Alla faccia dell’”emergenza”. Dietro la “questione rifiuti” in Campania c’è una storia cominciata più di dieci anni fa. E ci sono nomi e cognomi: imprenditori e politici corrotti che con il mancato smaltimento hanno arricchito se stessi e i clan.
Cinque milioni di ecoballe fuori legge, un miliardo e mezzo di euro spesi in 11 anni dal commissariato di governo e altri 80 milioni stanziati a giugno dal governo: sono le cifre che segnano l’ennesima débâcle dello Stato in terra di Camorra. Quella che è stata chiamata “emergenza rifiuti” si sta rivelando sempre più una grande truffa di cui hanno beneficiato amministratori corrotti, malavitosi, imprenditori più o meno vicini agli uni e agli altri: lo sostengono i magistrati in una serie di inchieste intrecciate che, tassello dopo tassello, ne stanno ricostruendo la storia.
L’inizio della crisi. Tutto comincia nel 1994 quando, dichiarato lo “stato di emergenza”, il governo nomina il primo commissario che ha il compito di tamponare la crisi. È solo nel 1996 che i poteri si ampliano e passano al presidente della Regione che in quel momento in Campania è Antonio Rastrelli. Ed è la sua amministrazione che organizza il bando di gara per appaltare la gestione di un ciclo integrato dei rifiuti. Le procedure vanno avanti con il suo successore, Andrea Losco (Udeur) e vengono concluse da Antonio Bassolino (Ds) che affida il tutto a un consorzio di ditte formato da cinque imprese associate alla Impregilo (Impregilo International, Fibe, Fibe Campania, Fisia Impianti, Gestione Napoli). Le stesse che a giugno 2007 ricevono dal gip Rosanna Saraceno l’interdizione a stipulare contratti con la pubblica amministrazione per un anno in materia di smaltimento della spazzatura e il sequestro preventivo di 753 milioni di euro.
I pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo cominciano a indagare nel 2002 dopo una denuncia del senatore di Rifondazione comunista Tommaso Sodano. Cinque anni dopo arriva il primo provvedimento del gip con conclusioni durissime per le imprese, ma non solo. Per il magistrato le aziende «con artifici e raggiri» hanno eluso i contratti, falsificato i risultati delle analisi, bloccato gli impianti per far crescere l’emergenza. Il tutto «con la complicità, se non la connivenza, di chi aveva l’obbligo di intervenire». Non a caso le indagini, dalle quali si aspettano nuovi sviluppi, hanno coinvolto il governatore Bassolino e molti dirigenti della struttura commissariale.
Con l’alibi dell’emergenza. Nel 2000, infatti, il presidente della Regione firma con il consorzio un contratto, che non sarà mai rispettato dalle ditte né disdetto dal commissariato che, invece, sostiene la tesi dell’emergenza infinita inventata dall’impresa per giustificare le proprie inadempienze. Impregilo e soci avrebbero dovuto costruire sette impianti di produzione di Cdr, ovvero di combustibile derivato dai rifiuti (e lo hanno fatto), edificare due impianti per la termovalorizzazione del combustibile (ne hanno realizzato uno solo, quello contestatissimo di Acerra), gestire tutti i rifiuti prodotti in Campania. La spazzatura doveva diventare materiale da bruciare (32%), compost destinato al recupero ambientale (33%), scarti ferrosi (3%) e solo il 14% doveva finire in discarica. Sette anni dopo non solo la Campania brulica di buche piene d’immondizia, ma l’emergenza è diventata un enigma che non trova soluzione.
Anche perché quella che esce dagli impianti di Cdr è spazzatura triturata. Tanto che il prefetto Pansa (che ha preso il posto del precedente commissario, il capo della protezione civile Guido Bertolaso) ha deciso di far trasportare parte dei rifiuti direttamente in discarica.
Tutti le trasportano, nessuno le brucia. Le ecoballe, lo dimostrano le indagini, di eco non hanno proprio nulla. Si tratta, invece, di immondizia chiusa in buste di plastica che non sarà mai possibile bruciare nel rispetto delle norme attuali. Il materiale prodotto dai Cdr doveva avere per contratto al massimo il 15% di umidità. Il decreto Ronchi prevede una percentuale del 25%. La spazzatura che esce dagli inceneritori supera il 30. E la quantità di rifiuti che esce dai sette inceneritori è maggiore di quella in entrata a causa degli additivi. Un disastro.
