giovedì 21 giugno 2012

Scene orribili di umana follia.



Ce ne sono ancora 640.000, di bimbi sotto i 5 anni che stanno per morire di fame, più quelli sopra i 5 anni e gli adulti, e al momento sembra più probabile che qualche bookmaker apra le scommesse sul bilancio finale della tragedia, che qualcuno di quelli che possono si svegli e corra al loro salvataggio, tanto che secondo l'ONU l'emergenza è destinata ad allargarsi ad altre zone. Voi su cosa scommettereste?

Non dimentichiamo facilmente la crisi della Somalia, ovvero il genocidio favorito da nazioni che pensano ad altro, meno scomodo e impegnativo. Anche i politici italiani non sono da meno degli altri; magari invitano a donare l'euro tramite card che chissà dove va a finire.

E' ben vero che ci sono uomini veramente tali che non hanno i bunker per salvarsi, che vanno allo sbaraglio per difendere i diritti sanciti dalla Convenzione sui diritti dei bambini che si celebrerà tra un mese circa.

Ma quanti bambini sotto i cinque anni saranno morti per quella data, di fame e di sete, mentre durante quella ricorrenza in molti Paesi verranno distribuiti a gogò merendine, cioccolatini e bibite per chi è strapieno e non ha né fame, né sete … e di tutto quel cibo si riempiranno i limitrofi cassonetti dei rifiuti organici?


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«Non raccogliete i sacchetti facciamo scatenare la guerra». - Roberta Polese


         
Chiara Gavioli                      Stefano Gavioli
Per il gip gli arrestati hanno sfruttato la «miseria dei netturbini». La falsa bancarotta e i ricatti: «I numeri? basta solo scriverli».


