sabato 4 agosto 2012

"Pussy Riot", la punk band che spacca in due la Russia. - Mark Franchetti*



Oggi inizia il processo contro le tre ragazze che dal palco attaccarono il presidente Putin.

MOSCA
In un tribunale di Mosca comincia oggi uno dei più attesi processi degli ultimi tempi. Pochi casi legali hanno tanto diviso la società russa e allo stesso tempo rivelato così tanto sullo stato del Paese.

Sul banco degli imputati ci sono tre giovani donne, Maria Alyokhina, Nadezhda Tolokonnikova ed Ekaterina Samutsevitch. Fanno parte di Pussy Riot, una punk band d’opposizione tutta al femminile che fino all’anno scorso era praticamente sconosciuta, ma ora è diventata il gruppo musicale più famoso della Russia.

Le tre giovani donne, due delle quali sono madri di bambini piccoli, sono in prigione da cinque mesi. Sono state arrestate dopo che le Pussy Riot hanno messo in scena una performance molto controversa all’interno della cattedrale di Cristo Salvatore, la più grande chiesa ortodossa della Russia, dove il presidente russo Vladimir Putin assiste alle messe di Natale e di Pasqua. Un filmato dell’evento mostra quattro componenti della band, volti coperti da passamontagna a colori vivaci, che ballano e cantano presso l’altare della chiesa mentre gli addetti della chiesa e della sicurezza, choccati, cercano di fermarle.

La «preghiera punk» della band era diretta contro Putin e gli stretti legami politici della Chiesa ortodossa con il Cremlino. «Il capo del Kgb», un riferimento alla carriera di Putin nella polizia segreta sovietica, «è il loro santo capo, conduce i manifestanti in carcere in convoglio», recita uno dei testi cantati dalla band. «O Madre di Dio», canta il coro delle ragazze in un appello alla Vergine Maria, «sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin, sbarazzaci di Putin». Le tre ragazze sono imputate per atti di teppismo. Se condannate, un verdetto atteso da molti, rischiano fino a sette anni di carcere, anche se la maggior parte degli esperti legali concorda sul fatto che non abbiano violato alcuna legge. Ma tutte le richieste per il loro rilascio su cauzione sono state respinte.

Il caso ha scatenato aspre dispute sulla libertà di parola e sulla stretta relazione tra la Chiesa ortodossa russa e il Cremlino. Ha anche diviso l’opinione pubblica: da una parte le richieste di clemenza, dall’altra di severe punizioni. Molti fedeli, pur condannando la prodezza davanti all’altare, ritengono che le tre donne dovrebbero essere liberate. Altri, come il Patriarca Kyrill, il capo della Chiesa che, prima delle elezioni presidenziali aveva definito i 12 anni al potere di Putin come «un miracolo divino», hanno dimostrato poca pietà. Kyrill ha etichettato la prodezza delle Pussy Riot come un sacrilegio e severamente criticato i fedeli che hanno invocato il perdono. «Il mio cuore si spezza per l’amarezza pensando che tra queste persone c’è chi si definisce ortodosso», ha detto il Patriarca.

Il Cremlino sembra determinato a fare delle ragazze un caso esemplare. Gli appelli di alcune tra le celebrità più famose della Russia, inclusi alcuni sostenitori di Putin, finora sono caduti nel vuoto. Nessun altro caso ha polarizzato così duramente l’opinione pubblica russa, come quello delle Pussy Riot. C’è chi pensa che dovrebbero bruciare all’inferno e chi le vede come vittime di uno stato repressivo. Sconosciute pesino in patria fino pochi mesi fa, grazie al processo le Pussy Riot ora stanno diventando famose anche in America. In vista del processo di oggi una campagna d’alto profilo per liberarle sta ottenendo il sostegno di alcune delle più famose popstar del mondo. La settimana scorsa Sting, alla vigilia di due concerti in Russia, ha dato il suo sostegno alla condanna di Amnesty International per la detenzione delle ragazze: «È spaventoso, le musiciste di Pussy Riot rischiano pene detentive fino a sette anni di carcere. Il dissenso è un diritto legittimo e fondamentale in ogni democrazia e i politici moderni devono accettarlo e tollerarlo. Il senso delle proporzioni - e dell’umorismo - è indice di forza, non un segno di debolezza. Spero che le autorità russe lasceranno completamente cadere queste false accuse e permetteranno alle donne, a queste artiste, di tornare alla loro vita e ai loro figli». All’inizio del mese i Red Hot Chili Peppers hanno tenuto un concerto in Russia indossando T-shirt che chiedevano la libertà per le Pussy Riot. Anche la band britannica Franz Ferdinand ha espresso sostegno per la band punk di protesta, i cui membri salgono sempre sul palco con passamontagna colorati.