In compenso solo per ospitare le cosiddette ecoballe bisogna occupare 40mila metri quadrati ogni mese. E così il commissariato ha dilapidato milioni di euro per inviare le balle al nord o addirittura all’estero, ma nessuno le ha volute perché bruciarle è impossibile. Eppure il contratto prevedeva, come ricorda il gip Saraceno «l’obbligo di assicurare, nelle more della realizzazione degli impianti di termovalorizzazione, il recupero energetico mediante conferimento del Cdr in impianti esistenti». Insomma, in attesa di costruire l’impianto di Acerra il cartello Impregilo avrebbero dovuto smaltire le ecoballe a proprie spese, ma nessuno ha preteso il rispetto di questa clausola e la spazzatura impacchettata è diventata lo scoglio che fa naufragare ogni speranza di superare la crisi. Non basta. Il subappalto del trasporto di materiali prodotti dagli impianti era vietato, ma solo sulla carta. Le numerose emergenze hanno fatto proliferare le deroghe e il servizio è stato appaltato a una partecipata dei Comuni dell’area Nord (Impregeco), che non avendo, però, i mezzi necessari lo ha a sua volta subappaltato a una miriade di padroncini. E così davanti agli inceneritori restano per ore, ma a volte anche per giorni, camionisti pagati in nero.
Impianti fermi? È tutto programmato. A costituire l’inferno in cui si dibattono i napoletani hanno, sempre secondo i magistrati, collaborato i responsabili del commissariato. Sono stati loro a non vedere (o a non voler vedere) che le apparecchiature montate nei Cdr erano diverse da quelle progettate, che ai rifiuti veniva aggiunta plastica per renderli più secchi, che le analisi sui prodotti venivano falsificate. Tutto in nome dell’emergenza. Tanto che il sub-commissario Raffaele Vanoli nel 2002 in previsione dell’estate dispone un prolungamento dell’orario di apertura degli impianti e decide che le verifiche sul Cdr prodotto siano spostate al momento di incenerire le balle. Si domandano i giudici: come faceva Vanoli a sapere che i cumuli di rifiuti per le strade sarebbero cresciuti? Una risposta viene dalle intercettazioni sulle linee dei dipendenti della Fibe. Scrive Rosanna Saraceno nella sua ordinanza: «Dalle intercettazioni emerge che il fermo degli impianti e il blocco nella ricezione dei rifiuti era programmato e attuato quale strumento di pressione verso la struttura commissariale». Tra gennaio e giugno del 2007 l’inceneritore di Caivano si è bloccato 30 volte, venti perché non c’era possibilità di sversare i rifiuti, dieci per incidenti vari.
Intanto c’è chi, con i rifiuti, si ingrassa. L’emergenza, poi, giustifica fitti e subappalti senza gare: e i costi lievitano. Così finisce che la Campania sommersa dalla spazzatura paghi la tassa sui rifiuti più cara d’Italia. Né c’è da meravigliarsi visto che, tanto per fare un esempio, nei diciotto consorzi di bacino della regione sono stati assunti 2300 ex Lsu (lavoratori socialmente utili, ndr.) che dovevano lavorare alla differenziata mai decollata e che quindi hanno fatto poco e niente, ma sono stati sempre pagati costando circa 55 milioni di euro all’anno. E molti sono stati assunti perché iscritti in liste di disoccupazione compilate grazie a un accordo trasversale tra le forze politiche, come sostengono i giudici che hanno indagato su molti leader dei senza lavoro. Ben 367 di questi lavoratori fantasma dipendono dal bacino 5 che però non è mai stato costituito. E l’Asia, la società mista che raccoglie l’immondizia a Napoli, lavora senza aver mai firmato un contratto di servizi e subappalta la raccolta del centro città ad altre due società. Non va meglio in provincia dove molti Comuni sono stati sciolti (tra questi Crispano, Casoria, Tufino, Pozzuoli, Melito) per aver affidato il servizio di nettezza urbana a società ritenute dal Gia (Gruppo interforze antimafia) vicine alla Camorra. Il commissario di governo a Casoria ha dovuto azzerare i vertici della partecipata del Comune dopo l’informativa della prefettura che parla di possibili ingerenze della criminalità organizzata. Anche la Pomigliano Ambiente nel giugno 2006 è stata interdetta dal prefetto perché sospettata di servirsi di una società di servizi accusata di collusioni con associazioni camorristiche, ma a novembre il Tar ha accolto il ricorso della società, il provvedimento di interdizione è stato revocato e l’azienda ha ripreso l’attività come molte altre imprese finite nel mirino della prefettura e “riabilitate” dalla giustizia amministrativa. Ad aprile, però, la Dda ha aperto una nuova inchiesta. Il pubblico ministero Maria Antonietta Troncone indaga su una serie di lavori appaltati con il criterio della somma urgenza.