VENEZIA — «La guerra non la dobbiamo fare noi, la devono fare i dipendenti. Dobbiamo far degenerare la situazione e costringere i nostri a fare un po' di casino. Non bisogna effettuare prelievi di rifiuti, domani potremo trattare meglio». Giuseppina Totaro parla con il suo capo Stefano Gavioli e con Giancarlo Tonetto. Le sue parole racchiudono tutta la strategia di Enerambiente, la società che fa capo all’imprenditore trevigiano, a Napoli. I «prelievi» sono i sacchetti di immondizia, e bisogna lasciarli a terra. Il gioco è questo: se il Comune si ritrova a soffocare tra i rifiuti sarà obbligato a comprarsi i camion (sovrapprezzati) di Enerambiente, senza avere nemmeno il tempo di farne una stima. Nel frattempo i dipendenti vengono usati come pedine di un risiko che ha un solo obiettivo: fare soldi. Lo spaccato che emerge dall'inchiesta che ha portato agli arresti di 11 veneti, tra cui il «re dei rifiuti» Stefano Gavioli, è quello di un gruppo che non esita, come dice il gip, a «sfruttare la miseria dei dipendenti».
Le accuse mosse a diverso titolo dalla procura di Napoli alla «cricca» composta dal capo di Enerambiente, i suoi collaboratori, bancari, funzionari e sindacalisti, sono associazione per delinquere finalizzata alla bancarotta fraudolenta, falso in bilancio, ricorso abusivo al credito, riciclaggio,corruzione ed estorsione. Siamo nel 2010. Mentre a Venezia la società viene svuotata per essere svenduta, a Napoli la partita si gioca sui lavoratori e sul Comune. La squadra di Gavioli tiene per la gola l'amministrazione costringendola, sull'onda dell'emergenza, a contratti più favorevoli a Enerambiente, obbligandola ad acquistare i camion ad un prezzo sovrastimato. Napoli è alla canna del gas: non sa più come gestire i cumuli di monnezza accatastati e agli angoli delle strade. La prefettura convoca un tavolo di confronto a cui partecipano il vicesindaco Sabatino Santangelo, i vertici di Asia, la municipalizzata del Comune che affidato la raccolta rifiuti a Enerambiente, e Enerambiente stessa, il cui contratto è in scadenza. E' un venerdì di fine ottobre, il termovalorizzatore di Acerra è rotto, alla già strabordante discarica di Terzigno ci sono pesanti scontri. Ma, stando alle indagini dei finanzieri, la «cricca» non si muove di un millimetro. Il Comune chiede la proroga del contratto, Gavioli dice no. Asia allora accetta l'acquisto dei camion, ma vuole fare una perizia per sapere quanto costano. «Non ci provate neanche, altrimenti ci alziamo e ce ne andiamo» dice il veneziano Giancarlo Tonetto, consulente legale di Gavioli «dovete fidarvi della nostra parola».
«Era vitale che Enerambiente non abbandonasse immediatamente Napoli per evitare la paralisi - dice il vicesindaco Santangelo nel verbale dei finanzieri - non avevamo alternative». Risultato: Il Comune cede, il contratto viene prorogato a netto vantaggio economico di Enerambiente. Un risultato cui la società arriva grazie all'alter-ego di Gavioli a Napoli, Giuseppina Todaro, che ha passato settimane a fomentare la rivolta dei lavoratori. E' in questo momento che Gavioli, secondo la Finanza «è pronto a combattere la guerra». E' in questa fase che il suo fido Giancarlo Tonetto impartisce l’ordine: «La situazione deve degenerare». La Totaro racconta a Gavioli del dialogo con i sindacalisti e di aver detto loro che «la partita è grossa, (…) non fate gli stronzi, vedete come cazzo dovete fare per far rispettare questo accordo (…) chiamate chi volete devono arrivare i soldi». Lavoratori strumentalizzati da un lato e denigrati dall'altro. «Quelli sono bastardi, appaiono come angioletti, ma sono bastardi» dice al capo, che le dà ragione. Intanto, stando a quanto dicono le indagini, a Venezia la Enerambiente si sta svuotando in modo illecito. Lo fa capire Gavioli al telefono con la Totaro: «La chiusura di Enerambiente bisogna farla con i numeri giusti (...) i numeri giusti basta solo che li scriviamo». Per Giovanni Faggiano: «Gavioli deve andare al concordato, altrimenti lo arrestano» dice alla segretaria Stefania Vio. I soldi dell’azienda sono finiti anche nelle tasche della famiglia Gavioli: «Abbiamo pagato anche i conti privati di sua sorella» dice Faggiano in una intercettazione. E’ Maria Chiara Gavioli, la donna che, secondo la Finanza, finge di fare la «bella e svampita», dicendo che tutto avveniva «a sua insaputa». Ma gli investigatori non le credono. Per la procura tutti sapevano, tutti ci guadagnavano.

Trattativa Stato-mafia: nell’inchiesta anche le telefonate Mancino-Napolitano. - Marco Lillo e Giuseppe Lo Bianco


