domenica 26 agosto 2012

E’ morto Neil Armstrong, il primo uomo ad andare sulla Luna.


neil armstrong interna nuova


Aveva 82 anni. Al momento dello sbarco il 20 luglio del 1969 disse: "E' un piccolo passo per un uomo, un balzo da gigante per l’umanita". Comandante della missione Apollo 11, aveva subito un intervento chirurgico di quadruplo bypass coronarico lo scorso 7 agosto.

Per lui lo sbarco era stato “un piccolo passo per un uomo e un balzo da gigante per l’umanita”. A 43 anni dalla missione Apollo 11, è scomparso all’età di 82 anni Neil Armstrong, l’astronauta che il 20 luglio del 1969 mise piede per primo sulla Luna. E’ morto a 18 giorni da un intervento chirurgico di quadruplo bypass coronarico a cui si era sottoposto lo scorso 7 agosto, due giorni dopo il suo compleanno. Alla vigilia dell’operazione, un esame medico aveva rivelato la parziale occlusione nelle arterie che portano il sangue il cuore.
“Se la missione chiamata Apollo 11 avrà successo, l’uomo realizzerà il sogno, inseguito a lungo, di camminare su un altro corpo celeste”, aveva detto la Nasa nel ’69 per introdurre la prima missione spaziale che avrebbe portato l’uomo sulla Luna. L’aveva presentata ai giornalisti arrivati a Cape Canaveral (Florida) per seguire il lancio del Saturno V che portava nello spazio Armstrong, il comandante della missione, il pilota del modulo di comando Michael Collins e il pilota del modulo lunare, Edwin Aldrin, più noto come Buzz. Armstrong e Aldrin erano gli astronauti destinati a camminare sulla Luna. Con i suoi 110 metri di altezza, un diametro di dieci metri e pesante oltre 2.000 tonnellate, il Saturno V era un gigante silenzioso sulla rampa di lancio 39A del Kennedy Space Center; la navetta Apollo con i tre uomini era rannicchiata sulla sommità.
Era il simbolo di un’America decisa ad accaparrarsi il primato più importante della sua più che decennale corsa allo spazio contro l’Unione Sovietica. Nel 1957 l’Urss aveva stupito il mondo con il “bip” del primo satellite artificiale, lo Sputnik, l’anno successivo aveva spedito il primo essere vivente nello spazio, con la cagnetta Laika a bordo dello Sputnik 2. Ed erano sovietiche anche le sonde Luna lanciate a partire dal 1959 per studiare la superficie della Luna e il suo lato nascosto. IlSaturno V, con la navetta Apollo e il suo equipaggio, vennero lanciati in perfetto orario mercoledì 16 luglio 1969 e arrivarono nell’orbita lunare sabato 19 luglio. Domenica 20, mentre Collins restava sul modulo di comando, chiamato Columbia, Armstrong e Aldrin entravano nel modulo lunare, chiamato Aquila.
Alla 13esima orbita lunare i due moduli si separarono e Aquila accese i motori per cominciare la discesa. In tutto il mondo oltre 500 milioni di persone seguivano dalle tv ogni fase della missione col fiato sospeso. Mentre il modulo Aquila sorvolava la zona rocciosa del Mare della Tranquillità, Armstrong decise di passare ai comandi manuali e alle 22.17 (ora italiana) comunicò al centro di controllo: “Aquila è atterrata”. Poi il comandante rinunciò alle quattro ore di riposo previste, aprì il portello e scese dalla scaletta. Arrivato all’ultimo gradino disse: “E’ un piccolo passo per un uomo, un balzo da gigante per l’umanità”. A distanza di 18 minuti scese Aldrin. “Quell’esperienza è stata così breve e abbiamo lavorato a un ritmo così serrato che quasi tutti i miei ricordi li devo alle foto e ai video”, dirà Aldrin a distanza di molti anni da quell’esperienza unica.
Nelle due ore e mezza trascorse sulla Luna i due astronauti lavorarono per raccogliere 22 chilogrammi di rocce lunari, ma sono indimenticabili le immagini delle prove che i due, protetti dalle immense tute bianche e dai caschi, facevano per scoprire l’andatura ideale per spostarsi sul suolo lunare: piccoli passi, brevi corse, saltelli. Poi alzarono la bandiera americana, tenuta dispiegata da un’asta orizzontale, e lasciarono sul suolo lunare la targa con le tre firme dell’equipaggio e quella dell’allora presidente Richard Nixon: “Qui nel luglio 1969 misero per la prima volta piede sulla Luna uomini venuti dal pianeta Terra. Siamo venuti in pace per l’intera umanità”.

