giovedì 14 giugno 2012

Prodotti tipici, con l’italian sounding il nostrano sa di bufala. - Gianluca Schinaia

made-in-Italy


Dalla bresaola uruguaiana al pecorino romeno, sono decine i cibi tipici spacciati per italiani ma prodotti all'estero. Un giro d'affari che ruba al nostro Paese 60 miliardi di euro.

Benvenuti al Bazar Italia, specialità prodotti tipici nati e confezionati all’estero. Vi chiederete: com’è possibile un tale paradosso alimentare? Venghino, siore e siori, a vedere cosa espone la vetrina made in Italy, che di italiano ha solo la faccia (tosta). E’ il fenomeno dell’Italian sounding: prodotti che sembrano nostrani e invece sono elaborati, confezionati e venduti all’estero benché usino nomi italiani.
Ecco un esempio: non suona bene e probabilmente sa di bufala, anche se al primo assaggio si presenta come pecorino romano “Dolce Vita”. Poi assaggiate la bresaola uruguayana, gustate la caciotta rumena o inebriatevi del culatello statunitense: sicuramente più esotico, che tipico.  Una questione che da almeno vent’anni caratterizza le critiche dei piccoli produttori tradizionali che si lanciano nell’export e devono competere con i colossi agro-alimentari. Ma nell’ultimo periodo è stata la Coldiretti a guidare le proteste, accusando una società a maggioranza azionaria pubblica di incentivare le grandi imprese che all’estero vendono prodotti stranieri usando nomi italianissimi. «L’agroalimentare italiano rappresenta oltre il 16% del Pil nazionale», spiega Sergio Marini, presidente di Coldiretti, «l’export del comparto raggiunge quasi 28 miliardi di euro e in questi anni di crisi ha comunque segnato tassi di crescita annuali vicini al 13%: il problema è che i prodotti italian sounding rubano all’economia nazionale oltre 60 miliardi di euro! E soprattutto che lo Stato incentiva questo danno». Come? Secondo Coldiretti attraverso la Simest, società per azioni con il 60% di azionariato pubblico (controllata dal ministero dello Sviluppo economico) e il resto in mano ad associazioni imprenditoriali ed istituti di credito. Impresa nata nel 1991, su proposta dell’allora ministro del Commercio estero Renato Ruggiero, per dotare l’Italia di uno strumento utile a promuovere l’internazionalizzazione delle aziende italiane. Oggi invece, secondo Marini, «la Simest aiuta imprese italiane che usano materie prime, lavoratori e stabilimenti stranieri per realizzare alimenti presentati come nostrani: queste azioni non solo non aiutano il made in Italy ma ledono lo sforzo di chi esporta veramente prodotti tipici».
Possibile allora che una società sottoposta al controllo dello Stato, che usa anche fondi pubblici, lavori contro l’interesse nazionale? A rispondere è l’amministratore delegato della Simest spa, Massimo D’Aiuto: «Per legge, la società che rappresento non può finanziare investimenti in imprese italiane all’estero che delocalizzino le proprie unità produttive o amministrative. Noi finanziamo solo imprese sane appartenenti ai settori tipici del made in Italy, tra i quali l’elettromeccanico, la moda e l’agroalimentare. Nei primi 11 mesi del 2011 abbiamo avviato 64 nuovi progetti (+3% rispetto al 2010) ai quali partecipiamo con 156 milioni di euro (+45% rispetto all’anno scorso): in totale abbiamo 256 partecipazioni societarie che ammontano a circa 330 milioni di euro». Una storia di successo, quella della Simest, incrinata dalle critiche di Coldiretti che si sostanziano in due casi emblematici: la bresaola uruguayana e il pecorino romeno. Secondo le accuse dell’associazione degli agricoltori, il gruppo Parmacotto nel suo punto vendita “Salumeria Rosi” al 283 di Amsterdam Avenue di New York, vende a fianco di prodotti tipici realmente made in Italy come il prosciutto crudo, cotto o lo zampone, anche la bresaola fatta e confezionata in Uruguay. L’accusa di Coldiretti muove dall’investimento di 11 milioni di euro, appena accordato dalla Simest, nella Parmacotto in Italia per lo sviluppo della produzione italiana. Più grave appare il secondo caso citato da Coldiretti, quello di Lactitalia, s.r.l. rumena costituita nel 2005 e controllata dalla Roinvest dei fratelli Pinna di Thiesi (70,5%) e quindi dalla Simest. L’azienda commercializza in Italia e in altri paesi europei formaggi di tradizione italiana col marchio “Dolce vita” (mozzarella, pecorino, mascarpone, caciotta) e di tradizione rumena, tra cui una ricotta chiamata “toscanella”: tutti prodotti in Romania da lavoratori autoctoni, usando materie prime romene. In questo caso, difficile non vedere un chiaro tentativo di confondere il consumatore straniero a prescindere dalla correttezza dell’etichettatura della provenienza del prodotto. Per il made in Italy, oltre al danno anche la beffa visti gli incarichi che i due fratelli Pinna rivestivano fino a qualche tempo fa: Andrea come vicepresidente del Consorzio di Tutela del Pecorino Sardo e Pierluigi come consigliere dell’organismo che certifica ilcontrollo di qualità dello stesso formaggio nostrano.
Un’operazione sfacciata, ai limiti della legalità? Forse, ma esiste un’espressione anglosassone per definire un “colpo ben riuscito”, una frase che richiama il Bel Paese anche se con questo non ha nulla a che vedere, proprio come i prodotti visti prima: the Italian job.

