domenica 10 giugno 2012

La banca sospende i pagamenti per un mese, e i clienti stanno senza bancomat. - Chiara Merico

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Oltre ai risparmi dei clienti, a rischio ci sono anche i posti di lavoro dei 69 dipendenti. L'istituto, partecipata da nomi di primo piano della finanza,  in amministrazione straordinaria dal 28 novembre 2011.

C’è chi si è ritrovato con 20 euro in tasca a inizio mese, e non sa come pagare le bollette e le spese quotidiane; chi si è visto negare i prelievi al bancomat e chi ha dovuto sperimentare “l’imbarazzo di un assegno non pagato”. E sul web esplode la protesta dei correntisti di Banca Network Investimenti, dopo che l’istituto, in amministrazione straordinaria dal 28 novembre 2011, ha comunicato la sospensione per un mese, a partire dal 31 maggio, del “pagamento delle passività di qualsiasi genere, con il parere favorevole del comitato di sorveglianza e previa autorizzazione della Banca d’Italia”.
Significa conti correnti chiusi, carte bloccate e la rabbia dei clienti che monta. Molti temono per i loro risparmi, per le rate dei mutui e per il rimborso dei titoli in portafoglio, che rischiano di andare perduti (fatti salvi i 103mila euro garantiti dal Fondo interbancario). Quasi tutti lamentano la mancanza di informazioni tempestive da parte della banca. “Nessuno mi aveva avvisato della reale situazione di pericolo”, “Dove sta scritto che un correntista non possa scegliere di abbandonare la nave prima che coli a picco, con un certo preavviso?”, scrivono sui forum i clienti infuriati. Alcuni hanno sporto denuncia, altri si sono rivolti all’associazione dei consumatori Adusbef, come ha confermato al Fattoquotidiano.it il presidente, Elio Lannutti: “Ci sono arrivate diverse segnalazioni, tutte di persone rimaste con pochi spiccioli in tasca. La banca avrebbe dovuto informarli, e non l’ha fatto”. Lannutti, senatore dell’Italia dei valori, annuncia che sottoporrà la vicenda all’attenzione del Parlamento, attraverso un’interrogazione, martedì prossimo.
Da tempo Banca Network Investimenti, attiva dal 2004 e partecipata da nomi di primo piano della finanza – come il colosso delle assicurazioni Aviva, Banco Popolare, la Sopaf della famiglia Magnoni e la De Agostini – è in crisi: dopo la nomina dei commissari straordinari Raffaele Lener e Giuseppe Bonsignore, designati lo scorso novembre dal ministero dell’Economia su proposta di Bankitalia, si è tentato di individuare un acquirente in grado di risollevare le sorti dell’istituto. Tra le proposte più allettanti arrivate negli scorsi mesi ci sono state quelle della società di intermediazione mobiliare Consultinvest e di Banca Popolare di Vicenza: entrambe si erano mostrate molto interessate alla rete di promotori finanziari messa in piedi negli anni da Bni. Le trattative non sono riuscite, però, a concludersi prima che la banca bloccasse i pagamenti: solo nei giorni scorsi Consultinvest ha presentato un’offerta vincolante per acquisire la rete dei promotori finanziari, mentre al partner Cassa di Risparmio di Ravenna dovrebbero andare i conti correnti e i depositi titoli della clientela.
In attesa del via libera definitivo all’operazione, il panico si è però diffuso. “A rimetterci sono sempre i correntisti – nota il presidente di Adusbef -. Vuoi chiudere per un mese? Bene, ma non puoi togliere a un lavoratore la possibilità di accedere alle sue risorse”. Queste persone rischiano davvero di perdere i loro risparmi? “Certamente, se nel frattempo non si trova un acquirente che salvi la banca”, come la stessa Consultinvest. “È vero che esiste la garanzia del Fondo interbancario di tutela, ma le procedure sono lunghe e complicate”, spiega Lannutti, che ipotizza anche una probabile causa della crisi: “Non vorrei che gli azionisti avessero usato Bni per coprire operazioni finanziarie poco chiare”. Adusbef e Federconsumatori, in una nota congiunta, criticano anche il ruolo della Banca d’Italia: “Non ha fatto nulla per impedire il dissesto, e in seguito non ha dato alcuna comunicazione ai correntisti, per dare loro la possibilità di effettuare prelievi di sopravvivenza”.
Oltre ai risparmi dei clienti, a rischio ci sono anche i posti di lavoro dei 69 dipendenti. E dopo aver tentato più volte, invano, di contattare gli uffici di Bni, alla fine siamo riusciti a parlare con uno dei promotori finanziari che hanno fatto la fortuna della banca. “Siamo in una brutta situazione: i clienti chiamano e se la prendono con noi, siamo noi che ci andiamo di mezzo”. E se anche l’intervento di Consultinvest riuscirà a risollevare le sorti di Bni, sarà molto difficile riconquistare la fiducia dei correntisti delusi. 

