venerdì 17 agosto 2012

Dal default a primo paese d'America in dieci anni. La storia.


La “presidenta” Cristina Fernandez

L'ARGENTINA CE L'HA FATTA! IN POCO PIU' DI 10 ANNI HA FINITO DI PAGARE IL SUO DEBITO ED E' IL PRIMO PAESE D'AMERICA PER SVILUPPO ECONOMICO ED OCCUPAZIONE. FARCELA E' POSSIBILE, MA CON LE PERSONE GIUSTE AL GOVERNO, CON LE PERSONE CHE AMANO IL PROPRIO PAESE E NON IL LORO TORNACONTO COME I NOSTRI GOVERNANTI E PARLAMENTARI.

A poco più di di
eci anni dal default, un crack del valore di oltre 100 miliardi di dollari, Buenos Aires ha onorato l’impegno preso con i detentori delle obbligazioni che in seguito a quella crisi si trasformarono in carta straccia. Con il Corralito, il nome con cui vennero etichettate le misure economiche adottate dal ministro dell’Economia Domingo Cavallo a fine 2001 per tamponare gli effetti della crisi, si cercò di porre un freno alla corsa agli sportelli congelando i conti bancari e proibendo il prelievo dai conti in dollari americani.

I risparmiatori si trovarono allora di fronte a due scelte: convertire i depositi in pesos - una valuta dal valore crollato - per accedere a quanto era rimasto dei risparmi, oppure accettare in cambio il titolo Boden 2012 in valuta Usa, un pezzo di carta che conteneva la promessa che il governo avrebbe ripagato l’ammontare in dollari nel corso dei 10 anni successivi. Il Corralito venerdì è stato definitivamente sepolto dal pagamento dell’ultima tranche del debito.

“Non è un giorno qualsiasi nella storia del calendario delle scadenze del debito pubblico”, ha detto il giorno prima il ministro dell’economia Hernan Lorenzino, ricordando che quel nome “è stato il simbolo della peggior crisi economica e sociale della quale abbiamo memoria”. Durante le celebrazioni, giovedì, del 158esimo anniversario della Borsa di Buenos Aires, anche la “presidenta” Cristina Fernandez ha voluto celebrare questa pietra tombale messa sul debito argentino: “Non ho avuto nulla a che vedere con tale passo (le misure economiche del 2001-2002, ndr), ma con il pagamento dell’ultima quota del Boden saremo più liberi”, ha affermato.

Ma se non fu l’attuale capo di Stato a decidere l’istituzione di quei titoli, sono stati lei e il defunto marito e predecessore, Nestor Kirchner, a promuovere e portare avanti la politica di ‘sdebitamento’ che ha portato l’Argentina a onorare il suo debito con i risparmiatori attraverso la ristrutturazione, con tagli del 70% del debito estero (accettata dal 96% dei possessori di bond) e l’estinzione, con le riserve nazionali, dei circa 10 miliardi di dollari dovuti all’Fmi.

Una politica che ha tirato fuori l’Argentina dalla palude dell’indebitamento facendola diventare una potenza economica in costante crescita. Il pagamento del debito, ha affermato Cristina, “ci ha assicurato una indipendenza immensa dall’attività dei mercati”. Un’esperienza che dovrebbe insegnare qualcosa ai Paesi che oggi in Europa,vivono una crisi che ricorda molto da vicino quella che portò al default di Buenos Aires. Lo ha sottolineato la stessa “presidenta”, che ha messo in guardia il Vecchio Continente: “C’è una incredibile crisi speculativa (nel mondo, ndr) come poche volte si è vista, causata da una crisi che noi conosciamo bene”.

