria, all’atto dell’assunzione, con l’impegno quindi di ricorrere al giudizio arbitrale per le controversie derivanti dal rapporto di lavoro.
Questa possibilità è stata eliminata in seguito a un intervento del Presidente Napolitano che, nel marzo del 2010, con un messaggio alle Camere ha richiamato la giurisprudenza della Corte Costituzionale secondo cui nei rapporti in cui sussiste un evidente marcato squilibrio di potere contrattuale tra le parti è necessario garantire la effettiva volontarietà delle negoziazioni e delle eventuali rinunce. In materia di arbitrato Napolitano ha affermato la necessità di garantire l’effettiva volontarietà della clausola compromissoria e un’adeguata tutela dei diritti più rilevanti del lavoratore, con adeguamenti normativi “che vanno al di là della questione, pur rilevante, delle garanzie apprestate nei confronti del licenziamento dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.”
Da questo intervento presidenziale emerge la funzione fondamentale dell’articolo 18 e addirittura la necessità di potenziare le garanzie da esso offerte a fronte del rischio insito nel ricorso alla giustizia arbitrale per il contraente più debole. Ciò deve indurre a riflettere sulle possibili gravi conseguenze che la riforma dell’articolo 18 potrebbe avere non solo in materia di licenziamenti, ma anche, in generale, per le possibilità di tutela effettiva di tutti i diritti dei lavoratori.

Legge elettorale: Giulietti-Vita, testo debole, manca conflitto interessi.

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“Dal dibattito sulla riforma elettorale e’ colpevolmente rimossa la regolamentazione del ‘conflitto di interessi’. Senza definire i termini della divisione tra i poteri, il ‘berlusconismo’ sottotraccia rischia di ritornare, magari con altre sembianze. Anche per simile grave lacuna – e per il resto, segnato da un frettoloso abbandono del bipolarismo unito all’eslusione dei partiti più piccoli – il testo in discussione appare debole. In mancanza di  un chiarimento sul conflitto di interessi puo’ diventare impervio anche votarlo”.  Lo affermano in una nota il portavoce di Articolo21 Giuseppe Giulietti e il senatore Pd Vincenzo Vita.


http://www.articolo21.org/2012/04/legge-elettorale-giulietti-vita-testo-debole-manca-conflitto-interessi/

La trattativa e la casa sul lago. I pm seguono i soldi di B. e Dell’Utri. - di Monica Centofante