Giorgio Napolitano Nicola Mancino interna nuova
Nei brogliacci due conversazioni tra il capo dello Stato e l'ex presidente del Senato, ma saranno distrutte. Lì dentro ci potrebbe essere la conferma dell'interessamento per calmare le angosce dell'ex vicepresidente del Csm al quale il consigliere del Quirinale D'Ambrosio disse: "Il presidente ha letto la lettera al pg della Cassazione prima di mandarla"
“Qui il problema che si pone è il contrasto di posizione oggi ribadito pure da Martelli… tant’è che il presidente ha detto: ma lei ha parlato con Martelli… eh, indipendentemente dal processo, diciamo”. L’interlocutore di Nicola Mancino è il consigliere giuridico del capo dello Stato, Loris D’Ambrosio ma il suggeritore è – a dire dello stesso D’Ambrosio – Giorgio Napolitano che consiglierebbe un incontro tra i due testimoni che avevano fornito versioni contrastanti. Il tema è rovente perché investe il futuro giudiziario dell’ex presidente del Senato: “Non vorrei che dal confronto viene fuori che io ho fatto una dichiarazione fasulla e quello (Martelli, ndr) ha detto la verità, perchè a questo punto chi processano? Non lo so”.
L’ex presidente del Senato è in fibrillazione, è un’escalation di angoscia, e Mancino è consapevole della scivolosità della strada indicata dal Quirinale: “Non è che posso parlare io con Martelli, che fa…”. Effettivamente non è bello per un testimone sul ciglio dell’incriminazione contattare un altro teste che lo smentisce per appianare le divergenze. E questo lo capisce anche Mancino. A parlare con l’ex Guardasigilli, dunque, devono essere altri. È qui, in questa conversazione a mezze frasi tra Mancino e D’Ambrosio che le manovre per condizionare l’inchiesta sulla trattativa investono Napolitano. Sono millanterie di D’Ambrosio?
Un dato è certo: il consigliere del presidente è rimasto al suo posto anche dopo la pubblicazione di questo stralcio di colloquio sul Fatto di ieri. Non solo: Napolitano avrebbe parlato direttamente con Nicola Mancino, almeno a leggere l’anticipazione di Panorama.it che segnala la preoccupazione e l’irritazione dello staff del Colle per la possibilità che nei brogliacci della Procura non ancora depositati vi siano anche conversazioni che vedono il presidente della Repubblica alla cornetta. E non appaiono preoccupazioni infondate. Al Fatto risulta che tra le decine di telefonate intercettate, in almeno due casi la squadra di polizia giudiziaria nella sala ascolto della procura di Palermo avrebbe trascritto in brogliacci, coperti dal segreto, la voce del capo dello Stato a colloquio con l’ex vice presidente del Csm.
Il contenuto è ovviamente segreto, non verrà trascritto e finirà probabilmente distrutto senza mai arrivare agli atti del processo. In quelle telefonate con la voce del capo dello Stato ci potrebbe essere la conferma del suo diretto interessamento per calmare le angosce di Mancino, avviando di fatto le manovre di interferenza nell’indagine di Palermo. Sul punto, lo stesso D’Ambrosio appare abbastanza chiaro, nel suo colloquio con Mancino del 5 aprile, commentando la lettera inviata il giorno prima dal Quirinale al pg della Cassazione: “Però adesso lei lo sa, quando uscirà quello che noi, quello che il presidente auspica, tra l’altro il presidente l’ha letta prima di mandarla, eh non è una cosa solo di Marra”. E Mancino replica: “Comunque, dovendogli fare gli auguri per telefono non dirò niente, non accennerò…”. Ma D’Ambrosio lo rassicura: “No, lei può dire che ha saputo della lettera che le è stata mandata, è stato informato che la lettera è stata mandata al procuratore generale. Poi ha saputo che era ai fini di un coordinamento investigativo, lei lo può dire parlando informalmente con il presidente, perché no?”. “E va bene…”, insiste, forse poco convinto, l’ex presidente del Senato. Ma D’Ambrosio, lapidario: “Non c’è niente, lui sa tutto. E che, non lo sa. L’ha detto lui, io voglio che la lettera venga inviata, ma anche con la mia condivisione”.
Per Mancino il confronto con Martelli è la preoccupazione. Il tema è la questione dei Ros e dei loro contatti informali con Ciancimino: Martelli sostiene di averlo informato, Mancino nega. E nella telefonata del 12 marzo si sfoga con D’Ambrosio: “Lui dice, vedi un poco che quelli fanno attività non autorizzate, io non mi ricordo che lui me l’ha detto, ma escludo che me l’abbia potuto dire. Tuttavia, ammesso che me lo ha detto, perchè se lui sapeva di attività illecite non lo ha detto alla Procura della Repubblica, lui che era Guardasigilli?”. Lo sfogo si fa pesante: “Ma che razza di Paese è, se non tratta con le Brigate rosse fa morire uno statista. Tratta con la mafia e fa morire vittime innocenti. Non so… io anche da questo punto di vista… o tuteliamo lo Stato oppure tanto se qualcuno ha fatto qualcosa poteva anche dire mai io debbo avere tutte le garanzie, anche per quanto riguarda la rilevanza statuale delle cose che sto facendo”.
Mancino teme di pagare da solo un prezzo giudiziario troppo alto, nella telefonata del 12 marzo pressa D’Ambrosio: “Sto parlando dello Stato italiano, non è possibile che ognuno va per conto suo. Lei veda un po’ se Grasso ritiene di ascoltare anche me, sia pure in maniera riservatissima, che nessuno ne sappia niente…”. E nella telefonata del 3 aprile, subito dopo che il pm ha chiesto il confronto in aula con Martelli, l’angoscia di Mancino raggiunge il suo punto più alto, il senatore risollecita a D’Ambrosio la lettera al pg della Cassazione: “Veda un poco, la cosa è terribile”. Ma D’Ambrosio si muove su input del presidente? Il 5 marzo, quando Mancino si scusa alla fine della telefonata dicendo: “Mi scusi, io tormento lei”. D’Ambrosio replica: “No, no si immagini. Poi il presidente me ne aveva parlato, quindi…”.
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ALDO PATRICIELLO. L’europarlamentare che prende lo stipendio ma non si vede (quasi mai). Andrea Succi