Dirigente Rai cade in bici, risarcito con 500mila euro. Ma continua a pedalare. - Carlo Tecce


comanducci interna nuova

Gianfranco Comanducci, che a viale Mazzini tratta i contratti con le assicurazioni, a seguito dell'incidente riscuote la cifra. Eppure qualche giorno fa, scrive il Messaggero, "sulle strade dell’Argentario e in Costa Smeralda il vicedirettore generale pedalava senza sosta".

Gianfranco Comanducci, compagno di calcetto di Cesare Previti al Circolo Canottieri Lazio, pedalava già con la squadra Rai di Letizia Moratti presidente. Tirava le fughe. E così bene che i berlusconiani l’hanno spinto quasi sino al gradino più alto: vicedirettore generale di viale Mazzini con delega ai servizi di funzionamento.
Però, Comanducci pedala davvero. È un “ciclista straordinario”, tanto per citare le modeste cronache romane. Anche un ciclista di professione può cadere a villa Borghese e alzarsi un po’ malconcio: per esempio, con una frattura a una clavicola. E poi che fa, il ciclista? Per lavoro, tratta i contratti con le assicurazioni; per il ruolo che ricopre, beneficia di polizze molto gustose. E dunque, l’anno scorso, Comanducci chiese un risarcimento. Qui potete persino avere un moto di umana compassione. Al dirigente di viale Mazzini certificano un’invalidità permanente di un certo rilievo. Qualche mese fa, il nostro sportivo incassa una liquidazione di 500mila euro. Una cifra spropositata per l’infortunio in bicicletta tra i prati romani che sormontano piazza del Popolo. Ora direte che il mezzo milione di euro può alleviare il trauma di un ciclista costretto a parcheggiare la bicicletta per sempre. E che questo racconto spigoloso potrebbe ispirare il regista di Forrest Gump. Non temete, non piangete.
Pagine “Giorno e Notte”, il Messaggero (edizione di Roma) del 22 agosto 2012: “Sulle strade dell’Argentario prima e nei giorni scorsi in Costa Smeralda, per quasi tre ore al giorno, il vicedirettore generale Comanducci pedalava senza sosta. A Porto Ercole condivide la passione per la bici con un altro grande sportivo come Matteo Marzotto. Entrambi molto allenati, si possono permettere il lusso di farsi accompagnare nelle loro uscite in Maremma da un campione come l’ex ciclista Max Lelli”. Qualcosa non torna. L’omonimo di Comanducci pedala per tre ore senza sosta? È un atleta molto allenato? Sfida un ex ciclista in Maremma, un tipo tosto che s’è fatto 14 Tour de France? Speriamo per Comanducci che non sia lo stesso Comanducci. Tanto per capire, proviamo a contattare il vicedirettore generale che, direttamente al telefono e tramite l’ufficio stampa, non smentisce e non commenta: “Privacy”.
Ora dimenticate il Comanducci ciclista e pensate al Comanducci dirigente. Quasi contemporanemente al premio bonificato da Fondiaria, la stessa compagnia disdice unilateralmente il contratto con viale Mazzini. E Comanducci, versione vicedirettore generale, deve trovare un’assicurazione per garantire le dovute coperture ai dirigenti Rai, che ricevono trattamenti ben diversi dei dipendenti o dei giornalisti. Il giochino costa a viale Mazzini il 30 per cento in più, visti i precedenti (e i casi stile Comanducci), la nuova compagnia aumenta il prezzo. Interpellato anche per chiarire questa curiosa coincidenza, l’ufficio stampa Rai fa sapere: “Come si può verificare dal bando di gara, l’andamento del rapporto premi-sinistri degli ultimi anni è stato sfavorevole per la compagnia di assicurazione”. Quanti Comanducci ci sono in Rai? Oltre il Comanducci che s’aggira per l’Argentario e la Maremma con un’invalidità permanente?
da Il Fatto Quotidiano del 25 agosto 2012

Il figlio di un capo mafia canadese sepolto in una bara d'oro.