Gli avvocati delle tre ragazze - che respingono le accuse - vogliono chiedere aiuto a Madonna, che il mese prossimo terrà due concerti in Russia. «Lei potrebbe attirare l’attenzione di persone molto potenti a livello internazionale che potrebbero sollevare la questione con le autorità russe», ha dichiarato Mark Feigin, uno degli avvocati delle Pussy Riot. L’icona del pop americano non si è mai tirata indietro nelle critiche alle autorità russe, promettendo in anticipo di denunciare una legge anti-gay a rischio di arresto durante il suo prossimo concerto a San Pietroburgo.

Feigin dice che Anthony Kiedis dei Red Hot Chili Peppers aveva già discusso il caso con Madonna, e ha anche scritto a Bono degli U2 sulla sorte delle ragazze. «Quello che hanno fatto le ragazze è stato stupido e provocatorio», ha detto uno dei fan delle Pussy Riot. «Ma la reazione dello Stato è incredibile. A giudicare dal modo draconiano in cui sono trattate si potrebbe pensare che il Cremlino ha un intero reparto che funziona giorno e notte per trovare il modo di sporcare l’immagine della Russia. Se volete capire quanto male stanno andando le cose in Russia guardate questo processo».

*Corrisponente da Mosca per il Sunday Times di Londra
Traduzione di Carla Reschia

Ritratto di una famiglia borghese “a disposizione ” della ‘ndrangheta. - Davide Milosa


reggio_calabria interna

Le parole del pentito Roberto Moio tratteggiano i rapporti dei fratelli Giglio, assieme al cugino magistrato, con i De Stefano-Tegano uno delle cosche più potenti. Ne emerge una fotografia inedita di quella zona grigia che sempre di più rappresenta il vero terreno di conquista della mafia.