Due condanne passate in giudicato, grande amico di Berlusconi e Cosentino, esponente molisano di un Pdl alla deriva, nonché europarlamentare assenteista. O meglio: uno dei più assenteisti, secondo la classifica di presenza stilata da Votewatch, il database pubblico di tutte le votazioni registrate a Bruxelles. Eppure i circa 12.000 euro di stipendio mensile (che comprensivi di benefit vari, nel 2011, potevano arrivare ad un massimo di 21.209 euro) non tardano mai a finire nelle tasche di Aldo Patriciello…
LO CHIAMAVANO BERLUSCHINO - Tra televisioni private, squadre di calcio e aziende attive nei settori di sanità e costruzioni, l’europarlamentare venafrano Aldo Patriciello non si è fatto mancare praticamente nulla. Comprese due condanne passate in giudicato: una per finanziamento illecito alla campagna elettorale di un politico amico, l’attuale Presidente della Regione Molise Michele Iorio, con cui ha sempre fatto cartello, nonostante le finte diatribe (sentenza della Cassazione n° 1678 del 25.6.1997); la seconda, “per aver attivato un nuovo impianto di bitumazione senza la prescritta autorizzazione alle emissioni e senza aver dato la preventiva comunicazione alle autorità competenti” (sentenza della Cassazione n° 1211 del 23.9.1996).
Ma il tempo passa, la gente dimentica e i processi – colpiti a morte dal piduismo berlusconiano – si complicano maledettamente. Nonostante Patriciello venga più volte coinvolto in pesanti procedimenti giudiziari – tra cui Piedi D’Argilla, sfiorato dal reato di 416 bis (poi archiviato per insufficienza di prove) – riesce sempre a uscirne pulito.
E la smania di potere a tutti i costi, caratteristica del Patriciello anni ’90, si attenua, lasciando spazio a una politica più ragionata, in cui tessere rapporti imprenditoriali ed elettorali diventa un tutt’uno. Le aziende di famiglia crescono, su tutte la Neuromed, gioiello di sanità privata, e concorrono a creare quel bacino di voti necessario per diventare un politico di razza.
NEMO PROPHETA IN PATRIA - Dalla vecchia Dc a Forza Italia è un battito d’ali. Attratto da uno specchio ipnotico, Patriciello si lascia conquistare da Mr. B. e inizia una guerra per la leadership berlusconiana in Molise contro l’amico/nemico di sempre, Michele Iorio. Il Pdl è oramai nato ma il dualismo continua fino a quando l’imprenditore venafrano capisce che l’avversario è troppo ostico e ben piazzato. Morale della favola, si ricicla come europarlamentare candidandosi per la prima volta nel 2004, nella circoscrizione meridionale (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia) con l’Udc, partito con cui ha sempre avuto un certo feeling.
Prende 60 mila e rotti voti, non ce la fa, mastica amaro. Ma il destino è dietro l’angolo: alle politiche del 2006 Lorenzo Cesa, primo eletto nella circoscrizione, vince il terno al lotto e va a sedersi dritto in Parlamento, cosicché il mai domo Patriciello riesce (finalmente) a volare a Bruxelles.
L’EUROPARLAMENTARE CHE C’È MA NON SI VEDE - Chi nasce tondo non muore quadrato, direbbero gli anziani saggi che coltivano le splendide terre molisane e che conoscono molto bene il figliol prodigo (?) Patriciello. E infatti la percentuale di presenza sfiora il 58%: praticamente una volta su due l’inviato meridionale a Bruxelles ha altro da fare. C’è, ma non si vede né si sente. Appena 24 interrogazioni, un quasi record. Tuttavia raggiunge un primato, diventando uno dei pochissimi europarlamentari cui hanno tolto l’immunità parlamentare. Lì per lì stava per farsela sotto, poi si è improvvisamente ricordato come funziona la giustizia in Italia – soprattutto nei confronti della Casta – e ha tirato un sospiro di sollievo.
L’EUROPARLAMENTARE CHE C’È MA NON SI VEDE, 2.
Viste le premesse c’erano tutti i presupposti per una ricandidatura facile facile. E nel 2009 ci riprova. Exploit: passa da 68 mila a oltre 110 mila preferenze, di cui solo 20.000 nel natio Molise. Il resto? È nella roccaforte campana che Patriciello dà il meglio di sé, raccogliendo più di 50 mila voti nelle province di Caserta e Napoli.
Sono in tanti ad avergli fatto le pulci in quanto secondo eletto, appena dietro Silvio Berlusconi, in comuni “a rischio” quali Mondragone, San Cipriano D’Aversa, Santa Maria Capua Vetere, Santa Maria La Fossa. Non ti curar di loro e passa avanti, ecco il motto di Patriciello, ribattezzato Mr. 110 (mila preferenze) e, quindi, forte del suo consenso personale.
Talmente forte da sentirsi onnipotente e ubiquo: ci sono anche se non ci sono, ci sono anche se non mi vedete. Come una sorta di Houdini all’italiana, l’europarlamentare Aldo Patriciello si è barcamenato tra apparizioni, poche, e sparizioni, di più: risulta infatti al 739° posto, su 753 europarlamentari, nella classifica globale stilata da Votewatch, con una percentuale di presenza del 61%. Bassa, certo, ma migliore rispetto al 58% del primo mandato.
Lo stipendio invece, quello sì, arriva puntuale come un treno svizzero: ogni mese, al di là di assenze o presenze, Patriciello si ritrova in saccoccia circa 12 mila euro, che - secondo il bilancio 2011 dell'Europarlamento - possono arrivare fino ad un massimo di 21 mila euro per deputato, benefit compresi.
Chissà che al terzo mandato, se dio vorrà, non saprà riscattarsi.