Da Penati a Berlusconi, da Tarantini a Papa ecco i processi che saltano se passa la riforma. - Emilio Randacio


Le nuove norme sulla corruzione provocheranno in diversi casi l'accorciamento dei termini di prescrizione. I rischi principali vengono dalla modifica del reato di concussione e dalle nuove pene previste.


DAL CASO Tarantini, al Rubygate. Ma anche altro. Dalla bufera sul Cardarelli e sui primari accusati di taglieggiare i pazienti per operarli, per finire al "Sistema Sesto". L'inchiesta in cui l'ex leader lombardo del Pd, Filippo Penati, è accusato di aver preteso sostanziose mazzette dagli imprenditori. Non è un colpo di spugna la riforma approvata ieri, ma avrà comunque conseguenze su diversi processi importanti. Il principale riguarda proprio Penati, a cui la procura di Monza contesta i reati più gravi fino al 2002. Per la concussione saremmo di fronte a una prescrizione già certa (i processi dovrebbero concludersi entro l'anno e non più nel 2017). E lo stesso criterio verrà applicato per chi ha la medesima accusa. L'introduzione dell'articolo "319 quater", disciplina infatti la "concussione impropria", prevedendo pene fino a un massimo di 8 anni. In questo caso, i tempi di prescrizione si riducono di un terzo rispetto alla vecchia concussione, dando un'importante sforbiciata di tempo soprattutto per i numerosi dibattimenti in corso. 

Il sistema Sesto 
L'approvazione del ddl anticorruzione farebbe saltare un intero pezzo dell'inchiesta sul "Sistema Sesto", su cui indagano i pm della procura di Monza, Walter Mapelli e Franca Macchia: il filone sulla riqualificazione delle aree Falck. Sarebbero coperte da prescrizione le accuse a Filippo Penati, a Giordano Vimercati e agli uomini delle coop rosse: il vicepresidente del Consorzio cooperative costruttori, Omer Degli Esposti, e i due consulenti che sarebbero stati imposti al proprietario dell'area, Giuseppe Pasini. Ma mentre le coop rosse sarebbero totalmente salve - per fatti tra il 2000 e il 2004 - nulla eviterà il processo a Penati per gli altri capi d'imputazione: le presunte tangenti per la terza corsia dell'autostrada A7 e per i finanziamenti illeciti alla sua associazione "Fare Metropoli".  

Il Rubygate 
Cinque anni in meno per celebrare il processo Ruby e un'"insidia" che potrebbe essere utilizzata dai legali del Cavaliere per tentare di smontare l'accusa. È questa la principale conseguenza al Tribunale di Milano del decreto anticorruzione. Per il Rubygate, le modifiche riguardano la concussione. Il processo non rischia uno stop, ma la prescrizione si accorcia al 2020. Potrebbe, però, offrire un'"insidia", spiegano fonti della procura, nel caso i difensori di Berlusconi volessero dare un'interpretazione estensiva alla riforma coinvolgendo anche il funzionario della questura che fece rilasciare Ruby. Per le indagini per concussione, invece, il pool  per i reati sulla pubblica amministrazione teme che l'introduzione di una pena massima di 8 anni di carcere, possa indurre gli imprenditori a evitare di denunciare. 