Ritratto di una famiglia “a disposizione” della ‘ndrangheta. Gente di Reggio Calabria. Professionisti di quella buona borghesia che sempre di più si presta a far da sponda agli uomini delle cosche. Per gestire affari e per tirare volate a politici amici.
La famiglia Giglio da Reggio Calabria interpreta alla perfezione il ruolo. Almeno seguendo il racconto del penito Roberto Moio. Il verbale del 9 novembre 2010 è messo agli atti dell’inchiesta Assenzio che solo pochi giorni fa ha sollevato il velo sull’ennesima connivenza tra colletti bianchi e ‘ndrangheta. Al centro c’è la bancarotta della Vally calabria srl, società che per anni è stata leader nel settore della grande distribuzione. Poi la bancarotta, quindi l’ingresso di nuovi soci che hanno agevolato l’infiltrazione e gli interessi della cosca De Stefano. Tra gli indagati per la (sola) bancarotta c’è anche l’avvocato Mario Giglio. Un cognome, il suo, noto alle cronache reggine, ma anche a quelle milanesi. Suo fratello Vincenzo, infatti, assieme al cugino è coinvolto nell’inchiesta coordinata dal procuratore Ilda Boccassini sugli interessi della cosca Valle-Lampada.
Professionisti si diceva. E infatti. Mario Giglio è avvocato. Suo fratello è medico-chirurgo. Mentre il cugino che si chiama sempre Vincenzo Giglio di mestiere, addirittura, fa il giudice e sarà per il suo ruolo che i magistrati lo accusano di aver favorito la ‘ndrangheta, traghettando verso gli uomini dei clan notizie riservate su indagini in corso.
A Milano il medico è accusato di concorso esterno, mentre il magistrato se la dovrà vedere con un’accusa di corruzione aggravata dal metodo mafioso.
La trama è complessa. Le parole di Roberto Moio, oggi pentito, ma un tempo uomo di fiducia di un padrino di rispetto come Giovanni Tegano, aiutano a districare la matassa, lasciando sul tavolo un dato incontrovertibile: oggi la ‘ndrangheta (a Reggio Calabria come a Milano) può contare su famiglie “a disposizione”. I Giglio dunque. “Una famiglia – dice Moio- che ha fatto politica”. Alt un attimo. Conferme? Molte a scorrere l’informativa dell’inchiesta Meta (anno 2010) sui rapporti tra mafia e politica. Si legge di come buona parte degli appalti pubblici del comune di Reggio “venivano affidati alla ditta Minghetti, poiché appoggiata, in ambito comunale, dai fratelli Giglio”.
Riprendiamo. Roberto Moio: “I Giglio? Sono professionisti (…) e parecchie volte si sono portati alle elezioni”. Spiegazione: “Loro hanno avuto sempre una parte politica e di grosse conoscenze, come nostro aiuto”. Il giudice dunque scioglie la sintassi e chiede. “E’ una famiglia quindi da tramite tra le famiglie De Stefano – Tegano e soggetti politici?”. Moio conferma e aggiunge di conoscerli beni e di aver ricevuto da loro richieste di voti “per loro e per altre persone”. In cambio i De Stefano-Tegano facevano affidamento sui loro favori.
Mafia, politica e sanità. Inutile girarci attorno. Il copione è questo. Mario Giglio, ad esempio, vanta, nel suo curriculum, un ruolo di capo-struttura nello staff del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno. “Salvo passare – annotano i magistrati – subito dopo l’omicidio (di Fortugno il 16 ottobre 2005) a stringere accordi con l’acerrimo nemico elettorale di Fortugno, Domenico Crea, successivamente arrestato e poi condannato all’esito del primo grado di giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa”. Nome dell’inchiesta: Onorata sanità.
E di interessi sulla sanità, si alimenta l’inchiesta milanese a carico dei Lampada. Sì perché, sostengono i pm, il giudice Giglio per dare seguito alle richieste su informazioni riservate, chiede un ruolo importante per la moglie Alessandra Sarlo. La signora, infatti, sarà promossa alla direzione dell’Asl di Vibo Valentia. Uno spostamento finito sotto la lente dei magistrati di Catanzaro che hanno iscritto sul registro degli indagati (accusa di abuso d’ufficio) il governatore Giuseppe Scopelliti e un suo assessore
Nella famiglia Giglio, dunque, la politica è di casa. E così anche Vincenzo, il medico, oltre a intrattenere inquietanti rapporti con i servizi segreti, tenta la scalata elettorale e per farlo si appoggia a Giulio Giuseppe Lampada, mente finanziaria, sostengono i pm milanesi, della cosca Condello. Lampada sta a Milano e sotto la Madonnina Vincenzo Giglio ci viene spesso e volentieri. Obiettivo: consolidare i rapporti con i Lampada. Il motivo lo si scopre nel febbraio 2008 (a pochi mesi dalle elezioni politiche). Il medico Giglio, infatti, sogna una candidatura nel movimento politico (oggi sciolto) de La Rosa Bianca fondata da Bruno Tabacci e Mario Baccini, all’epoca fuoriusciti dall’Udc di Casini. Per questo lo stesso Lampada in quel periodo apparecchia incontri con politici di rilievo anche governativo. E se Giglio sogna, Lampada ci spera e al telefona confida: “Rifletti un attimo ma se per puro caso questi signori calcolano che devono prendere un quattro e questo terzo polo prende il dieci Enzo Giglio diventa deputato a Roma”. In cambio i due fratelli Giglio, nel giugno 2009, si daranno da fare per supportare la candidature a consigliere comunale nel comune di Cologno Monzese di Leonardo Valle.
Ma naturalmente l’appoggio politico ha un prezzo. Spiega Roberto Moio: “La famiglia Giglio è a disposizione dei Tegano De Stefano”. Ribadisce: “Con noi comunque sono state sempre delle persone a disposizione”. Insomma gente vicina alla ‘ndrangheta. “E del resto non l’hanno mai toccati a loro, bruciato macchine, messo bombe, mai!”. Perché i Giglio “erano gente sempre di un certo rispetto. E credo pure, anzi, ne sono convinto, c’era un’amicizia particolare pure con i De Stefano”.
Insomma, per la prima volta dalle carte giudiziarie emerge netto, chiaro e inquietante il ritratto (con ruoli, oneri e onori) di una famiglia della buona borghesia a disposizione di una delle più potenti cosche della ‘ndrangheta.
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Jessica Rossi quinto oro per l'Italia.