La dissolvenza della casta. - Massimo Gramellini



Lavorano tutti per Grillo, ormai. Per Grillo o per qualcosa di molto peggio, perché dopo giornate come quella di ieri risulta ancora più difficile (anche se indispensabile) separare la politica da «questa» politica e la democrazia da «questi» partiti. Cominciamo dalla Regione Lombardia, dove non è passata la mozione di sfiducia contro il presidente Formigoni. L’esito era abbastanza prevedibile, avendo il centrodestra la maggioranza in Consiglio. Quel che non era prevedibile neanche in una gag di Crozza o in un incubo di Bersani era che al momento del voto il primo firmatario della mozione contro gli yacht di Formigoni fosse assente perché impegnato a prendere il sole su una spiaggia greca. Si chiama Luca Gaffuri, un cognome che è già un indizio.

Hanno fatto apposta a mettere la mozione ai voti mentre ero in vacanza, si è difeso maldestramente il gaffeur, capogruppo del Partito democratico. E sì che ne avrebbe avuto di tempo per esplorare la Grecia: in yacht, in motoscafo e persino in gommone. Ad aprile il Consiglio regionale lombardo, stremato dagli straordinari della Minetti e del Trota, si era infatti autoelargito un ponte di tre settimane.

Al Senato di Roma, intanto, andava in scena il salvataggio del molto onorevole senatore Sergio De Gregorio, già fondatore dell’associazione Italiani nel Mondo (poveri italiani, ma soprattutto povero mondo), imputato di bazzecole quali associazione a delinquere, truffa e false fatturazioni per 23 milioni di euro (tutti soldi nostri, tranquilli) nell’inchiesta sui fondi pubblici versati al cosiddetto giornale «Avanti!» di Valter Lavitola. I giudici avevano chiesto l’arresto di De Gregorio e la giunta per le immunità, schiacciata dall’evidenza dei fatti, si era dichiarata per una volta d’accordo. Ma nel segreto dell’urna centosessantanove senatori hanno votato contro il trasferimento in carcere del sant’uomo. I berluscones sodali suoi, certamente. Ma anche altri che a parole lo avevano criticato. Chi? Si sospetta di qualche leghista, di qualche terzopolista e persino di qualche democratico smanioso di ricambiare certi favori fatti in passato (ricordate il salvataggio di Tedesco?) o fattibili in futuro: incombe il verdetto del Parlamento sul transito alle patrie galere di un altro specchiato galantuomo, il tesoriere Lusi.