Favori a parenti e “amici”. Del resto, secondo la commissione parlamentare d’indagine sul ciclo dei rifiuti guidata dal senatore Roberto Barbieri (Gruppo misto), la stessa struttura commissariale non è stata impermeabile alla Camorra: «Gli elementi informativi assunti durante le audizioni, soprattutto quelle dei magistrati della procura della Repubblica di Napoli, nonché la documentazione acquisita con riferimento alle indagini che hanno interessato la struttura commissariale – è scritto nella relazione sulla Campania – hanno rappresentato un quadro nel quale la criminalità organizzata, soprattutto nella sua articolata dimensione imprenditoriale, ha assunto un ruolo che desta preoccupazione». Una preoccupazione più che fondata se si considera che a maggio è stato arrestato il sub-commissario Claudio De Biasio: insieme a Giuseppe Valente, presidente del Ce4 (in quota Forza Italia), fino al commissariamento del consorzio, avrebbe favorito imprese legate alla malavita. I due, secondo i pm della Dda di Napoli, Raffaele Cantone e Alessandro Milita, avrebbero favorito le ditte dei fratelli Sergio e Michele Orsi a loro volta finiti in manette e indicati da numerosi pentiti come vicini al clan dei Casalesi. Con queste imprese il consorzio di bacino ha costituito una società mista, la Eco 4, incaricata della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Alla Eco 4 non è stata concessa la certificazione antimafia perché l’amministratore delegato, Sergio Orsi, è ritenuto vicino ai clan. I giudici hanno ricostruito la vicenda passo passo a cominciare dal bando di gara che privilegiava le società formate da giovani e da donne. Una clausola che ha permesso agli Orsi di spiazzare l’altra impresa che aspirava all’appalto. Poco prima del bando, infatti, è stata formata una società, la Flora ambiente, amministrata dall’allora ventunenne Elisa Flora, figlia di Sergio Orsi. L’impresa, che non aveva alcuna attrezzatura, creò un’associazione temporanea con aziende che avevano, invece, i mezzi per operare e riuscì a vincere la gara e ad aggiudicarsi il servizio guadagnando (illecitamente secondo i giudici) più di dieci milioni di euro, nove solo vendendo al commissario un pacchetto azionario a un prezzo enormemente superiore al valore reale. Nell’inchiesta entra anche il camorrista Augusto La Torre. È lui a raccontare ai giudici di aver imposto ai fratelli Orsi una tangente di 15 mila euro al mese e di aver concordato la cifra grazie al comune amico Francesco Bidognetti, capo dell’omonimo clan.
Un impero all’ombra dei clan. Ma i fratelli non sono amici solo dei malavitosi. Nella loro agenda figura anche Angelo Brancaccio, dei quali erano anche compagni di sezione. I due, infatti, erano iscritti alla sezione dei Ds di Orta di Atella, paese di cui Brancaccio era stato a lungo sindaco prima di diventare consigliere regionale e segretario della presidenza del governatore Bassolino ed essere infine accusato di estorsione, peculato e corruzione.
E non finisce qui: 37 milioni di euro sono passati dal commissariato di governo direttamente nelle tasche di Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore candidato per Forza Italia alle elezioni nel 1994 e non eletto, proprietario della Resit, la società che ha venduto al commissariato di governo le cave X e Z, discariche abusive nei dintorni di Giugliano, durante l’emergenza del 2003 (cfr. «Narcomafie» n.2/06). Tre anni dopo, nel gennaio del 2006, Chianese finisce in galera. Pesantissima l’accusa: estorsione aggravata e continuata, concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i magistrati il suo impero economico sarebbe cresciuto all’ombra del clan dei Casalesi. I pm antimafia Raffaele Marino, Alessandro Milita e Giuseppe Narducci chiesero anche l’arresto dell’ex sub commissario per l’emergenza rifiuti, Giulio Facchi, ma il gip non lo concesse per mancanza di esigenze cautelari (al momento della decisione non era più sub-commissario). La cosa sconcertante è che il commissario aveva stabilito rapporti con Chianese ben sapendo che era già stato al centro di numerose inchieste giudiziarie.
In questa situazione non c’è da meravigliarsi se in Campania ci sono, secondo Legambiente, 225 discariche abusive e la criminalità organizzata continua a incrementare i propri profitti gestendo un giro di affari che tocca i 23 miliardi di euro all’anno. E i cumuli di sacchetti per le strade della Regione continuano a crescere.