(AGI) - Londra, 4 ago. - L'azzurra Jessica Rossi regala un altro oro all'Italia alle Olimpiadi di Londra: quello del tiro a volo, specialita' trap (o fossa olimpica). L'azzurra, appena 20 anni, originaria di Crevalcore, si e' rivelata un cecchino infallibile, lasciandosi dietro le altre cinque finaliste: 99 colpi centrati su 100. L'italiana ha anche realizzato il nuovo primato di colpi a segno in una finale olimpica (il precedente era fermo a 91).


http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201208041926-ipp-rt10161-i_miei_99_centri_per_l_emilia_jessica_rossi_quinto_oro_italia

La supercazzola presidenziale. - Marco Travaglio.


Ora che il Quirinale (o l’Avvocatura dello Stato) le ha notificato in edicola, sulle pagine di Repubblica, le accuse di cui deve rispondere dinanzi alla Consulta, la Procura di Palermo può finalmente difendersi. Sempreché trovi un avvocato disposto a difenderla, mettendosi contro la Presidenza della Repubblica, il 90% del Parlamento e il 95% dei media.
In teoria il ricorso di Napolitano per il conflitto di attribuzioni è segretissimo: il portavoce della Corte ci ha informati di non poterlo diffondere nemmeno ai pm di Palermo fino al 19 settembre, quando si deciderà sull’ammissibilità. Evidentemente una delle altre due istituzioni depositarie del sacro incunabolo – Colle o Avvocatura – l’ha passato sottobanco al quotidiano di Scalfari, che l’ha giustamente pubblicato. Ora ci vorrebbe un monito del Quirinale o di Scalfari contro le fughe di notizie, il circuito mediatico-giudiziario, le violazioni del riserbo ecc., ma non arriverà visto che stavolta chi dovrebbe denunciare le distorsioni ne è l’autore. Meglio così: almeno conosciamo subito gli “elementi oggettivi di prova del non corretto uso del potere giurisdizionale”, cioè quali norme avrebbe violato la Procura di Palermo intercettando Mancino mentre parla col Presidente e non ingoiando subito il nastro. La risposta, a leggere le supercazzole pseudogiuridiche dell’Avvocatura pagata con i soldi di tutti, è disarmante: nessuna norma prevede ciò che Napolitano pretende. Quelle citate, infatti, c’entrano come i cavoli a merenda. 
L’art. 271 Cpp impone la distruzione di intercettazioni illegittime (e solo se non sono corpo di reato) o che coinvolgano un avvocato difensore o un prete confessore: qui sono legittime e non risulta che Napolitano sia avvocato o prete. 
L’art. 90 della Costituzione, con buona pace dell’Avvocatura e dei giuristi alla Pellegrino, non sancisce l’“immunità sostanziale e permanente del capo dello Stato”, ma solo l’irresponsabilità per gli atti compiuti “nell’esercizio delle sue funzioni” (per quelli fuori, è imputabile e intercettabile anche direttamente): e qui nessuno lo ritiene responsabile di nulla, tant’è che l’intercettato è Mancino. 
Non è la prima volta che l’Avvocatura si copre di ridicolo per difendere i torti del potere. Nel 2007, chiamata a sostenere il governo B. alla Corte di Lussemburgo contro Europa7, copiò intere pagine della memoria Mediaset che magnificava la legge Gasparri: la Corte, naturalmente, le diede torto. Nel 2009, sempre per spalleggiare B., sostenne la costituzionalità del lodo Alfano perché, se condannato al processo Mills, B. avrebbe dovuto dimettersi, ergo era doveroso lasciare al governo un sospetto corruttore: la Consulta spazzò via anche quelle scemenze. Ora, siccome non c’è il due senza il tre, l’Avvocatura ci riprova per difendere le sragioni del Quirinale. I delitti dei pm sarebbero tre.
1) “Aver quantomeno registrato le intercettazioni in cui era indirettamente e casualmente coinvolto il presidente” (una barzelletta, visto che non sono i pm a registrare, ma le apparecchiature d’ascolto sulle utenze di Mancino, legittimamente attivate non dai pm, ma dal gip). 
2) “Averle messe agli atti del processo” (balle: le hanno stralciate e segretate in quanto irrilevanti, in vista della loro distruzione, salvo parere contrario degli avvocati). 
3) “Ipotizzare di svolgere l’udienza stralcio per ottenerne l’acquisizione o la distruzione” (proprio come dice l’art. 269 Cpp, in omaggio al principio costituzionale del contraddittorio fra le parti). 
Per l’angolo del buonumore, sentite quest’altra: “Le conversazioni cui partecipa il Presidente sono da considerarsi assolutamente vietate” (forse l’Avvocatura voleva dire “le intercettazioni”: se fossero vietate le conversazioni, dovrebbe prendersela col Presidente che conversa, non con chi lo ascolta). Ma, quando c’è di mezzo il nuovo Re Sole, il diritto diventa elastico come la pelle di certe parti del corpo: a volte si allunga, a volte si ritira.