Un fatto che “non conosce precedenti, sono fuggiti dalla Spagna capitali per 200miliardi di dollari, Francia e Germania nella terza settimana del mese hanno collocato il debito allo 0,007 a tre mesi e dopo, la settimana successiva, lo hanno portato allo 0,003 per cento (…) questo per pagare la gente, per fargli tenere i soldi nelle banche”, ha sottolineato Cristina, puntando il dito contro i colossi finanziari responsabili della crisi, quella che 11 anni fa colpì l’Argentina e quella che oggi attanaglia l’Europa. Da Buenos Aires arriva un segnale, un avvertimento all’Europa. Ma soprattutto viene un insegnamento: il modello argentino ha avuto successo, e in un contesto di crescita economica e di rafforzamento delle reti di protezione sociale, senza l’imposizione delle misure di austerity che oggi stanno invece mettendo in ginocchio i popoli europei.

www.disinformazione.it


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Mitico Vauro.



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Napolitano, la Consulta e quel silenzio sulla Costituzione. - Gustavo Zabrebelsky



Eterogenesi dei fini. Delle nostre azioni siamo, talora, noi i padroni. Ma il loro significato, nella trama di relazioni in cui siamo immersi, dipende da molte cose che, per lo più, non dipendono da noi. Sono le circostanze a dare il senso delle azioni. È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d'un tassello, anzi del perno, di tutt'intera un'operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati che operano per portare luce su ciò che, in base a sentenze definitive, possiamo considerare la "trattativa" tra uomini delle istituzioni e uomini della mafia. Sulla straordinaria importanza di queste indagini e sulla necessità che esse siano non intralciate, ma anzi incoraggiate e favorite, non c'è bisogno di dire parola, almeno per chi crede che nessuna onesta relazione sociale possa costruirsi se non a partire dalla verità dei fatti, dei nudi fatti. Tanto è grande l'esigenza di verità, quanto è scandaloso il tentativo di nasconderla.

Questa è una prima considerazione. Ma c'è dell'altro. Innanzitutto, ci sono i riflessi sulla Corte costituzionale e sulla posizione che è chiamata ad assumere. Non è dubbio che il presidente della Repubblica, come "potere dello Stato", possa intentare giudizi, per difendere le attribuzioni ch'egli ritenga insidiate da altri poteri. Ma non si può ignorare che la Corte, in questo caso, è chiamata a pronunciarsi in una causa dai caratteri eccezionali, senza precedenti. Non si tratta, come ad esempio avvenne quando il presidente Ciampi rivendicò a sé il diritto di grazia, d'una controversia sui caratteri d'un singolo potere e sulla spettanza del suo esercizio. Qui, si tratta della posizione nel sistema costituzionale del Presidente, in una controversia che lo coinvolge tanto come istituzione, quanto come persona.

Non è questione, solo, di competenze, ma anche di comportamenti. Questa circostanza, del tutto straordinaria, non consente di dire che si tratti d'una normale disputa costituzionale che attende una normale pronuncia in un normale giudizio. È un giudizio nel quale una parte getta tutto il suo peso, istituzionale e personale, che è tanto, sull'altra, l'autorità giudiziaria, il cui peso, al confronto, è poco. Quali che siano gli argomenti giuridici, realisticamente l'esito è scontato. Presidente e Corte, ciascuno per la sua parte, sono entrambi "custodi della Costituzione". Sarebbe un fatto devastante, al limite della crisi costituzionale, che la seconda desse torto al primo; che si verificasse una così acuta contraddizione proprio sul terreno di principi che sia l'uno che l'altra sono chiamati a difendere. Così, nel momento stesso in cui il ricorso è stato proposto, è stato anche già vinto. Non è una contesa ad armi pari, ma, di fatto, la richiesta d'una alleanza in vista d'una sentenza schiacciante.

A perdere sarà anche la Corte: se, per improbabile ipotesi, desse torto al Presidente, sarà accusata d'irresponsabilità; dandogli ragione, sarà accusata di cortigianeria. Il giudice costituzionale, ovviamente, è obbligato al solo diritto. Ma perché così possa essere, è lecito attendersi che gli si risparmi, per quanto possibile, d'essere coinvolto in conflitti di tal genere, non nell'interesse della tranquillità della Corte e dei suoi giudici, ma nell'interesse della tranquillità del diritto.