Sulla torta quotidiana della Casta mancava soltanto la ciliegiona e a metterla sono stati i pasticcieri dei tre partiti maggiori, che hanno colto l’occasione delle nomine delle Autorità (Comunicazioni e Privacy) per dare vita a una famelica e scientifica spartizione di posti. L’aspetto insopportabilmente ipocrita della faccenda è che per darsi un tono i partiti avevano sollecitato l’invio dei «curricula» di alcuni fra i giuristi più prestigiosi, Zagrebelsky su tutti. Naturalmente nessuno li ha presi in considerazione. Ne hanno fatto carta da cesso, ha sintetizzato Di Pietro con la consueta brutalità, supponendo ottimisticamente che li avessero almeno srotolati. Più probabile invece che giacciano intonsi in qualche cassetto. I nomi giusti erano già stati scelti dai capibastone nelle segrete stanze. Alle Comunicazioni vanno amici fidati e benissimo pagati, che entro sessanta giorni dovranno decidere se assegnare gratuitamente o meno le frequenze televisive a chi li ha nominati. Mentre a occuparsi di privacy arrivano la moglie di Bruno Vespa e il democratico Antonello Soro, politico serio e perbene, ma la cui competenza in materia di informazione e informatica risulta assai opinabile, trattandosi di un medico specializzato in dermatologia.

Chissà perché fanno così. Forse pensano che i cittadini siano stupidi e che a tenerli buoni basti il taglio ipotetico di qualche auto blu, mentre loro vanno avanti ad autoassolversi e lottizzare. Ma è più probabile che non possano fare altrimenti e che, con l’avvicinarsi del giudizio elettorale, la paura si associ al menefreghismo nell’ispirare comportamenti suicidi. Quello a cui stiamo assistendo impotenti è il «cupio dissolvi» di una generazione politica.

sabato 9 giugno 2012

Bellissima!



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Trattativa Stato-mafia, indagato l’ex ministro dell’Interno Mancino. - Giuseppe Pipitone


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L’ultimo indagato nell’inchiesta sulla Trattativa tra Cosa Nostra e pezzi delle Stato è un membro di spicco delle istituzioni. L’ex presidente del Senato Nicola Mancino è infatti accusato dalla procura di Palermo di aver rilasciato false dichiarazioni durante le sue audizioni davanti ai magistrati. “Emergono evidentemente delle contraddizioni nelle cose dette, dai diversi esponenti delle istituzioni sentiti: quindi qualcuno mente. Ora è compito della procura e del tribunale capire come sono andate veramente le cose” aveva detto perentorio il sostituto procuratore Nino Matteo subito dopo l’audizione di Mancino davanti la quarta sezione penale di Palermo durante il processo contro gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu. Oggi proprio per Mancino è scattato l’avviso di garanzia per falsa testimonianza.
Ad inguaiare l’ex dirigente della Democrazia Cristiana sono state le varie discrepanze emerse durante i confronti con altri esponenti politici , come Vincenzo Scotti e Claudio Martelli, che come lui erano in carica nel periodo 1992 – 93, ovvero durante il governo guidato da Giuliano Amato. Mancino, Scotti e Martelli sono stati sentiti a più riprese dagli inquirenti palermitani ma i loro ricordi sulle dinamiche politiche dell’epoca sono apparsi in certi casi assolutamente inconciliabili. La discrepanza più evidente è emersa in merito all’avvicendamento tra Scotti e lo stesso Mancino alla guida del Ministero dell’Interno il 28 giugno del 1992
Scotti, sentito per l’ultima volta nei giorni scorsi dalla procura di Palermo, aveva raccontato come fosse all’epoca intenzionato a rimanere al Viminale anche nel nuovo governo Amato. All’improvviso però erano sorte delle complicazioni riguardo alla sua riconferma. Complicazioni che avevano portato alla sua nomina al vertice del ministero degli Esteri e alla conseguente designazione di Mancino come ministro degli Interni. “Sono andato a letto credendo di essere nominato il giorno dopo ministro dell’Interno e invece mi sono svegliato Ministro degli Esteri” aveva raccontato Scotti ai magistrati palermitani.
Molto diversa invece la ricostruzione di Mancino. Completamente diversa in effetti. “Chiamai Scotti per convincerlo ad accettare il ruolo di Ministro dell’Interno” ha detto l’ex presidente del Senato nella sua deposizione al processo Mori, raccontando anche che fu lo stesso Scotti “a non volere più ricoprire l’incarico di ministro, dato che nella Democrazia cristiana avevamo deciso che chi entrava nel governo doveva dimettersi da deputato”.
I magistrati palermitani hanno registrato gravi differenze anche nel confronto tra Mancino e l’allora guardasigilli Claudio Martelli. L’ex numero due di Bettino Craxi ha raccontato agl’inquirenti di un suo incontro con Mancino nel luglio del 1992, in cui si sarebbe lamentato per le attività non autorizzate dei Ros. Secondo la procura palermitana proprio in quei giorni il capo dei Ros Mario Mori e il suo braccio destro Giuseppe De Donno (entrambi indagati nella trattativa) incontravano in segreto don Vito Ciancimino. Mancino però ha negato nettamente che quei colloqui tra il Ros e Ciancimino siano stati oggetti di discussione con Martelli: “Abbiamo parlato di altro e in particolare dell’opportunità di lavorare in sintonia”.
Un altro nodo da sciogliere per l’ex ministro dell’Interno è rappresentato anche dall’incontro che avrebbe avuto con Paolo Borsellino il primo luglio del 1992, il giorno del suo insediamento al Viminale. Prima di una parziale ammissione durante le deposizione al processo Mori, Mancino aveva negato a più riprese l’incontro con Borsellino, arrivando a sostenere di non ricordare di aver stretto o meno la mano al giudice che sarebbe poi stato assassinato in via d’Amelio il 19 luglioseguente.
Dopo la notizia dell’indagine a suo carico per falsa testimonianza Mancino, che è stato di recente anche vice presidente del Csm, ha reagito con tranquillità “Non mi sorprende la notizia della mia iscrizione nel registro degli indagati. Il teorema che lo Stato, e non pezzi o uomini dello Stato, abbia trattato con la mafia è vecchio di almeno venti anni, ma non c’è ancora straccio di prova che possa confortarlo di solidi argomenti. Per quanto mi riguarda, sono stato ministro dell’Interno e ho difeso lo Stato dagli attacchi della mafia, che ho combattuto con fermezza e determinazione”.