Un fax a B: “Ti rompo il c…”, così Lavitola ricattava il Cavaliere. - Marco Lillo e Giuseppe Lo Bianco


berlusconi_lavitola interna

Arrestato il “mediatore” Pintabona. A giugno, intercettato sulle escort fornite da Tarantini, diceva: “Giochiamo la partita a briscola con il nano maggiore”. Secondo i pm, Valterino voleva 5 milioni di euro. Tra gli indagati dell'inchiesta compare anche Sammarco uno dei legale dell'ex presidente del Consiglio.
“Torno e ti spacco il culo”, scrive Valter Lavitola a Berlusconi sotto il biglietto di ritorno per l’Italia mostrato all’avvocato Gennaro Fredella. “Dobbiamo parlare con il nano maggiore – gli fa eco Carmelo Pintabona – una volta che lui è fuori dobbiamo sederci a tavola per giocare una briscola, ed è una briscola che perde di sicuro”. Una briscola da cinque milioni di euro, il prezzo dell’estorsione costata ieri un nuovo ordine di custodia cautelare per l’ex direttore de l’Avanti!, già detenuto. Con la stessa accusa è finito in carcere Carmelo Pintabona, faccendiere siciliano con interessi in Argentina legato all’Mpa di Raffaele Lombardo, latore delle richieste estorsive.
Nell’indagine sono coinvolti anche l’avvocato Alessandro Sammarco, pronto a volare in Argentina da Lavitola per interrogarlo nell’interesse di Berlusconi (indagato per induzione alle dichiarazioni mendaci), l’avvocato di Lavitola Eleonora Moiraghi e un amico siciliano di Pintabona, Francesco Altomare. Grazie alle testimonianze della sorella di Lavitola, Maria che ha riferito parole della compagna del fratello, Neire Cassia Pepe Gomez, e numerose intercettazioni telefoniche (tra cui una telefonata-confessione di Pintabona) i pm napoletani Henry Woodcook e Vincenzo Piscitelli hanno ricostruito tutte le tappe della richiesta di cinque milioni di euro partita con una lettera battuta al computer nella casa di Lavitola a Panama, e poi inviata ad una casella di posta elettronica della quale entrambi possedevano la password. I due magistrati sono piombati ieri a Palermo per l’arresto di Pintabona e in mattinata hanno incontrato il procuratore aggiunto Antonio Ingroia, con il quale hanno avuto uno scambio di informazioni utili alle rispettive inchieste, entrambe per estorsione nei confronti dell’ex premier. Convocato il 26 luglio scorso, Berlusconi ha disertato anche l’appuntamento napoletano.
La sorella Maria e le richieste di soldi
È Maria Lavitola a rivelare ai pm un incontro nel novembre scorso a Roma, alla fermata della metro Anagnina, con Neire Cassia Pepe Gomez, appena giunta dal sudamerica: “Con la Neire andammo nello studio dell’avvocato Fredella, che mi disse che mio fratello Valter aveva spedito una mail o un fax all’on. Berlusconi con il quale mostrava un biglietto aereo di ritorno in Italia con sotto scritto: “Torno e ti spacco il culo’’. Fredella non è d’accordo, considera il suo cliente ‘pazzo’ e rivela a sua volta a Maria Lavitola di avere incontrato l’avvocato di Berlusconi, Alessandro Sammarco.
I problemi del legale
“Mi disse che era andato nello studio della sua collega Nicla Moiraghi credendo di incontrare un investigatore privato, ma invece trovò Sammarco – rivela Maria Lavitola – il quale gli disse che si sarebbe recato egli stesso in Argentina per incontrare Valter ed esporgli i termini dell’accordo che prevedeva, tra l’altro, la garanzia per mio fratello di un’adeguata difesa. Gli disse poi che la possibilità di offrire la salvezza a Valter, perché la salvezza di Valter era la salvezza del suo cliente”.