C'è ancora dell'altro. Sulla fondatezza di un ricorso alla Corte, chi di essa ha fatto parte è bene che si astenga dall'esprimersi. Ma, almeno alcune cose possono dirsi, riguardando il campo non dell'opinabile, ma dei dati giuridici espliciti, e quindi incontestabili. Questi dati sono esigui. Una sola norma tratta espressamente delle conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica e della loro intercettazione, con riguardo al Presidente sospeso dalla carica dopo essere stato posto sotto accusa per attentato alla Costituzione o alto tradimento.

"In ogni caso", dice la norma, l'intercettazione deve essere disposta da un tale "Comitato parlamentare" che interviene nel procedimento d'accusa con poteri simili a quelli d'un giudice istruttore. Nient'altro. Niente sulle intercettazioni fuori del procedimento d'accusa; niente sulle intercettazioni indirette o casuali (quelle riguardanti chi, non intercettato, è sorpreso a parlare con chi lo è); niente sull'utilizzabilità, sull'inutilizzabilità nei processi; niente sulla conservazione o sulla distruzione dei documenti che ne riportano i contenuti. Niente di niente.

A questo punto, si entra nel campo dell'altamente opinabile, potendosi ragionare in due modi. Primo modo: siamo di fronte a una lacuna, a un vuoto che si deve colmare e, per far ciò, si deve guardare ai principi e trarre da questi le regole che occorrono. Il presupposto di questo modo di ragionare è che si abbia a che fare con una dimenticanza o una reticenza degli autori della Costituzione, alle quali si debba ora porre rimedio. Secondo modo: siamo di fronte non a una lacuna, ma a un "consapevole silenzio" dei Costituenti, dal quale risulta la volontà di applicare al presidente della Repubblica, per tutto ciò che non è espressamente detto di diverso, le regole comuni, valide per tutti i cittadini. Il presidente della Repubblica, nel suo ricorso, ragiona nel primo modo, appellandosi al principio posto nell'art. 90 della Costituzione, secondo il quale egli, nell'esercizio delle sue funzioni, non è responsabile se non per alto tradimento e attentato alla Costituzione.

La "irresponsabilità" comporterebbe "inconoscibilità", "intoccabilità" assoluta da cui conseguirebbero, nella specie, obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e delle garanzie ordinarie del processo penale. La Corte costituzionale è chiamata ad avallare quest'interpretazione, che è una delle due: l'una e l'altra hanno dalla loro parte l'opinione di molti costituzionalisti. Le si chiede di dire che l'irresponsabilità, di cui parla la Costituzione, equivale, per l'appunto, a garanzia di intoccabilità-inconoscibilità di ciò che riguarda il presidente della Repubblica, per il fatto d'essere presidente della Repubblica.

Ma, in presenza di tanti punti interrogativi e di un'alternativa così netta, una decisione che facesse pendere la bilancia da una parte o dall'altra non sarebbe, propriamente, applicazione della Costituzione ma legislazione costituzionale in forma di sentenza costituzionale. Anzi, se si crede che il silenzio dei Costituenti sia stato consapevole, sarebbe revisione, mutamento della Costituzione. Per di più, su un punto cruciale che tocca in profondità la forma di governo, con irradiazioni ben al di là della questione specifica delle intercettazioni e con conseguenze imprevedibili sui settennati presidenziali a venire, che nessuno può sapere da chi saranno incarnati. Il ritegno del Costituente sulla presente questione non suggerisce analogo, prudente, atteggiamento in coloro che alla Costituzione si richiamano?