Il caso Cardarelli 
La riforma della concussione potrebbe avere effetti anche sull'inchiesta in corso a Napoli nei confronti del primario di Ortopedia Paolo Iannelli. Il nucleo centrale delle contestazioni si riferisce all'ipotesi secondo la quale il primario (che nega) avrebbe indotto degenti dell'ospedale Cardarelli a lasciare il presidio sanitario pubblico per la clinica privata Villa del Sole. Bisognerà vedere adesso come, dopo l'approvazione definitiva del nuovo testo, le condotte configurate dai pm Curcio e Woodcock come concussione dovranno essere riformulate e con quali conseguenze sul procedimento. In Procura, dove ieri si è insediato il nuovo capo, non si sbilanciano e attendono il testo definitivo. 

La P4 
A Napoli è in corso il processo di primo grado nei confronti del deputato del Pdl Alfonso Papa, imputato di concussione e altri reati nel giudizio originato dall'inchiesta denominata P4.
Al parlamentare, che respinge le accuse, viene contestato di aver imposto a tre imprenditori il pagamento di alcune utilità (soggiorni in albergo, regali) in cambio di notizie e interventi su vicende giudiziarie. Anche in questo caso le nuove norme attualmente allo studio delle Camere potrebbero avere effetti negativi sul procedimento, tenuto conto ad esempio che il pacchetto introduce la nuova figura di reato del "traffico di influenze". Secondo fonti della Procura, a Napoli dal 2007 al 2011 sono state iscritte nel registro degli indagati con l'accusa di concussione circa 1700 persone, ben 592 nel 2008.

La sanità pugliese 
C'è anche un filone della maxinchiesta sul "sistema Tarantini" fra i processi a rischio prescrizione, con l'approvazione del ddl sulla nuova concussione. Ed è quello relativo agli "affari" del noto imprenditore barese con il primario di Neurochirurgia del Policlinico di Bari, Pasqualino Ciappetta. Secondo l'accusa, tra il 2006 e il 2009, Tarantini avrebbe accontentato il primario mettendo a disposizione auto e autista, pagando viaggi e persino il conto di salumerie o di cene consumate in rinomati ristoranti. A spese di Tarantini anche i 15 ricorsi che il professor Ciappetta voleva presentare per chiedere l'annullamento di multe. In cambio il neurochirurgo avrebbe favorito Tarantini scegliendo, sulla base del principio dell'infungibilità, le protesi da lui fornite.

Le nomine Asl 
La nuova concussione, quella che fino ad oggi era definita "per induzione", influirà anche nel processo per lo scandalo sulla cosiddetta "cupola Tedesco". Secondo la Procura di Bari, la struttura guidata dal senatore Alberto Tedesco, tra il 2005 e il 2009 avrebbe pilotato le nomine di dirigenti di Asl pugliesi e la nomina di quelli amministrativi e sanitari, in modo da dirottare gare di appalto e forniture verso imprenditori a lui legati da interessi economici ed elettorali. Tedesco, che insieme agli altri imputati potrebbe ora ottenere sconti dalla nuova normativa, sarebbe intervenuto "attivamente sui direttori generali e sui dirigenti per nominare quali primari persone di sua fiducia e destituire persone che non obbedivano ai suoi ordini". 



http://www.repubblica.it/politica/2012/06/14/news/processi_a_rischio-37162396/?ref=HREA-1  

Dal barbiere...



Ricevo e trasmetto... per farmi sentire e per condividere un sorriso. In
questi tempi ogni tanto fa bene!
Frate Pietro Sorci


 

Una mattina un fiorista andò dal barbiere per un taglio di capelli. Alla
fine, chiese il conto, ma il barbiere rispose: “non posso accettare denaro
da lei, questa settimana sto facendo servizio alla comunità”. Il fiorista
ringraziò delle gentilezza e uscì. E il mattino successivo il barbiere trovò
un biglietto di ringraziamento e una dozzina di rose alla porta del suo
negozio. 



 
  
Più tardi un poliziotto entrò a farsi tagliare i capelli e quando chiese di
pagare il barbiere disse anche a lui: “non posso accettare denaro da lei,
questa settimana sto facendo servizio alla comunità”. Il poliziotto ne fu
felice e il mattino successivo il barbiere trovò un biglietto di
ringraziamento e una dozzina di ciambelle alla porta del suo negozio. 