C'era anche una Santabarbara nella Bat-casa di Moratti junior. - Emilio Randacio



Mitra, carabine e pistole nel loft irregolare del figlio dell'ex sindaco che aveva un poligono di tiro e che ospitava, all'interno del box, un jeeppone Cherokee e quattro Harley Davidson.


La piscina con il ponte levatoio era solo uno dei mille optional. Nella residenza di via Ajraghi del figlio dell’ex sindaco Letizia Moratti, non mancava praticamente nulla. Annesso al poligono di tiro (uno dei dettagli inseriti dopo aver visto l’ultimo film di Batman), fatto appositamente costruire dal trentatreenne Gabriele, c’era anche la teca dove custodire le armi, un box dove parcheggiare la collezione di Harley Davidson (quattro), o il jeeppone (un Cherokee). 

L'interno della casa in stile Batman Gli optional del loft di via Ajraghi

Tanti dettagli che emergono dalle migliaia di pagine con le quali il procuratore aggiunto, Alfredo Robledo, la scorsa settimana ha chiuso l’indagine a carico di Gabriele Moratti (difeso dallo studio SaponaraNardo), del titolare dell’impresa edile che ha costruito la «reggia» (Ezio Maldi), dell’architetto che ha firmato il progetto (Fabrizio Santuccio, difeso dall’avvocato Antonio Rodontini) e del tecnico del Comune che doveva vigilare sulla regolarità del cantiere (Sabrina Di Pietro, difesa da Roberta Quagliata). Tutti accusati di aver ristrutturato "5 unità immobiliari" in via Airaghi 30, accatastate ufficialmente come laboratori, cambiandone la destinazione d’uso senza permesso. 

Lo scandalo risale al 2010 quando l’allora consigliere dell’opposizione Basilio Rizzo presenta un’interpellanza per conoscere lo stato della pratica urbanistica dell’abitazione del figlio del sindaco. A fine luglio, una pattuglia del Comune viene spedita in via Ajraghi per un sopralluogo. Nel loro verbale, però, i tecnici registrano «l’impossibilità di accedere allo stabile per mancanza del proprietario». Per sapere se realmente quella megaresidenza sia abitata, nonostante la legge lo vieti, passeranno 60 giorni. Il 28 settembre i tecnici di palazzo Marino, dopo aver contattato il proprietario (Gabriele Moratti), hanno accesso finalmente alla casa. E davanti ai loro occhi, lo scandalo non sembra così evidente. 