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Proseguono sulla pista dei soldi le indagini che legano Marcello Dell’Utri alla trattativa siglata tra lo Stato e la mafia negli anni delle stragi. Come anticipato a novembre da Antimafia DuemilaAntimafia Duemila, i magistrati che hanno iscritto il senatore del Pdl nel registro degli indagati per “violenza o minaccia a un Corpo Politico, amministrativo o giudiziario”, stanno infatti passando in rassegna una serie di anomali e ingiustificati versamenti milionari di Silvio Berlusconi all’amico Marcello. Scoperti grazie alle indagini sulla cosiddetta P3,nella quale lo stesso Dell’Utri è indagato insieme a personaggi della portata di Flavio Carboni, faccendiere, da sempre vicino ad ambienti criminali.
In quelle carte si legge che il 22 maggio del 2008 Berlusconi aveva versato sul conto dell’amico Marcello, un bonifico di 1,5 milioni di Euro” con la causale “prestito infruttifero”. Operazione che si era ripetuta il 25 febbraio e l’11 marzo 2011, date in cui, con la medesima causale, l’allora Presidente del Consiglio aveva elargito a Dell’Utri rispettivamente 1 milione e 7 milioni di euro. Per un totale di 9 milioni e mezzo.
Soldi che in parte, avevano ricostruito Uif e Guardia di Finanza, erano stati utilizzati per pagare i lavori di ristrutturazione della splendida villa sul lago di Como del senatore. E oggi è proprio quella villa la protagonista di questo nuovo capitolo delle indagini sulla trattativa, con la notizia pubblicata ieri da Il Fatto Quotidiano dell’insolito acquisto della dimora da favola di Dell’Utri da parte, ancora, di Silvio Berlusconi: 21 milioni di Euro per una proprietà che ne valeva 9. E una spesa effettuata alla vigilia del pronunciamento della Cassazione al processo contro il senatore del Pdl, condannato nei precedenti gradi di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa.
L’esito in Cassazione è noto a tutti: accogliendo la richiesta del sostituto procuratore generale Iacoviello il presidente Grassi ha deciso per un rinvio del processo in Corte d’Appello. Una richiesta a dir poco discutibile alla quale ora si aggiunge il nuovo interessante elemento dell’acquisto della villa a poche ore del verdetto. In quello che sarebbe potuto essere l’ultimo giorno di libertà per Marcello Dell’Utri, che con quei soldi avrebbe estinto debiti e ipoteche della casa (bene che in caso di condanna sarebbe stato a rischio sequestro)  e rimpinguato il conto della moglie Miranda Ratti.
L’anomalo acquisto è adesso al vaglio del procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia e dei sostituti Lia Sava, Nino Di Matteo e Paolo Guido, che stanno ricostruendo le innumerevoli operazioni finanziarie mai chiarite che, da sempre, caratterizzano la storia dell’impero di Silvio Berlusconi.  E che tenteranno di rispondere ai tanti perché di quella vendita in una data e a un costo che destano sospetti.
Soprattutto alla luce delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino e del pentito Gaspare Spatuzza, sottoposte ad attenta verifica da parte della Dda, che hanno delineato l’importante ruolo rivestito da Marcello Dell’Utri nella trattativa tra Stato e mafia. Secondo il primo, tra la fine del '92 e il '93 il senatore avrebbe preso il posto del padre, Vito Ciancimino, diventando il nuovo referente delle cosche anche negli anni della nascita di Forza Italia, il partito che i boss hanno successivamente sostenuto con il proprio voto. Mentre è il secondo a raccontare di un incontro con il capomafia Giuseppe Graviano, che nel gennaio del 1994, seduto a un tavolino del bar Doney di Roma, gli avrebbe detto:  “Abbiamo chiuso tutto e ottenuto quello che cercavamo”, grazie alla “serietà” di Berlusconi e “del nostro compaesano Dell’Utri”, con i quali “ci eravamo messi il paese nelle mani”.
Da qui la decisione dei pm palermitani di acquisire l´atto di compravendita, che ora è parte della corposa inchiesta su quegli anni bui che hanno dato i natali alla seconda Repubblica. Anche se i dettagli di questa operazione sono ancora tutti da definire.

lunedì 2 aprile 2012

Lea Garofalo e le ragazze che non mollano. - di Nando dalla Chiesa.



Sei ergastoli per il clan Cosco. Per tutti gli imputati dell’assassinio di Lea Garofalo, la giovane donna calabrese uccisa a Milano per ordine del marito. Colpevole di avere scelto di uscire con la figlia Denise dall’ambiente infernale del narcotraffico e delle faide tra clan e perciò testimone di giustizia. Attirata in trappola dal marito, “giustiziata” a colpi di pistola e successivamente sciolta in cinquanta litri di acido.

Una storia terribile che si è incisa nella coscienza di molti. La ferocia bestiale non aveva fatto però i conti con il coraggio della figlia, che ha trovato la forza di denunciare il padre. E di affrontare la clandestinità per sottrarsi alle pressioni e ai condizionamenti dei familiari. Un delitto, uno sfondo di traffici, un luogo di origine, che disegnano un tipico contesto mafioso, anche se in aula il pubblico ministero non ha voluto invocare l’aggravante di mafia. Da cui la scelta del comune di Milano di costituirsi parte civile. E da qui, soprattutto, l’entrata in scena di un attore collettivo che certo gli imputati non avevano previsto: un gruppo di giovanissime donne, mescolate a qualche coetaneo. Studentesse appena maggiorenni o perfino minorenni che avevano sentito parlare di questa storia in qualche incontro sulla legalità nella propria scuola. Che avevano saputo di questa ragazza fuggitiva e costretta a testimoniare contro il padre e che probabilmente non sarebbe stata creduta: l’avrebbero fatta passare come psichicamente instabile, avrebbero messo in giro su di lei voci ignobili, quante volte non è successo? E chi mai avrebbe preso le sue parti nella Milano in cui per fare accorrere i fotografi bisogna chiamarsi Ruby o Nicole?