Barry White - Jusy the way You are




L’emergenza corruzione. - Salvatore Brigantini




Nel 2009, lasciando l' Italia, l' ex ambasciatore Usa Spogli affermò che la nostra grande piaga è la corruzione; la muta reazione confermò la diagnosi - certo umiliante - di un male che trabocca ogni giorno dalle cronache. Sfugge sempre il danno che esso fa, anche all' economia. La corruzione, beninteso, esiste ovunque, la colpa non è nel Dna nostro; il tema vero è perché la nostra società civile non riesce a prevenirla, e poi a bloccarne le prime manifestazioni. Il solo argine alla corruzione da noi è nel lavoro della magistratura, ma essa è un' estrema rete di sicurezza che deve entrare in gioco solo quando qualche intoppo fa saltare i filtri del sistema. Se però questi sono sempre occlusi, essa fa, dopo e male, il lavoro che altri avrebbe dovuto fare bene prima. Quando la casa brucia, i pompieri sparano con violenza l' acqua; di quadri e arredi del salotto buono non si curano. Inutile poi lamentarsi se qualche pompiere va giù pesante. È la mancanza di preveggenza dei padroni di casa ad aver innescato il fuoco. Un effetto collaterale di questa mancanza del «filtro civile» è il logorìo dei carri dei pompieri, usati troppo e male, invece dei furgoni delle pulizie, che restano fermi in garage. 