Qualcosa è successo in quei due mesi. E a svelarlo ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria, è l’imprenditore che ha arredato l’immobile (spesa di 500mila euro). Secondo il suo racconto, la casa era abitabile «dal novembre del 2009». La sua azienda ha pensato a tutto: «Presso l’immobile abbiamo realizzato al piano terra la botola, la cucina, la libreria e un armadio guardaroba. Nel soppalco, una camera padronale con cabina armadio, progettata per contenere la collezione di armi, con annesso bagno». Un elenco interminabile che dimostra come quando Letizia Moratti era seduta sulla poltrona più importante di Palazzo Marino, il figlio, arredava la sua nuova casa (prezzo al rogito 1milione e 400mila euro), in barba alla legge.

I finanzieri mostrano al testimone le foto effettuate dal personale del Comune il 28 settembre. E, dalla risposta, intuiscono quello che è successo. «Dalle foto che mi esibite - risponde il teste - deduco che la situazione riscontrata non è quella che la mia azienda aveva lasciato. Posso affermare che gli arredi sono stati svuotati e spogli di ogni oggetto e i locali riempiti di scatole, attrezzature da cantiere e materiale vario». Dopo lo scandalo, dunque, qualcuno ha tentato di mascherare le irregolarità, inquinare le prove.  Impressionante il numero di armi rinvenute in via Ajraghi. Quattro pistole, un «fucile a pompa marca Fabarm», «una rivoltella Uberti», e una «carabina Beretta». Tutte regolarmente registrate e, probabilmente, pronte per essere usate nel tiro a segno che il giovane Moratti si è fatto costruire nello scantinato.






http://milano.repubblica.it/cronaca/2012/06/09/news/c_era_anche_una_santabarbara_nella_bat-casa_di_moratti_junior-36828193/?ref=HREC1-10

Via Poma: i giudici, su Busco ne' prove ne' movente.



Le motivazioni della sentenza di appello: dubbi sul morso, alcuni punti oscuri.


ROMA - Non ci sono prove per dimostrare che Raniero Busco il 7 agosto 1990 uccise l'allora fidanzata Simonetta Cesaroni; anzi, di più, non c'é un movente dietro l'omicidio e rimangono "inquietanti" interrogativi a rendere oscura una storia che da subito catturò l'opinione pubblica, restando ancor adesso uno dei più bui misteri di Roma. A solo 42 giorni dalla sentenza di secondo grado, i giudici della I Corte d'assise d'appello hanno depositato le motivazioni del provvedimento con il quale il 24 aprile hanno assolto Busco dall'accusa di omicidio aggravato da sevizie e crudeltà, ribaltando la sentenza di primo grado che invece lo aveva visto condannato a 24 anni di reclusione.
Ventinove coltellate, in più parti del corpo: così fu trovata Simonetta negli uffici romani dell'Aiag. Una tragedia sulla quale ci sono state due inchieste; l'ultima nel 2004, quando le prove furono rivalutate alla luce delle nuove tecnologie. Si arrivò all'imputazione di Busco, s'inframezzò con la sua condanna, si è conclusa con l'assoluzione. E alla fine "non vi sono elementi per ritenere provata al di là di ogni ragionevole dubbio la penale responsabilità" di Raniero, si legge tra le righe delle 186 pagine della sentenza. Non vi è prova che in occasione dell'omicidio "fu inferto un morso" a Simonetta; è uno dei 'punti fermi' dei giudici. Anche qualora un morso ci fosse stato, poi, "una sua attribuzione all'imputato non sarebbe scientificamente sostenibile".
Per i giudici, chi uccise Simonetta "ripulì accuratamente la scena del delitto", portando via la maggior parte degli indumenti della ragazza; sul reggiseno e sul corpetto della ragazza "sono presenti tracce di Dna minoritario riconducibili a Busco", ma "non è provato che le stesse siano state rilasciate in occasione del delitto". Chiaro il passaggio della sentenza in merito al movente 'inesistente'. Sostengono i giudici che Simonetta e Raniero avevano certo una relazione che "poteva essere problematica", ma non c'é traccia dell'esistenza di "atti specifici di violenza commessi dall'imputato"; si accenna anche al ritrovamento di "tracce biologiche ed ematiche attribuibili a due diversi soggetti di sesso maschile che non possono identificarsi con Raniero Busco" e non c'é prova che il giovane abbia fornito un "alibi mendace".
Alla fine, i giudici rilanciano anche quelli che definiscono "i punti oscuri della vicenda": la resistenza della portiera Giuseppa De Luca (moglie del portiere Pietrino Vanacore, suicidatosi alla vigilia della sua deposizione nel processo di primo grado) a consegnare le chiavi dell'ufficio di via Poma alla polizia, il fatto che le stesse chiavi non dovessero essere in possesso della donna, e il ritrovamento dell'agendina rossa di Vanacore fra gli effetti personali di Simonetta,benché lui avesse sempre detto di non essere entrato in quell'ufficio prima dell'accesso che avrebbe portato alla scoperta del cadavere. Tutti elementi che non portano "a una tranquillizzante certezza".