Così le giovanissime donne hanno deciso di stare accanto a Denise e di fare propria la sua richiesta di giustizia. Lucia, Marilena, Giovanna, Giulia, Monica, Alessandra, Paola, Elisabetta, Costanza, più di una quindicina in tutto, si sono fatte trovare il 21 settembre al Palazzo di Giustizia, prima sezione della corte d’assise. Emozionate come delle debuttanti. I Cosco non capirono chi fossero e che cosa volessero quelle ragazzine. Così mandarono, perché anche questo succede, un agente della polizia penitenziaria da Giovanna per sapere come mai si fossero date appuntamento proprio lì. Quando lei si sentì interrogare, nonostante l’inesperienza, capì che qualcosa non andava: “E lei perché me lo sta venendo a chiedere?”.

A ogni udienza, appena finita la scuola, le ragazze si davano appuntamento. Dal Virgilio, dal Volta, dal Caravaggio, dall’Università. Anche se Denise non c’era, essendo sotto massima protezione. Si mobilitavano per lei, per la coetanea mai vista e mai conosciuta a cui avevano ucciso e sciolto nell’acido la madre. Con l’idea che quella ingiustizia pesasse anche su di loro. Rimasero perciò di sasso quando il presidente della Corte venne nominato Capo di gabinetto dal nuovo ministro della Giustizia. Quando seppero che per questo il processo sarebbe dovuto ricominciare. Davvero Denise, che già aveva fatto violenza a se stessa per testimoniare la prima volta, sarebbe dovuta tornare ad affrontare domande e insinuazioni? Lucia ricorda perfettamente lo sgomento: “Era novembre, un mercoledì pomeriggio, quando sapemmo che bisognava rifare tutto daccapo. Pensammo che era assurdo, che non esisteva, così decidemmo che il giorno dopo non saremmo andate a scuola e avremmo portato uno striscione bianco con le bombo-lette mettendoci davanti al tribunale per dire che volevamo giustizia per Denise. Qualcuno ci ammonì che rischiavamo di apparire critiche verso i magistrati, ma noi lo facemmo lo stesso. Ingenuamente, forse. Ma per giustizia”.

Continuarono a esserci. Hanno dato vita addirittura a un presidio di Libera intitolato “Lea Garofalo”. Con tanti giovedì sera passati a decidere come coinvolgere giovani e adulti o per stabilire come ripartirsi i turni. L’altro ieri, appena è circolata la voce che la sentenza sarebbe stata pronunciata verso l’ora di cena, si sono date appuntamento di corsa al palazzo di giustizia. Fuori dall’aula, agitate, in silenzio, tenendosi per mano tutto il tempo, con qualche ragazzo che riscattava con la sua presenza il genere maschile. L’emozione della prima sentenza attesa in vita loro. I sei ergastoli? “Non c’è da essere contenti”, dice Giovanna, “Lea non tornerà in vita e un ventenne all’ergastolo (il fidanzato di Denise; nda) non è una bella notizia, però penso che Denise ha avuto giustizia e mi sento più leggera”. Altri i toni di Lucia: “Sono felice. Perché mi sembra che a volte le cose vadano per il verso giusto”. C’è quasi una morale in tutta la vicenda, a ripensarci. Una donna indifesa è stata uccisa con ferocia inaudita da sei uomini. Una donna indifesa anche lei, almeno all’inizio, ha avuto il coraggio di testimoniare per amore. Un’altra donna (la presidente Anna Introini) ha guidato il processo a passi veloci. E altre giovanissime donne hanno voluto che questa storia diventasse di tutti, facendone uno straordinario fatto pubblico.

Lea Garofalo, che gli assassini volevano fare tacere e scomparire per sempre, parla oggi con la sua storia a una città, forse al paese. “Noi abbiamo fatto una cosa semplice, spontanea”, commenta Marilena, “si pensa sempre che si debbano fare grandi cose per cambiare, noi abbiamo solo voluto immedesimarci con un’altra ragazza e aiutarla. Certo la sentenza è importante, ma Denise continuerà a vivere sotto protezione. Per questo non finisce qui. Noi le staremo accanto ancora”.

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Gli esodati della politica dopo il carcere, il vitalizio. - di Antonello Caporale.

Gli esodati della politica dopo il carcere, il vitalizio
Sandro Frisullo

I due parlamentari Mele e Frisullo, con notevoli precedenti, hanno fatto domanda e subito ottenuto un'indennità.