Necrofori portano l'urna contenente il corpo di Nick Rizzuto


Il figlio del boss mafioso più potente del Canada è stato sepolto in una bara d'oro.
Con una massiccia presenza della polizia il corpo di Nick Rizzuto, figlio del capo mafia di Montreal Rizzuto Vito, si è svolta per le strade della zona Little della città Italia ieri.
Nick, era in piedi accanto a una Mercedes nera Lunedi scorso quando un uomo armato gli si avvicinò e sparare diversi colpi in lui. E 'morto sul posto e l'assassino non è ancora stato catturato. (notizia del 5 gennaio 2010)


Read more: http://www.dailymail.co.uk/news/article-1240212/Son-Canadas-supreme-Mafia-boss-carried-funeral-golden-coffin.html#ixzz24dZ1o2Fp

L'arrestato risponde al "compagno vigile": "Ricostruzione falsa". - Vincenzo Morvillo



A Napoli un militante di Rifondazione viene fermato durante una festa. Protesta per i modi usati dai poliziotti. Sul manifesto glirisponde l'agente, che è l'ex segretario del Pdci. La loro storia è diventata un caso.

Caro compagno Perna,

innanzitutto, grazie per la tua risposta e per aver deciso, sebbene non te ne corresse l'obbligo, di non startene in disparte. Ciò premesso, però, devo dire che, se alcune delle tue affermazioni le contesto sul piano soggettivo della valutazione dell'accaduto, un'altra delle tue dichiarazioni invece ha un peso giuridico ed etico che non posso e non voglio lasciare correre.
Dunque, in primo luogo tu affermi che i tuoi colleghi giunti al locale - perché chiamati, e chi lo contesta? - avrebbero chiesto con cortesia e civiltà soltanto di abbassare il volume. Mi spiace ma, come ho già detto, sin da subito l'atteggiamento assunto è stato tutt'altro che cortese e volto ad una pacifica composizione. Sono giunti con arroganza e fare inquisitorio, tanto che tutti ci siamo agitati. Hanno accusato uno dei proprietari di aver bevuto troppo e ad un altro hanno puntato un dito in faccia con fare intimidatorio.
Ti chiedo: se uno non deve guidare, non sta molestando nessuno, sta facendo festa, è compito della polizia municipale andare a valutare il suo tasso alcolico? È stato questo il modo di fare dei tuoi colleghi, vestitisi d'autorità sin dall'inizio. Ed è quando ho notato quest'atteggiamento che ho cominciato a protestare. Vibratamente, certo, ma senza quella violenza di cui tu mi accusi! Inoltre, dovreste anche mettervi d'accordo: millantavo conoscenze in alto come hanno scritto a verbale gli agenti - avrei parlato del sindaco e addirittura del comandante del corpo di polizia municipale con cui addirittura avrei detto di essere andato a pranzo!!?? - o chiedevo di essere arrestato, come dici tu?
Parli poi di normale routine. Ma la routine della municipale, a Napoli, si è tradotta troppo spesso, negli ultimi tempi, in azioni non certo pacifiche: sgomberi, scontri con precari e disoccupati, schiaffi ai giornalisti, come fece il vostro ex comandante! Ti chiedo ancora: è legittimo preoccuparsi, considerando tali precedenti e visti anche i modi bruschi assunti - secondo me, è ovvio - dai tuoi colleghi? Se si fossero comportati - come si dice anche in un commento alla mia prima testimonianza pubblicato online - con quella preparazione volta a calmare gli animi e a comporre eventuali incipienti malumori, beh allora non credo sarebbe successo nulla! E invece, si sono posti come sceriffi!
Dici però - declinando le responsabilità, e questo mi sembra non proprio corretto da parte tua, che sei un compagno - che certi comportamenti «duri» sono da imputare a scelte politiche: devo rammentarti precedenti storici inquietanti in merito a questo tipo di autoassoluzione rispetto agli ordini eseguiti? Così come, da addebitare all'indolenza degli amministratori, sarebbe l'impossibilità di far compenetrare i diritti di chi voglia - sacrosantamente aggiungo io - dormire e chi invece voglia divertirsi. Chiami dunque in causa l'amministrazione? Benissimo! E allora è la politica che dovrebbe rispondere, sia di alcune gravi scelte da stato di polizia, sia di mancanze decennali, che rischiano di far sprofondare Napoli ancora più in basso, non promovendone certo l'immagine di città turistica! Su questo, caro Luigi, siamo perfettamente d'accordo!