Qualche esempio? Un lobbista amico del presidente della Lombardia Formigoni, con lui assai munifico, riceve in 10 anni 60 o 70 milioni, a titolo di consulenza, da un Istituto di cura privato con il quale la Regione, a sua volta, è stata assai munifica. Il lobbista, pur di sanità ignaro, coltivava i suoi contatti in Regione lavorando molto «sul lato umano». L' hanno stoppato solo i Pm. Ferma l' ammirazione per chi sia dotato di psicologia così fine, preziosa anzi, sorgono ovvie domande. Fino all' arrivo dei Pm andava tutto bene? Perché - negli infiniti dibattiti in Regione - sono mancate aspre domande sui rapporti stretti fra il presidente della Regione e un lobbista che così apertamente ne sfruttava l' amicizia? Nessuno dei molti, influenti e pii, amici del presidente Formigoni gli ha mai intimato, a brutto muso, la fine di tale malcostume? 

Poi ci sono le distrazioni dei fondi che l' Italia - cioè noi tutti - paga ai partiti. La denuncia del caso Lusi non è venuta dai suoi, troppo distratti, amici di partito. Non parliamo della Lega, che a Roma ladrona si trovava tanto bene; mesta attende l' imminente ritorno alle amate valli. Anche qui, chi sapeva - ed erano tanti - ha taciuto; se imbraccia oggi fiero la ramazza, fa solo ridere. Alcune centinaia (o migliaia?) di calciatori e addetti ai lavori sapevano del calcio-scommesse, eppure nessuno ha squarciato il velo. Chi doveva consigliare la Regione Sicilia nella copertura dei suoi rischi finanziari non può decentemente dire che quanto ha ricevuto da controparti della Regione remunerava una consulenza. Non succede mai nulla fino all' ululato delle sirene! 

Se una società di giochi facente capo a soggetti con legami malavitosi riceve 148 milioni da Bpm, si arcua giusto qualche sopracciglio. All' arrivo degli inquirenti, accorre il deputato Laboccetta, che gli sfila il computer del titolare spacciandolo per proprio, per cancellare con calma tutto. Ovviamente il benemerito pastura quieto fra i banchi di Montecitorio. Chi in Bpm s' era opposto è stato bruscamente zittito: avrà cercato consensi nella struttura, senza frutto. In questi e in altri casi qualcosa era pur trapelato, prima dell' arrivo dei Pm, nelle cronache nere finanziarie, ma senza che si smuovesse l' opinione pubblica, come invece accade in Germania se un ministro copia la tesi di laurea, o se la moglie del presidente riceve soldi da un poco di buono. 

Non si pretende che il Paese sia composto di tanti Giorgio Ambrosoli, che da soli scoperchiano il malaffare. Basterebbe che si levasse spontaneo un moto di simpatia - nel senso originario della parola - verso chi lo fa. Una volta «contagiato» un sufficiente numero di cittadini attenti al bene pubblico, la partita sarebbe vinta. I 148 milioni al clan Corallo, i 60 al munifico lobbista, il loro multiplo che l' ospedale ha bellamente incassato, i «tesoretti» sperperati in corruzione da tanti partiti, sono rubati a famiglie e imprese meritevoli. Essi tuttavia tacciono: se lo scandalo tocca il loro settore, per il timore di contraccolpi, se non li tocca, perché non li tocca. Alzino finalmente la testa! È questa la zavorra che ci impiomba, scoraggiando nuove iniziative di italiani e stranieri. Il governo fa bene contro l' evasione; faccia ancor di più. Raccolga lo spunto del governatore di Bankitalia, Ignazio Visco: aumentiamo il peso delle donne, meno aduse alla corruzione, nell' economia. Ammutolita la Lega, aiutiamo però il Sud, gran riserva di sviluppo economico e civile, a superare le storiche debolezze sul tema. Monti parli, oltre che alle menti, ai cuori. Dica la verità: la pervasiva corruzione divora il futuro dei nostri figli.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/lemergenza-corruzione/

Lo scippo della Costituzione. - Stefano Rodotà




Nel silenzio generale stiamo assistendo alla manomissione di alcuni importantissimi articoli della Costituzione. Può un Parlamento di non eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sul testo fondativo della nostra Repubblica?