ROMA - Al ministro Fornero, in ambasce per trovare una soluzione ai 350mila lavoratori che non sono ancora in pensione e non più al lavoro, consigliamo di dare uno sguardo alla pratica con cui la politica ha trattato due suoi illustri esodati.

I DOCUMENTI ORIGINALI 1

Il signor Cosimo Mele, da Carovigno (Bari) ha compiuto il 7 marzo scorso 55 anni di età. Il giorno seguente ha scritto al suo ex datore di lavoro, la Regione Puglia, per  vedersi riconosciuto anticipatamente  -  secondo i criteri di legge - il piccolo assegno vitalizio che gli spetta per contratto avendo egli svolto per lunghi cinque anni  -  dal 2000 al 2005  -  l'incarico di consigliere regionale. La domanda è stata immediatamente accolta e il signor Mele riceverà ogni mese per tutta la sua sperabilmente lunga vita un assegno lordo di 3403 euro. Il ministro, nell'ipotesi di voler approfondire il caso umano, potrebbe chiedere all'onorevole Casini, che lo conosce un pochino meglio, la biografia di Mele. E Casini  -  magari facendosi aiutare dal segretario Cesa - certamente ricorderebbe che l'Udc lo accolse e lo candidò al Parlamento non volendo fargli pagare un attimo di debolezza per un piccolo malinteso con la magistratura che nel 1999 lo arrestò durante il suo mandato di vicesindaco di Carovigno. Problemi di tangenti, poi appianati. Il partito del leader centrista nulla potè e fu inflessibile quando l'onorevole Mele, molto attivo nella battaglia contro le sostanze stupefacenti e psicotrope e determinato nel tenere alti i valori della famiglia  -  di certo fondanti la comunità che si ritrova ancora sotto l'antico simbolo scudocrociato  -  fu scosso dal malore che condusse all'ospedale una di due signorine con le quali Cosimo stava colloquiando in una seduta notturna all'hotel Flora di Roma nel luglio del 2007.  

Il triangolo no, e nemmeno la droga! Con questa motivazione l'onorevole Lorenzo Cesa ritenne incompatibile la presenza nell'Udc del deputato tentato dal peccato. E la storia finì. Non senza però che lo stesso Cesa proponesse, e seriamente, un'"indennità contro le tentazioni" per i deputati con moglie a distanza. Un po' di cash in più per alleviare il trauma del distacco sessuale.

La proposta non ebbe successo (forse Cesa potrebbe riproporla a Monti, di cui è grande sostenitore), Mele finì al suo paese e tutti dimenticarono tutto. Mele, da esodato della politica, ha ieri ottenuto la garanzia di non vedere rovinata la propria vita con un lavoro come tutti i mortali. Da qui il vitalizio, che la Regione retta da Nichi Vendola ha immediatamente corrisposto.

Ugualmente triste la vicenda che vede Sandro Frisullo, uno dei politici territoriali sui quali il Pd di Bersani faceva molto affidamento, esodato con un po' di grana in più (10071 euro lordi al mese) dal mondo politico. Bisogna dire che Frisullo era in carriera, ha sostato per ben quindici anni in Regione, ha due anni in più di Mele, quindi è un cinquantasettenne, e ha ogni diritto per vedersi riconosciuto  -  anche lui in anticipo rispetto alla soglia usuale della pensione -  il cash dopo che ha brillantemente risolto il rapporto di stampo gramsciano con il partito. Due anni fa Frisullo fu arrestato per associazione a delinquere. I magistrati lo accusarono di essersi fatto corrompere da Gianpi Tarantini, di essere a suo libro paga (nel 2008 dodicimila euro mensili) e di aver accettato tra i benefit anche confronti ravvicinati con tre ragazze della scuderia, alcune conosciute anche a palazzo Grazioli.

Molto chiasso, molte polemiche, molti dispiaceri per Frisullo. Che ha risolto appunto in questo mese il suo rapporto con la politica. Bersani non gli deve più niente e lui a Bersani nemmeno.

Starà a casa tutto il tempo a guardare le partite di calcio. Cinquemila euro netti al mese nessuno glieli toglierà mai. Che piova o ci sia il sole, con Monti o con Tremonti.

Questa sì che è felicità!