 

Venne quindi un Membro del Parlamento per il taglio dei capelli e quando
passò alla cassa, anche a lui il barbiere ripeté: “non posso accettare
denaro da lei, questa settimana sto facendo servizio alla comunità”. Molto
contento il Membro del Parlamento se ne andò. La mattina successiva, quando
il barbiere andò ad aprire il negozio, trovò una dozzina di Parlamentari in
fila per il taglio dei capelli. 



 

Questo, cari miei, chiarisce la differenza fondamentale tra cittadini e
politici. 

RICORDIAMOCELO: POLITICI E PANNOLINI VANNO CAMBIATI SPESSO E PER LA STESSA RAGIONE!



Ricevuta tramite mail.

Verissimo!



https://www.facebook.com/photo.php?fbid=383019708413227&set=a.268526206529245.58692.129315637116970&type=1&theater


Esodiamo la Fornero. - Gianfranco Mascia


Gli esodati alla Fornero


Le menzogne di Berlusconi non le abbiamo mai sopportate. Le abbiamo sempre denunciate senza mai perdonargliele neanche una. 
Perchè con il governo Monti la cosa dovrebbe essere diversa?
Tra l’altro nel governo c’è un ministro specializzato in bugie: la Fornero.
Aveva dichiarato: “La riforma della pensioni è pensata per restituire ai giovani speranza e futuro”.  Ed è la prima bugia.
A sei mesi dalla riforma pensionistica in realtà la disoccupazione giovanile è salita dal 30 al 36%. Logica conseguenza del mancato turn-over con padri costretti al lavoro fino a 67 anni.
La seconda bugia arriva con la promessa di una “paccata di miliardi”, a patto che i lavoratori avessero accettato la sua riforma. L’articolo 18 è stato formalmente cancellato, ma i soldi promessi per gli ammortizzatori e per l’occupazione giovanile non sono mai arrivati. Completamente scomparsi dal tavolo di concentrazione.
Ed eccoci alla terza – e forse più grande e in malafede – menzogna. Riguarda gli esodati, quei lavoratori che hanno accettato di interrompere il proprio rapporto di lavoro contando di andare in pensione con le vecchie norme (vigenti al 31 dicembre 2011) e che invece, a causa della riforma delle pensioni (voluta dalla Fornero), rischiano di vedere la data di pensionamento slittare. In pratica, rischiano di trovarsi senza stipendio e senza pensione anche per 5-6 anni ancora.
La Fornero aveva ‘quantificato’ gli esodati in 65mila e calibrato gli aiuti del governo su questa cifra. Ma conosceva già il loro numero esatto, 390.200, perché contenuto nella relazione che l’Inps aveva inviato al ministero del Lavoro prima della firma del decreto che fissava appunto in 65mila il numero dei cosiddetti salvaguardati.
In un Paese normale, il ministro del lavoro constatato l’errore avrebbe chiesto scusa e lasciato la sua lettera di dimissioni sul tavolo di Monti. Ma questa è la Repubblica delle Banane, bellezza. Dove l’arroganza è di casa. E così la Fornero sgrida l’Inps, anzichè ringraziare per aver detto le cose come stanno.
Ecco perchè il Popolo Viola ha lanciato una petizione online per chiedere le dimissioni della Fornero. 50mila firme per esodarla in 2 giorni.

Cessione Siremar, si riparte da zero aperta indagine sulla gara annullata. - Antonio Fraschilla


Cessione Siremar, si riparte da zero aperta indagine sulla gara annullata


Il Tar del Lazio ha bloccato il trasferimento della compagnia regionale alla cordata capeggiata da Lauro con la Regione socia: mistero sulla fideiussione da 30 milioni garantita dagli uffici del Bilancio.


La Procura di Roma indaga sull'operazione Siremar portata avanti dalla Regione e adesso bloccata definitivamente dal Tar del Lazio perché si configura l'ipotesi di aiuti di Stato. La Guardia di finanza ha sequestrato documenti e hard disk di funzionari e dirigenti del dipartimento regionale Bilancio coinvolti nella gara per l'acquisizione della Siremar, aggiudicata in un primo momento proprio alla cordata della Compagnia delle Isole guidata da Palazzo d'Orleans. Gara appena annullata dal Tar perché a sostegno dell'offerta vi era una fideiussione da 30 milioni di euro emessa da Unicredit ma garantita in prima battuta solo dalla Regione. Da qui il ricorso presentato dalla Navigazione siciliana spa della famiglia Franza e di Vittorio Morace, che hanno chiesto e ottenuto lo stop della gara per aiuti di Stato alla Compagnia delle Isole.