Dici in più, che io mi sarei fermato a quello che rappresenta la «divisa» ai miei occhi. Scusa, ma questa è un'affermazione che sa di mania di persecuzione! Ho avuto a che fare altre volte con polizia e carabinieri, mi hanno chiesto i documenti, ma non ho certo protestato come quella sera. Sarei impazzito all'improvviso? E, lo ripeto per l'ennesima volta, stando all'esame alcolemico - cui mi sono sottoposto, dietro vostra richiesta, senza batter ciglio, ma che non citi, come non lo hanno citato i colleghi davanti al magistrato, e mi chiedo perché - ero lucido, presente a me stesso e collaborativo.
In fine, affermi che al comando ero agitato e pericoloso, per voi e per me. Sappiamo entrambi che non è vero. Io ho solo detto, più volte, di voler fare una telefonata al mio avvocato e voi non mi avete consentito di farla. Secondo regolamento, questo mi è chiaro. Ma chiedo: era proprio il caso di applicare alla lettera la norma vigente, visto che non di criminale incallito trattavasi, ma di persona sicuramente in aperta contestazione col vostro operato, ma pur sempre di cittadino senza precedenti, incensurato e fino a prova contraria di persona perbene? Mi resta la sgradevole, amara sensazione, che siate voluti essere impeccabili, sul piano formale della legge, nella situazione per voi più semplice da gestire, ma umanamente meno adeguata. Per il resto, comunque, al comando me ne sono stato tranquillo, seduto su una sedia o in piedi a passeggiare nel corridoio, non rappresentando con tale comportamento, credo, alcun pericolo, né per voi né per me. Lo so io e lo sai tu.
Questo, per quanto riguarda le valutazioni soggettive.
Ora, caro compagno, una sola domanda. Come tu stesso ammetti, non ho tirato a terra nessuno. Nel fascicolo che ho visionato l'altro ieri in tribunale, in presenza del mio avvocato, c'è però un referto di due vigili cui sono stati dati 5 giorni di prognosi ciascuno per lussazione, uno al ginocchio e l'altro alla spalla. Ed è anche in base a ciò che ho preso una condanna a sei mesi. Mentono gli integerrimi colleghi o tu non hai visto ciò che è accaduto? Mi spieghi questa gravissima discrepanza?
Sta di fatto che ho patteggiato, dandovi praticamente ragione. Sono una persona perbene, lo ripeto - non c'entra nulla l'esser giornalista o responsabile cultura di Rifondazione - e voi mi avete trattato alla stregua di un furfante. Un saluto.