venerdì 8 giugno 2012

Privacy e Agcom, il Parlamento conferma i candidati già scelti dai partiti.

      


Anna Maria Tarantola è vicedirettore generale della Banca d’Italia e si occuperà soprattutto dei conti del servizio pubblico. Luigi Gubitosi, vicino all'Opus dei, si è fatto presentare al potente sottosegretario Gianni Letta da Luigi Bisignani. Cardani da sempre fedele a Monti.


Nessuna sorpresa sui nomi dei nuovi consiglieri che la politica si era già "spartita". Per l'Agcom il centrosinistra sceglie Decina e Posteraro (in accordo con Udc) e il centrodestra Martusciello e Preto. Ai dati personali vanno Bianchi Clerici e Iannini per il Pdl. Soro e Califano per il Pd

Prima invocano trasparenza e competenza poi, in linea con gli anni passati, scelgono nel solco della cooptazione. Accade oggi, ancora una volta: i due rami del Parlamento hanno scelto i nomi che andranno a occupare i consigli di Agcom e Garante della Privacy. In netto contrasto con il profilo delle authority che, come si legge nel regolamento sul sito dei dati personali, “oltre ad essere istituite per lo svolgimento di funzioni di garanzia e di vigilanza sull’attuazione di valori costituzionali, sono caratterizzate in misura più o meno ampia dai connotati di indipendenza e di autonomia che le svincolano da qualsiasi riferimento al circuito dell’indirizzo politico”. Parole che rimangono sulla carta, perché la politica relega sullo sfondo competenze e trasparenza. Infatti i partiti avevano già individuato i nomi nei giorni scorsi, e oggi deputati e senatori hanno soltanto “ratificato” quanto già deciso fuori dall’aula.
Così la Camera ha nominato Giovanna Bianchi Clerici e Antonello Soro (che ha annunciato le dimissioni da deputato) membri dell’Autorità garante della Privacy. La Clerici, consigliere d’amministrazione Rai uscente e candidata dalla Lega e Pdl, ha ottenuto 179 voti, mentre l’ex capogruppo del Pd alla Camera 167. Chiusa anche la partita Agcom, dove Montecitorio ha scelto Maurizio Decina e Antonio Martusciello, ex manager Fininvest, rispettivamente candidati di Pd e Pdl. Decina ha ottenuto 163 voti e Martusciello 148. Nessuna sorpresa neanche al Senato che elegge Augusta Iannini, ex collaboratore del ministero della Giustizia con Alfano e moglie di Bruno Vespa, e Licia Califano quali membri dell’Autorità per la privacy. Iannini ha avuto 107 voti, e Califano 97. L’ex collaboratore di Tajani Antonio Preto e Francesco Posteraro, sul quale era stato trovato l’accordo tra Pd e Udc, sono invece i nuovi membri dell’Autorità per le comunicazioni. Preto ha ottenuto 94 voti e Posteraro 91.
Nomine anticipate da giorni di polemiche e accuse di poca trasparenza. Indignati per la procedura di selezione opaca Antonio Di Pietro e Nichi Vendola secondo cui”questa è la fine di un romanzo che racconta una storia politica ormai al termine” e soprattutto “quel che è accaduto apre scenari problematici per una eventuale coalizione”. Poi il governatore della Puglia accusa il Pd di “complicità con i vecchi sistemi di potere nelle scelte fatte sul lavoro e in particolare sui commissari Agcom”. Per Vendola “è una pagina