Coinvolgimento in una "operazione", inconvenienti per la Corte costituzionale, conseguenze di sistema sulla Costituzione: ce n'è più che abbastanza per una riconsiderazione. Signor Presidente, non si lasci fuorviare dal coro dei pubblici consensi. Una cosa è l'ufficialità, dove talora prevale la forza seduttiva di ciò che è stato definito il pericoloso "plusvalore" di chi dispone dell'autorità; un'altra cosa è l'informalità, dove più spesso si manifesta la sincerità. Le perplessità, a quanto pare, superano di gran lunga le marmoree certezze. Il suo "decreto" del 16 luglio, facendo proprie le parole di Luigi Einaudi (più monarchiche, in verità, che repubblicane), si appella a un dovere stringente: impedire che si formino "precedenti" tali da intaccare la figura presidenziale, per poterla lasciare ai successori così come la si è ricevuta dai predecessori.

Nella Repubblica, l'integrità e la continuità che importano non sono lasciti ereditari, ma caratteri impersonali delle istituzioni nel loro complesso. Col ricorso alla Corte, già è stato segnato un punto che impedirà di dire in futuro che un fatto è stato accettato come precedente, con l'acquiescenza di chi ricopre pro tempore la carica presidenziale. D'altra parte, da quel che è noto per essere stato ufficialmente dichiarato dal procuratore della Repubblica di Palermo il 27 giugno, le intercettazioni di cui si tratta sono totalmente prive di rilievo per il processo. Che cosa impedisce, allora, nello spirito della tante volte invocata "leale collaborazione", di raggiungere lo stesso fine cui, in ultimo, il conflitto mira  -  la distruzione delle intercettazioni, per la parte riguardante il presidente della Repubblica  -  attraverso il procedimento ordinario e con le garanzie di riservatezza previste per tutti? Che bisogno c'è d'un conflitto costituzionale, che si porta con sé quella pericolosa eterogenesi dei fini, di cui sopra s'è detto? Forse che i magistrati di Palermo hanno detto di rifiutarsi d'applicare lealmente la legge?


http://www.repubblica.it/politica/2012/08/17/news/napolitano_la_consulta_e_quel_silenzio_sulla_costituzione-41067801/

Un grande esponente del fare niente e guadagnare molto....



Bossi: "Io non ho bisogno di titoli".
Infatti coglione è un aggettivo.


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Politici, funzionari, manager Inchiesta bis con 13 indagati. - Guido Ruotolo


L'incontro sospetto all'interno dell'autogrill

Corruzione, la mazzetta al perito consegnata in autogrill.

Tredici indagati, per concussione e corruzione. Politici, funzionari pubblici, dirigenti Ilva, il rampollo del patron Emilio, il «ragioniere» Fabio Riva. Gli uomini della Finanza l’hanno chiamata «environment sold out», ambiente svenduto. E rende l’idea di una città disperata, sotto ricatto permanente. Da un anno la procura di Franco Sebastio ha l’esplosiva informativa dal nucleo operativo della Guardia di Finanza di Taranto. Che solo in minima parte, con tantissimi omissis, è stata depositata al Riesame, che ha confermato il sequestro degli impianti Ilva.

Sarà anche vero che l’Italsider pubblica era un «assumificio» per clientele e notabilati politici. Ma anche il privato, Emilio Riva, che ha preso l’acciaieria nel ’95, ha messo sotto tutela la città. L’ha comprata, corrotta, intimidita, blandita, come dimostra questa inchiesta con le sue chiarissime intercettazioni telefoniche e ambientali.

L’uomo nero di questa storia è Girolamo Archinà, il potente pr, pubbliche relazioni Ilva, detronizzato dal presidente dell’Ilva Ferrante appena avuta lettura degli stralci di intercettazioni depositate al Riesame. C’è una storia, che può apparire banale, ordinaria per la sua dinamica. Un autogrill, le telecamere della sicurezza che riprendono i due uomini passeggiare, con uno che consegna all’altro una busta bianca. Storia ordinaria di corruzione. Solo che uno dei due è un professor universitario, un perito nominato dal pm Mariano Buccoliero, Lorenzo Liberti, e l’altro è il grande corruttore (che agisce su mandato della proprietà) Girolamo Archinà. Sono loro, anche perché riconosciuti da una dipendente dell’autogrill in questione. Liberti era uno dei periti che doveva accertare la provenienza delle diossine che avevano avvelenato capre e pecore.