LUCE NEL TUNNEL? SONO GLI INCENDI. - Valentino Parlato



Non solo il professor Monti, ma anche componenti del suo attuale governo dicono, e ripetono, di vedere una luce in fondo al tunnel. Ma di quale luce si tratta? A mio parere la luce che dicono di vedere è solo quella degli incendi che stanno distruggendo un po' di boschi. Un puro fraintendimento che, sempre a mio parere, rivela puri intenti propagandistici e ignoranza o silenzio sulla portata dell'attuale crisi che non è solo italiana, ma europea e mondiale. Come non tener conto che dopo gli incoraggiamenti (forse solo a fini speculativi) delle agenzie di rating è bastata una flessione della borsa di New York a provocare un ribasso di tutte le borse?
La crisi che ci sta macinando non è roba da congiuntura ed è difficile, assai difficile, avere politiche per fronteggiarla. Non dimentichiamo che la crisi del '29 (a mio parere meno grave di quella attuale) fu contrastata con il new deal di Roosevelt e poi risolta con la seconda guerra mondiale. Ma c'è un governo che abbia oggi la forza e il coraggio di tentare un new deal? La maggioranza dei paesi (Usa compresi) è semiparalizzata dal debito e, di conseguenza (come in Italia) predica e pratica l'austerità, cioè togliere sangue a un corpo soggetto a grave emorragia. Per altro verso nessuno oggi può avere la speranza di una guerra salvatrice, anche se un po' di guerre locali possono aiutare, se ben controllate. Ma con un mondo caldo come l'attuale, bisogna avere molta paura anche delle guerre locali.
Da chi governa, e anche dai partiti, che sono in prossimità di una difficile campagna elettorale, i cittadini dovrebbero pretendere una seria analisi della crisi attuale e delle sue dimensioni e radici. In Italia, ma non solo, la produttività è in calo da un bel po' di anni: per tutti la competizione è più aspra e nell'Eurolandia anche le svalutazioni competitive (l'Italia nel passato le ha utilizzate traendone vantaggio) sono impossibili.
Questa crisi è mondiale. Per il 2013 si annuncia recessione negli Stati uniti e anche la domanda cinese, che finora ha aiutato (soprattutto gli Usa, ma non solo) dà segni di rallentamento. Anche i Bric rallentano il passo. E poi, ancora, c'è il disastro della finanza che agisce su due fronti: fino a quando si può fare denaro con il denaro senza passare per la produzione di merci perché dovrebbe esserci una ripresa della produzione e dell'occupazione? E sempre sulla finanza, come sottovalutare gli effetti disastrosi delle grandi operazioni speculative che fanno saltare banche e imprese, con danno dei risparmiatori e dei lavoratori?
Insomma, smettiamola di raccontare che si vede la luce in fondo al tunnel. Il tunnel è assai oscuro e nessuno può dire quanto sia lungo.