Ma rischia di avere anche uno strascico giudiziario il flop dell'avventura di Palazzo d'Orleans nel settore dei trasporti marittimi. Un'avventura voluta fortemente dal governatore Raffaele Lombardo, che prima ha rifiutato di ricevere la Siremar gratuitamente dallo Stato perché in questo caso si sarebbe dovuto accollare debiti per quasi 100 milioni di euro. E, successivamente, ha messo in piedi in poche settimane attraverso un avviso pubblico lampo una cordata di armatori a lui graditi per rilevare la Siremar ripulita dalla zavorra dei debiti. Un affare che avrebbe consentito a Palazzo d'Orleans di entrare direttamente nella gestione di un'azienda da 500 marittimi.
La cordata della Compagnia delle isole grazie alla fideiussione garantita in un primo momento dalla Regione ha vinto la gara con un'offerta da 60 milioni di euro: la Compagnia è composta dalla Mediterranea Holding, dall'armatore campano Salvatore Lauro, dalla Acies che ha come amministratore delegato l'imprenditrice proprietaria dello stabilimento della Coca-Cola a Catania, Maria Cristina Busi. E, ancora, dalla Davimar eolia navigazione e dalla Nvg, guidate da un gruppo di piccoli imprenditori di Milazzo e Messina (dalla famiglia Taranto a Massimo La Cava) e, infine, dalla Isolemar che vede socio di riferimento e presidente del cda l'imprenditore sardo Franco Del Giudice, coinvolto lo scorso anno in un giro di fatture false scoperto in Sardegna.

Il governatore ha sempre sostenuto che tutta questa operazione era "a costo zero" per la Regione. Invece, dopo il ricorso presentato dall'altra cordata di armatori guidata dai Franza e da Morace, i giudici amministrativi hanno scoperto che la fideiussione c'era, eccome. E che proprio grazie a questa garanzia di Palazzo d'Orleans la Compagnia delle Isole ha potuto fare un'offerta più elevata: "Non vi è dubbio  -  si legge nella sentenza del Tar  -  che l'impegno di garanzia assunto da Unicredit in favore della Compagna delle Isole abbia consentito alla società di presentare un'offerta conforme alle prescrizione della lettera d'invito e la formulazione di un'offerta decisamente superiore al prezzo minimo d'acquisto. Con la conseguenza che il peso reale dell'offerta ricadeva tutto sulla Regione". A nulla è servita la giustificazione dell'amministrazione "del ritiro della garanzia" dopo la presentazione delle offerte. 

Ma come ha fatto la Regione a garantire 30 milioni di euro senza una delibera di giunta o una norma votata all'Ars? Con quali soldi? L'assessore all'Economia Gaetano Armao a Sala d'Ercole ha dichiarato di non essere a conoscenza di alcuna fideiussione. Dichiarazione, questa, utilizzata dai legali della Navigazione siciliana nel ricorso al Tar. Ma la stessa domanda adesso, annullata la gara, se la stanno facendo i magistrati romani che hanno inviato la Guardia di finanza per recuperare al dipartimento Bilancio tutta la documentazione sulla gara Siremar.



http://palermo.repubblica.it/cronaca/2012/06/11/news/cessione_siremar_si_riparte_da_zero_aperta_indagine_sulla_gara_annullata-37023085/

mercoledì 13 giugno 2012

Trattativa Stato-mafia: indagato Conso. “False informazioni al magistrato”. - Giuseppe Piptone

giovanni conso interna nuova


L'ex Guardasigilli, ora novantenne, nel 1993 non rinnovò oltre 300 provvedimenti di 41-bis. Ma per concludere l'inchiesta su di lui si dovrà aspettare il primo grado del processo sul presunto accordo tra istituzioni e Cosa nostra, la cui indagine è vicina alla fine.