Il giorno prima di questa sequenza, Archinà chiamò il cassiere dell’Ilva, Francesco Cinieri, chiedendogli di preparare 10.000 euro («dieci per domani, se sono da cinquecento è meglio»). Ma i tagli utilizzati furono da 50 e 100 euro. «E’ tutto pronto... tra un’oretta c’è G. (l’autista, ndr) da te». «Ma devo portare la valigetta per ritirare la somma?». Cinieri: «La busta entra in tasca...».

Grande Archinà, che non delega il lavoro sporco a qualche suo sottoposto. E’ lui che consegna le buste. Che ha rapporti con sindacalisti diventati politici, politici diventati uomini delle istituzioni, pubblici funzionari e persino prelati. Sempre nella logica di fare opere di bene. In cambio, però, di non far disturbare il manovratore. Ci voleva pure l’Aia, autorizzazione integrata ambientale, con tutte le prescrizioni e un inter burocratico di sette anni.

«Per quanto riguarda la commissione Ipcc (la commissione delegata a fare l’istruttoria per l’Aia, ndr), si rileva che il Girolamo Archinà si è appositamente accordato con il dottor Palmisano, che è un funzionario della Regione Puglia incaricato di rappresentare l’ente nelle riunioni della conferenza dei servizi che si tengono presso il ministero dell’Ambiente, finalizzate a istruire la pratica per il rilascio dell’Aia. Dalle telefonate si rileva che l’intervento dell’Archinà verso il predetto Palmisano sia stato finalizzato a sensibilizzare quest’ultimo nel dare una mano all’Ilva. Emerge anche il tentativo di pilotare i lavori della commissione Ipcc a favore dell’Ilva, evidenza, questa, che ancora una volta dimostra la capacità di infiltrazione degli uomini dell’Ilva a tutti i livelli».

Era l’inviato a L’Avana, Palmisano. Ufficialmente partecipava alle riunioni per conto della Regione, in realtà, sospettano gli uomini della Finanza, curava gli interessi dell’Ilva. Un doppiogiochista, insomma. «Il fatto che la commissione debba essere pilotata e che, comunque, sia stata in un certo modo in parte avvicinata, si rileva anche dalla seguente conversazione nella quale l’avvocato Perli di Milano (legale esterno dell’Ilva) aggiorna il ragionier Fabio Riva sui rapporti avuti con l’avvocato Luigi Pelaggi, che è capo dipartimento presso il ministero dell’Ambiente. Perli gli comunica che Pelaggi gli ha anche riferito che la commissione ha accettato il 90 per cento delle loro osservazioni e la visita riguarda il 10 per cento restante. Perli aggiunge che non avranno sorprese e comunque la visita della commissione in stabilimento va un po’ pilotata».

Che presenza soffocante, l’Ilva a Taranto. Adesso il nuovo numero uno, Bruno Ferrante, promette di voltare pagina. Ma il passato rischia di tornare attualissimo. Sotto forma di un provvedimento dell’autorità giudiziaria.

Processione di S. Antonio Abate da Mele ad Acquasanta


Le altre foto: https://www.facebook.com/media/set/?set=a.4282611474104.2169325.1550850513&type=1&fb_source=message