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sabato 25 agosto 2012

Il Colle, le procure e la Costituzione. - Gustavo Zagrebelsky


EUGENIO Scalfari, col suo scritto di domenica scorsa, mi offre l’occasione di riprendere, sul nostro giornale, alcuni punti del mio articolo “incriminato”, incriminato per avere invitato il Presidente della Repubblica a riconsiderare l’opportunità del conflitto d’attribuzioni sollevato nei confronti di uffici giudiziari di Palermo. Non nego che quello scritto, tanto più per l’autorevolezza di colui da cui proviene, mi ha toccato nel profondo.
Poiché le ragioni sono sì personali, ma anche generali, tali quindi da poter interessare chi abbia seguito la vicenda, ritorno sull’argomento. Con una necessaria, e ovvia, premessa: siamo, come accennato, nel campo dell’opportunità. I giudizi di opportunità sono sempre discutibili, perché dipendono da molte ragioni e uno dà più peso ad alcune e altri ad altre. Se la ragione fosse una sola, saremmo nel campo della necessità che non si discute. Ma l’opportunità è sempre discutibile. Dunque, affrontiamo gli argomenti, in spirito discorsivo. Qui c’è la forza e la ricchezza del nostro giornale.
Dividerò le considerazioni che seguono in una parte generale e una speciale.
La parte generale è quella che più mi mette in difficoltà. A proposito “di eterogenesi dei fini”  -  conseguenze non intenzionali di atti compiuti intenzionalmente  -  nel mio scritto, non vi sarebbe stata nessuna “eterogenesi”, perché le conseguenze  -  la strumentalizzazione in vista di un “attacco” al Capo dello Stato  -  sarebbero state non solo da me previste, ma addirittura volute. L’insinuazione è che io faccia parte d’una operazione orchestrata per “delegittimare” il Capo dello Stato. Mi permetto di dire a Scalfari che ho avvertito come una ferita (e spiegherò perché), tanto più ch’egli aggiunge di sperare che il suo dubbio sia dissipato, temendo che questa speranza “si risolva in una delusione”. Le cose non stanno così. Ho condiviso e condivido molte delle cose dette e fatte dal Capo dello Stato, come egli sa per averne ricevuto testimonianza, con calde parole ch’egli certo ricorderà, in una pubblica occasione svoltasi qualche mese fa a Cuneo. Ma su altre cose ho delle riserve. Che cosa c’è di strano? Una cosa approvi e un’altra disapprovi  -  sì, sì; no, no, il resto è opera del maligno – e lo dici in piena libertà, come si conviene in un Paese libero. Avrei dovuto tacere o dire il contrario?
Sei un ingenuo, perché avresti dovuto sapere che le tue parole sarebbero state strumentalizzate; anzi, sei un falso ingenuo  -  in sostanza, un ipocrita  -  perché lo sapevi benissimo. Qui, vorrei essere il più chiaro possibile: la linea di condotta cui mi sono ispirato non è dei falsi, ma dei veri ingenui. Il compito di chi si dedica a una professione intellettuale è d’essere, per l’appunto, un vero, consapevole e intransigente ingenuo (con l’unica riserva che dirò). Non è sempre facile. Talora lo è di più tacere, tergiversare, adeguarsi. È una questione d’integrità professionale, almeno così come la vedo. Vogliamo forse che “per opportunità” si sostengano, con parole o con silenzio, cose diverse da quelle che si pensano vere, opportune, giuste? Dove andrebbe a finire la fiducia?
C’è per me un “libro di formazione”. Non sembri una citazione fuori luogo o fuori misura. Scritto nel 1923, in circostanze più drammatiche delle attuali, contiene una lezione indimenticabile. È Il tradimento dei chierici di Julien Benda (ripubblicato da Einaudi). Non è una citazione esornativa, “da professore”. È un invito. Tratta degli uomini di pensiero che in quel tempo  -  e in tutti i tempi  -  si astennero dal prendere posizione, tacendo o dicendo cose che andavano contro le loro stesse convinzioni, e questo fecero “per opportunità”. La loro colpa non fu di avere detto cose sbagliate, ma di non avere detto le cose ch’essi stessi ritenevano giuste. Facciamo le debite proporzioni, ma riflettiamo sul corto-circuito che si verifica quando nel campo del pensiero si insinua l’idea che ciò che pensiamo, per opportunità, o anche per “responsabilità”, si possa o debba tacere.