Stiamo vivendo una fase costituente senza averne adeguata consapevolezza, senza la necessaria discussione pubblica, senza la capacità di guardare oltre l’emergenza. È stato modificato l’articolo 81 della Costituzione, introducendo il pareggio di bilancio. Un decreto legge dell’agosto dell’anno scorso e uno del gennaio di quest’anno hanno messo tra parentesi l’articolo 41. E ora il Senato discute una revisione costituzionale che incide profondamente su Parlamento, governo, ruolo del Presidente della Repubblica. Non siamo di fronte alla buona “manutenzione” della Costituzione, ma a modifiche sostanziali della forma di Stato e di governo. Le poche voci critiche non sono ascoltate, vengono sopraffatte da richiami all’emergenza così perentori che ogni invito alla riflessione configura il delitto di lesa economia.

In tutto questo non è arbitrario cogliere un altro segno della incapacità delle forze politiche di intrattenere un giusto rapporto con i cittadini che, negli ultimi tempi, sono tornati a guardare con fiducia alla Costituzione e non possono essere messi di fronte a fatti compiuti. Proprio perché s’invocano condivisione e coesione, non si può poi procedere come se la revisione costituzionale fosse affare di pochi, da chiudere negli spazi ristretti d’una commissione del Senato, senza che i partiti presenti in Parlamento promuovano essi stessi quella indispensabile discussione pubblica che, finora, è mancata.
Con una battuta tutt’altro che banale si è detto che la riforma dell’articolo 81 ha dichiarato l’incostituzionalità di Keynes. 

L’orrore del debito è stato tradotto in una disciplina che irrigidisce la Costituzione, riduce oltre ogni ragionevolezza i margini di manovra dei governi, impone politiche economiche restrittive, i cui rischi sono stati segnalati, tra gli altri da cinque premi Nobel in un documento inviato a Obama. Soprattutto, mette seriamente in dubbio la possibilità di politiche sociali, che pure trovano un riferimento obbligato nei principi costituzionali. La Costituzione contro se stessa? Per mettere qualche riparo ad una situazione tanto pregiudicata, uno studioso attento alle dinamiche costituzionali, Gianni Ferrara, non ha proposto rivolte di piazza, ma l’uso accorto degli strumenti della democrazia. Nel momento in cui votavano definitivamente la legge sul pareggio di bilancio, ai parlamentari era stato chiesto di non farlo con la maggioranza dei due terzi, lasciando così ai cittadini la possibilità di esprimere la loro opinione con un referendum. 

Il saggio invito non è stato raccolto, anzi si è fatta una indecente strizzata d’occhio invitando a considerare le molte eccezioni che consentiranno di sfuggire al vincolo del pareggio, così mostrando in quale modo siano considerate oggi le norme costituzionali. Privati della possibilità di usare il referendum, i cittadini — questa è la proposta — dovrebbero raccogliere le firme per una legge d’iniziativa popolare che preveda l’obbligo di introdurre nei bilanci di previsione di Stato, regioni, province e comuni una norma che destini una quota significativa della spesa proprio alla garanzia dei diritti sociali, dal lavoro all’istruzione, alla salute, com’è già previsto da qualche altra costituzione. Non è una via facile ma, percorrendola, le lingue tagliate dei cittadini potrebbero almeno ritrovare la parola.