Il novantenne Giovanni Conso, importante giurista e ministro di Grazia e Giustizia fino al 10 maggio del 1994, è iscritto nel registro degli indagati nell’ambito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-Mafia. L’ex Guardasigilli è sospettato di aver fornito false informazioni ai pm della procura di Palermo, titolari dell’indagine sul patto sotterraneo che portò pezzi delle istituzioni a sedersi allo stesso tavolo di Cosa Nostra nel 1992.
Conso, autore dei più importanti manuali di procedura penale, nel novembre del 1993 non rinnovò oltre trecento provvedimenti di 41 bis, il carcere duro per detenuti mafiosi. “Ho preso quella decisione in totale autonomia per fermare la minaccia di altre stragi e non ci fu nessuna trattativa” ha detto l’ex Guardasigilli davanti la commissione parlamentare antimafia l’11 novembre del 2010. Per gli inquirenti palermitani invece proprio la mancata proroga del 41 bis costituirebbe uno degli oggetti principali della trattativa.
È per questo che i magistrati vogliono vederci chiaro anche sulla nomina del giudice Francesco Di Maggio come vice capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Di Maggio venne chiamato ai vertici dell’amministrazione penitenziaria proprio da Conso, e siccome in origine non aveva i titoli richiesti dalla legge, l’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro lo nominò consigliere di Stato. Quando nei mesi scorsi, i pm palermitani avevano chiesto a Conso le motivazioni che lo avevano indotto a scegliere proprio Di Maggio, l’ex ministro si è limitato a dire che il giudice deceduto nel 1996 “era una persona che andava un po’ in televisione, diciamo così, quindi era combattivo, era un esternatore e mi era parso molto efficace”. Una giustificazione che non è stata ritenuta credibile dagli inquirenti palermitani.
La decisione di iscrivere Conso nel registro degli indagati arriva proprio quando l’inchiesta sulla trattativa è al primo importante giro di boa. Nelle prossime ore i magistrati siciliani invieranno infatti l’avviso di conclusione delle indagini ai principali indagati dell’inchiesta che sta cercando di mettere a nudo le connivenze più inconfessabili tra la mafia e pezzi dello Stato nel periodo delle stragi. Tra i destinatari dell’avviso di conclusione non ci sarà però Conso, che non riceverà per il momento neanche l’avviso di garanzia. Per il reato di false informazioni ai pm, il codice prevede infatti che la posizione dell’indagato resti sospesa fino a quando il procedimento principale non arrivi alla sentenza del primo grado di giudizio. Nel caso di Conso quindi bisognerà aspettare il primo grado del processo sulla trattativa.
Dopo due anni di interrogatori con boss mafiosi e testimoni eccellenti, smemorate audizioni di importanti figure istituzionali e complesse analisi di documenti inediti, i magistrati coordinati dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia si sono barricati nei giorni scorsi in riunione permanente. Nell’avviso di conclusione delle indagini infatti devono essere indicate le imputazioni con le quali s’intende mandare a giudizio gli indagati. Il carnet delle possibilità è molto vario: si va infatti dalla violenza o minaccia a corpo politico dello Stato (il reato principale della trattativa), al favoreggiamento aggravato, fino alla falsa testimonianza contestata nei giorni scorsi all’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino.
Un elenco d’ipotesi di reato fin troppo ampio, che ha diviso la procura. L’avviso di conclusione delle indagini infatti non sarà firmato da Paolo Guido, uno dei sostituti procuratori che – insieme ai colleghi Lia Sava e Antonino Di Matteo – ha affiancato Ingroia fino ad ora. Per evitare che l’iter dell’indagine si blocchi Guido si è “spogliato” dell’inchiesta, ed è stato sostituito dal dottorFrancesco Del Bene, già titolare di una costola dell’inchiesta sulla trattativa, cioè l’indagine sul delitto di Salvo Lima. Alla base della divergenza di opinioni ci sarebbe proprio un disaccordo di Guido in merito ai reati da contestare agl’indagati. Il nodo è rappresentato soprattutto dalle accuse mosse agli indagati eccellenti – come gli ex ministri Nicola Mancino e Calogero Mannino o il senatore del Pdl Marcello Dell’Utri – giudicate deboli e quindi difficili da dimostrare in dibattimento.
All’avviso di conclusione delle indagini preliminari potrebbe alla fine mancare anche la firma del capo della procura di Palermo, Francesco Messineo, nei giorni scorsi proposto dal Csm come nuovo procuratore generale. La firma del procuratore capo in realtà non è richiesta per l’avviso di conclusione delle indagini, non essendo Messineo titolare formale del fascicolo. Sull’argomento però il palazzo di giustizia si è stretto in un inviolabile silenzio stampa.