Anche se con un po’ di ritardo, voglio porgerti gli auguri di Ferragosto che spero ed auspico avrai trascorso serenamente con le persone più care ed amate. Allego le foto della festa patronale del mio paese che coincide con la festività dell’Assunta. È tradizione secolare, quella di portare in pellegrinaggio ,la cassa lignea raffigurante S. Antonio Abate mentre contempla il corpo di San Paolo Eremita con due leoni che scavano una fossa e l’anima sorretta da angeli s’invola al cielo. La cassa votiva viene portata al santuario dell’Acquasanta, distante da Mele sei/sette km, nei tempi antichi i paesani la portavano a spalla e/o su carri trainati da cavalli,l’ opera è dello scultore genovese del tardo 600”, Anton Maria Maragliano, pesa 14 quintali ed occorrono squadre di 16 uomini cadauna, dal dopoguerra i miei compaesani si sono adeguati ai tempi, ma il giro del paese e l’arrivo al santuario lo fanno ancora alla vecchia maniera. Non ci sono più gli uomini di un tempo, operai delle cartiere e contadini, uomini abituati a faticare ed compiere sforzi , i giovani palestrati del giorno d’oggi vacillano sotto il peso della grande scultura che quegli omacci per la maggior parte di loro, trasportavano da ubriachi. Infatti dal paese al Santuario c’erano ad ogni angolo delle osterie dove era obbligatoria la tappa. Di votivo e religioso ci ho sempre visto ben poco o niente, bestemmie e linguaggio da trivio tra i portatori, tra l’altro quasi tutti comunisti iscritti al partito, le ragazze più procaci del paese che salivano sul cassone degli autocarri che trasportavano i “Cristi” ed altre amenità, ci andavo vicino per vederle salire e sbirciare sotto la gonna, però data la tenera età non mi era consentito di essere tra i “volenterosi” che le aiutavano a montare. Poi , le melanzane al forno ripiene, che ogni famiglia portava per il pranzo al sacco, ai tempi, era impensabile recarsi a mangiare in trattoria, i bambini vestiti da pellegrini con il cappello e la cappa,il bastone con canestrello dolce appeso, le bambine, “le verginelle” con il vestitino bianco e la fascia azzurra. Devo essere uno dei pochi melesi a non aver mai partecipato in forma attiva alla processione, da bambino , nostro padre allora comunista ed ateo non aveva piacere, però alla festa ci portava e ci dava il liberi tutti, le occasioni di svago non erano molte, poi da Testimone di Geova, abominio e rito pagano con risvolti satanici ! !! Ancora oggi, gli amici coetanei mi rimproverano il fatto di non essere mai andato a portare S. Antonio, rispondo che se ci vado , il santo mi prende a bastonate come del resto spiego che non vado mai in chiesa perché ho paura che mi crolli sulla testa. Rispetto la tradizione è parte della cultura del mio paese natio e del resto la festa non è della chiesa, bensì della Confraternità locale, spesso in attrito con il parroco del paese, quello precedente, gli faceva trovare la porta della chiesa chiusa e la Confraternità era costretta a chiamare un prete da fuori. Negli anni della contestazione, quando tutto si metteva in discussione, nessuno però si è permesso mai di irridere i portatori della cassa, quelli dei Cristi si, ovviamente, ma in quei di Genova lo si è sempre fatto ed esiste il detto: pescatori da canna, cacciatori da vischio e portatori di Cristo sono i tre più “abbelinati” che abbia mai visto. “Abbelineou” in genovese è sinonimo di stupido, coglione.,etc ….. i tempi comunque cambiano ed ho nostalgia delle melanzane ripiene, degli avvinazzati che alla sera facevano ballare il santo alla musica di una allegra marcetta suonata dalla banda musicale, oggi è tutto piu … asettico. Ah! Dimenticavo, a Mele, non si dice S. Antonio, lo chiamiamo “Tognu”, cioè Tonio e basta.

Giuseppe Bruzzone

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giovedì 16 agosto 2012

Lega, la prima estate di Bossi da ex capo del Carroccio. Tra feste di paese e sagre. - Alessandro Madron


bossi a ferragosto interna


Tra comizi e eventi locali organizzati dai (pochi) fedelissimi che continuano a tenerlo in altissima considerazione, il Senatùr non fa mistero delle proprie aspirazioni e assicura: “Da primo o da ultimo non importa, io continuerò ad esserci e a combattere per il partito”.