L’altro fatto compiuto riguarda la riforparlamentari, costituzionale strisciante dell’articolo 41. Nei due decreti citati, il principio costituzionale diviene solo quello dell’iniziativa economica privata, ricostruito unicamente intorno alla concorrenza, degradando a meri limiti quelli che, invece, sono principi davvero fondativi, che in quell’articolo si chiamano sicurezza, libertà, dignità umana. Un rovesciamento inammissibile, che sovverte la logica costituzionale, incide direttamente su principi e diritti fondamentali, sì che sorprende che in Parlamento nessuno si sia preoccupato di chiedere che dai decreti scomparissero norme così pericolose.

È con questi spiriti che si vuol giungere a un intervento assai drastico, come quello in discussione al Senato. Ne conosciamo i punti essenziali. Riduzione del numero dei modifiche riguardanti l’età per il voto e per l’elezione al Senato, correttivi al bicameralismo per quanto riguarda l’approvazione delle leggi, rafforzamento del Presidente del Consiglio, poteri del governo nel procedimento legislativo, introduzione della sfiducia costruttiva. Un “pacchetto” che desta molte preoccupazioni politiche e tecniche e che, proprio per questa ragione, esigerebbe discussione aperta e tempi adeguati. Su questo punto sono tornati a richiamare l’attenzione studiosi autorevoli come Valerio Onida, presidente dell’Associazione dei costituzionalisti, e Gaetano Azzariti, e un documento di Libertà e Giustizia, che hanno pure sollevato alcune ineludibili questioni generali. 

Può un Parlamento non di eletti, ma di “nominati” in base a una legge di cui tutti a parole dicono di volersi liberare per la distorsione introdotta nel nostro sistema istituzionale, mettere le mani in modo così incisivo sulla Costituzione? Può l’obiettivo di arrivare alle elezioni con una prova di efficienza essere affidato a una operazione frettolosa e ambigua? Può essere riproposta la linea seguita per la modifica dell’articolo 81, arrivando a una votazione con la maggioranza dei due terzi che escluderebbe la possibilità di un intervento dei cittadini? Quest’ultima non è una pretesa abusiva o eccessiva. Non dimentichiamo che la Costituzione è stata salvata dal voto di sedici milioni di cittadini che, con il referendum del 2006, dissero “no” alla riforma berlusconiana.

A questi interrogativi non si può sfuggire, anche perché mettono in evidenza il rischio grandissimo di appiattire una modifica costituzionale, che sempre dovrebbe frequentare la dimensione del futuro, su esigenze e convenienze del brevissimo periodo. Le riforme costituzionali devono unire e non dividere, esigono legittimazione forte di chi le fa e consenso diffuso dei cittadini.

Considerando più da vicino il testo in discussione al Senato, si nota subito che esso muove da premesse assai contestabili, come la debolezza del Presidente del Consiglio. Elude la questione vera del bicameralismo, concentrandosi su farraginose procedure di distinzione e condivisione dei poteri delle Camere, invece di differenziare il ruolo del Senato. Propone un intreccio tra sfiducia costruttiva e potere del Presidente del Consiglio di chiedere lo scioglimento delle Camere che, da una parte, attribuisce a quest’ultimo un improprio strumento di pressione e, dall’altra, ridimensiona il ruolo del Presidente della Repubblica. Aumenta oltre il giusto il potere del governo nel procedimento legislativo, ignorando del tutto l’ormai ineludibile rafforzamento delle leggi d’iniziativa popolare. Trascura la questione capitale dell’equilibrio tra i poteri. 

Tutte questioni di cui bisogna discutere, e che nei contributi degli studiosi prima ricordati trovano ulteriori approfondimenti. Ricordando, però, anche un altro problema. Si continua a dire che le riforme attuate o in corso non toccano la prima parte della Costituzione, quella dei principi. Non è vero. Con la modifica dell’articolo 81, con la “rilettura” dell’articolo 41, con l’indebolimento della garanzia della legge derivante dal ridimensionamento del ruolo del Parlamento, sono proprio quei principi ad essere abbandonati o messi in discussione.




http://temi.repubblica.it/micromega-online/lo-scippo-della-costituzione/