Italiani d’Argentina
Sammarco appare determinato a partire e in effetti vengono spesi seimila euro per acquistare due biglietti Roma-Buenos Aires per il legale di Berlusconi e l’avvocato Moiraghi. La somma arriva in contanti, e per i pm è il tentativo di non lasciare tracce visibili del viaggio. Ma i due legali di Lavitola considerano l’interrogatorio di Sammarco ‘inopportuno ’ e sconsigliano il loro cliente, invece entusiasta, ad affrontarlo. “Lavitola si mostrò molto contrariato – dice Fredella – ma pretese di incontrarsi almeno con la Moiraghi”. Che, infatti, partì. Sola.
Il riscontro messo a verbale
Interrogato dai pm Fredella ha confermato sostanzialmente l’episodio, negando però di avere ascoltato quest’ultima frase. Che Alessandro Sammarco, sentito dal Fatto, nega di avere pronunciato: “È vero – dice – ho incontrato Fredella, ma era doveroso farlo dovendo sentire un suo cliente. I biglietti sono stati pagati da un’agenzia su incarico del mio cliente, non so nulla del pagamento, ma tenderei a escludere i contanti.E non ho mai parlato di salvezza di Lavitola, l’unica ad interessarmi è quella di Berlusconi”.
Il faccendiere dei due mondi
Carmelo Pintabona? “Un mio amico carissimo”, detta a verbale Lavitola, che poi prosegue nel goffo tentativo di sminuirne il ruolo di “latore dell’estorsione”. Amico, prestanome, sponsor e soprattutto socio “negli affari del pesce”, Pintabona assiste a Panama alla scrittura della lettera a Berlusconi, gli presta centomila euro, gli compra persino il biglietto di ritorno in Italia e poi “confessa” al telefono al suo amico Francesco Altomare: “Mi aveva chiesto di intermediare con il presidente” (Berlusconi, ndr), che lui chiama “nano maggiore”.
Pintabona arriva a pochi passi da Berlusconi (non si capisce se a palazzo Grazioli o ad Arcore), ma è fermato dalla polizia, che lo avverte:“Non lo sa che è reato incontrare un latitante?”. E nel-l’attesa della scarcerazione dell’amico Valter progetta la costruzione di 400 mila case in Argentina con l’appoggio della Presidente del paese sudamericano e coltiva sogni megalomani: “Io sto aspettando che Valter esca tranquillo, e quando lui uscirà, io mi siederò con Putin, con Lula, Condoleezza Rice, mi siederò con persone che questi manco se lo sognano. Valter (ndr) mi ha scritto una lettera, non a me, l’ha mandata a Caselli (Esteban, senatore eletto nel Pdl in Argentina, (ndr) e mi ha mandato molti saluti anche per altre persone…a Carmelo gli voglio tantissimo, tanto bene, me lo ha detto lui, tu mi hai salvato la vita, come ti ripago?”.
Il mercenario gentiluomo
Un Lavitola molto diverso da come lo ha descritto la sua compagna Neire Gomez nell’incontro con la sorella Maria alla fermata della Metro Anagnina.“Era tornata in Italia in segreto e mi disse che Valter stava sclerando, perché assumeva con frequenza psicofarmaci. Lo aveva sentito poco prima e le aveva detto che era in Argentina dove stava eseguendo lavori come mercenario, lavori che gli stessi argentini rifiutavano di eseguire perchè pericolosi. La Neire – continua Maria – mi disse che temeva per la propria vita perchè in passato aveva lavorato con il fratello per conto dei servizi segreti. Mi disse che per Valter la vita umana non valeva nulla e questo lo aveva dimostrato in tante circostanze anche se non si era mai spinto a commettere omicidi personalmente ma ne aveva commissionati”.
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Simpaticissimo.



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