Lo hanno fatto presidente a vita, non è più il capo della Lega, ma Umberto Bossi non si è ancora dato per vinto. Anche in questi giorni sta continuando a girare per comizi e festicciole organizzate dai (pochi) fedelissimi che continuano a tenerlo in altissima considerazione. Lui non fa mistero delle proprie aspirazioni e assicura: “Da primo o da ultimo non importa, io continuerò ad esserci e a combattere per la Lega”. Ecco che allora, mentre il nuovo gotha del Carroccio si gode le ferie estive, limitandosi a qualche apparizione sui social network, lui non demorde e si dedica al partito, concedendosi un tour da pop star, con dieci date e altrettanti comizi nell’arco di quindici giorni. Decisamente troppo per un soprammobile impolverato.
Così nel primo weekend di agosto è stato ad Arcene, in provincia di Bergamo, poi a Vergiate, nella sua Varese, dove ha avuto modo di prendersela con Alessandro Manzoni. Il 9 è tornato in provincia di Bergamo a Calcio, il 10 a Pompiano, in provincia di Brescia, l’11 e il 12 in provincia di Trento, prima a Cembra e poi a Pieve Tesino. La vera sorpresa è arrivata però a Ferragosto. Per la prima volta dopo anni il Senatùr ha deciso di disertare l’appuntamento di Ponte di Legno, dove dal 1989 fino allo scorso anno è sempre andato a trascorrere qualche giorno di ferie, per partecipare alla grande festa leghista della Valle Camonica. Al suo posto hanno presenziato Roberto Cota eMatteo Salvini. Le spaccature interne al partito e l’avvento della Lega maroniana hanno portato anche a questo drastico cambio di programma.
Il vecchio capo, alla tradizionale località montana (vicina alla Lega di Maroni), quest’anno ha preferito Pontida, dove ha partecipato ad un comizio serale alla festa locale del partito. La scelta del luogo ha tutto il sapore di una sfida alla Lega 2.0 del segretario Maroni. Quest’anno, proprio a causa dei dissidi interni al partito è infatti saltato il tradizionale raduno che si tiene ogni anno sul “sacro prato” di Pontida, rimandato alla prossima primavera. Un gioco sottile, quello di Bossi, anche perché a parole, proprio ieri sera, ha ribadito la volontà di ricucire lo strappo interno: “Noi non possiamo litigare nella Lega perché vorrebbe dire aiutare Roma” e, ancora: “Non tollero che per un posto a me o a Maroni ci si metta a litigare”. In quel luogo simbolo del suo potere ormai sbiadito, Bossi ha parlato anche della legge elettorale e della crisi europea, rincorrendo il mito di un leader graffiante, senza però trovare le folle oceaniche di un tempo ad ascoltarlo ed osannarlo.
Il viaggio di Bossi continua oggi, 16 agosto, a Capriata d’Orba, in Piemonte, poi sarà il 19 ad Arcore, a due passi dalla casa dell’amico Silvio e il 20 chiude il tour de force a Sommacampagna, in provincia di Verona. Nei giorni successivi ci sarà spazio anche per una capatina alla lunga festa di Alzano Lombardo, anche se al momento l’intervento non è ancora stato programmato. Alla festa bergamasca ci saranno tutti i big del partito, compreso il segretario Roberto Maroni, che intanto fa capolino sul mondo affacciandosi da twitter o facebook, esprimendo opinioni e pareri digitati magari standosene spaparanzato al sole.
Nelle scorse ore, rilanciando l’intervista rilasciata a Repubblica, ha ribadito: “Voglio un referendum sull’Europa e sull’euro, perché le decisioni importanti devono essere prese dai popoli e non dai banchieri”. La Lega a fine agosto presenterà infatti in Cassazione “una proposta di legge di iniziativa popolare per abbinare alle politiche del 2013 un referendum consultivo nel quale i cittadini italiani possono esprimersi sull’euro”. Il leader leghista ha anche precisato che quella del suo partito “non è una visione non anti-europeista, ma neo-europeista”.