nera che può pesare moltissimo sulla scena politica italiana” e specifica che quanto è successo “non è stato un incidente di percorso per il Pd, ma una rottura rispetto a tutti i codici democratici. Non è accettabile l’anomalia italiana nel mondo che ipoteca il pluralismo del sistema informativo”. Critico anche Arturo Parisi che già nei giorni scorsi aveva criticato le logiche di spartizione nei consigli delle due authority. Non ha partecipato al voto e ha parlato di “spartizione irresponsabile”. Secondo il deputato Pd sfuma “ogni promessa di cambiamento” perché ancora una volta si è deciso di “scegliere i membri delle Autorità di garanzia e in particolare dell’Agcom secondo il principio e con il metodo della spartizione tra le parti”.
I parlamentari Radicali, anticipando la loro astensione al voto di oggi che ritenevano “la certificazione dei accordi presi fuori dalle Camere dalle oligarchie dei partiti”, avevano detto in mattinata: ”Avevamo preso atto della positiva decisione dei Presidenti delle Camere Fini e Schifani di rinviare la votazione già prevista per aprire alla presentazione dei curricula, i tempi stretti non hanno consentito un reale studio dei documenti né tantomeno la possibilità di potersi confrontare coi candidati”. Inoltre ”anche per il fatto che nessuna audizione di una selezione dei candidati è stata effettuata, per il fatto che sono stati messi a disposizione con estremo ritardo i curricula, per il fatto che in queste condizioni candidature altre di alto profilo, pure emerse, non hanno possibilità di ottenere un numero significativo di voti, per il fatto che dobbiamo ribadire la necessità di una svolta nel metodo, annunciamo la nostra non partecipazione al voto, come unica risposta adeguata ad un procedimento di selezione antimeritocratico e oligarchico”.
“Chiudiamo l’Agcom”, scrive Beppe Grillo sul blog, che ironizza sulle procedure di nomina interne all’authority. “E’ nata per (non rotolatevi dalle risate) assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e tutelare il pluralismo e le libertà fondamentali dei cittadini nel settore delle comunicazioni e radiotelevisivo”. Poi aggiunge: “Chi elegge il consiglio di cinque membri dell’AGCOM? I partiti, nella fattispecie i segretari di partito che dettano la linea ai parlamentari”. Hanno protestato anche le associazioni di Agorà Digitale, Avaaz e VogliamoTrasparenza.it, che si sono battute per le candidature competenti e trasparenti, che nel corso di una conferenza stampa alla Camera hanno strappato decine di fogli in un “flash mob” a cui hanno preso parte anche i parlamentari Antonio Di Pietro, Felice Belisario, Marco Beltrandi (Radicali), Giuseppe Giulietti (Misto) ed altri. Tra le carte i curricula depositati in questi giorni in Parlamento ma che sono stati comunicati ai parlamentari a decisione avvenuta, rendendoli di fatto carta straccia. Ora le associazioni, assieme ai parlamentari che oggi si sono astenuti sono determinate a fare appello al Presidente della Repubblica affinchè non firmi il decreto di nomina che condannerebbe l’Italia a 7 anni molto difficili per l’Informazione e la libertà in Rete.