Forse che l’attività intellettuale non deve anch’essa essere responsabile? Certo che sì. Ma responsabile verso chi o che cosa? Verso la sua natura: una natura diversa da quella politica. Forse che l’attività intellettuale non ha anch’essa una propria valenza politica? Certo che sì, ed elevatissima, ma non nel senso di chi opera nella politica, intesa come la sfera dei partiti, della competizione per il potere, della conquista del consenso: da noi, c’è difficoltà ad ammettere che non tutto è politica in questo senso. Esiste invece una funzione diversa, “ingenua”, non legata al potere e al consenso – la cui esistenza è essenziale alla vita libera della pólis. Sarebbe una deviazione, se l’attività intellettuale non tenesse fede a questa sua caratteristica, anzi non ne facesse il suo vanto. Solo così, c’è la sua utilità, la sua funzione civile. Chi ragiona diversamente, che idea ha del rapporto politica-cultura? Scrivendo queste cose, mi ritornano in mente gli anni ’50. Chi appartiene alla mia e alla precedente generazione, comprende facilmente il riferimento. Se ci sarà l’occasione potremo ritornare su quella storia fatta di contrapposte accuse di “defezione”, che nessuno e, di certo meno che mai Eugenio Scalfari, rimpiange.
Sulla parte speciale credo di muovermi con più facilità. Nel mio scritto, ho sostenuto che questo conflitto, per i suoi caratteri, non ha precedenti. Scalfari dice di no, ma poi spiega: vi sono politici e loro fiancheggiatori che, nel caso in cui la Corte dia ragione al Capo dello Stato, “palpitano” per poter accrescere i loro “attacchi eversivi” all’una e all’altro; nell’improbabile caso contrario, se al Capo dello Stato venisse dato torto, sempre gli stessi gli chiederebbero “immediate e infamanti dimissioni”. Non è questa una situazione eccezionale, drammaticamente difficile? Riflettiamoci seriamente e freddamente. La Corte è un giudice e noi pretendiamo ch’essa giudichi secondo diritto, seguendo “l’etica della convinzione” che le è propria. Ma sappiamo bene che, messa di fronte a un “fiat iustitia, pereat mundus”, nessuna Corte costituzionale indietreggerebbe nell’applicare l’”etica delle conseguenze” che, indubbiamente, interferisce con le ragioni solo giuridiche. Nella specie, il “pereat mundus” è la crisi costituzionale che sia Scalfari sia io paventiamo. Qualunque Corte costituzionale la prenderebbe in considerazione come male supremo da evitare. Per questo dicevo che l’esito del conflitto è scontato. Dire queste cose non è indebita interferenza sulla decisione della Corte, come crede Scalfari, ma è teoria della Costituzione. Leggendo che le Corti hanno il diritto d’essere protette da situazioni siffatte, per poter decidere nella “tranquillità del diritto”, non c’è da essere sconcertato “d’una scorrettezza”, come Scalfari dice d’essere, perché quella espressione viene da lontano, da un dibattito internazionale tra illustri costituzionalisti.
Scalfari, poi, mi fa dire che la Corte non avrebbe i poteri per risolvere il conflitto proposto, perché, dando ragione al Capo dello Stato, introdurrebbe un’innovazione della Costituzione. In verità, non ho detto questo ma che, per quanti danno alla parola “irresponsabilità” un significato più ristretto di “inconoscibilità” o “intoccabilità”  -  per quelli (e ce ne sono) che pensano così – l’accoglimento del ricorso sarebbe un’innovazione della Costituzione. L’interpretazione che facesse coincidere i significati, sia pure a proposito di una piccola, ma cruciale questione, avrebbe effetti di sistema difficilmente controllabili su tutto l’impianto dei poteri costituzionali, così come si è finora concepito. E, se è vero che, nel caso in questione, la Corte si trova in quel cul de sac di cui dice lo stesso Scalfari, la domanda è se non è sommamente inopportuno che ciò avvenga, e in queste circostanze. Poi, è verissimo, che la Corte dispone di tutti gli strumenti tecnici necessari per decidere come vuole (le sentenze additive e interpretative, però, di per sé non c’entrano: riguardano i giudizi sulle leggi, non i conflitti): dai principi, nel nostro caso il principio d’irresponsabilità presidenziale, si possono trarre regole specifiche per decidere i singoli casi, superando anche (ma qui non è il caso di scendere nei dettagli giuridici) contraddizioni o lacune legislative. Ma la questione non è di strumenti tecnici, ma  -  ripeto  -  di prudenza e responsabilità nel chiedere di attivarli.
L’ultima cosa che non ho detto è che il Capo dello Stato avrebbe frapposto “un insormontabile ostacolo alla ricerca della verità”. Ho detto invece che il ricorso, per effetto delle circostanze che non si controllano, è venuto ad assumere il significato d’un tassello in un disegno critico della magistratura, che finisce per indebolirne l’opera. Il che, guardando ciò che succede, mi pare incontestabile.
Sullo sfondo di tutto ciò, c’è una questione che emerge con chiarezza nelle considerazioni “pertinenti anche se non inerenti” che chiudono l’articolo di Scalfari. Esiste nel nostro Paese uno scontro aperto e, apparentemente, senza mediazioni. Da un lato, coloro che sostengono con convinzione che la magistratura (se non tutta, molte sue parti) esorbiti dai suoi poteri perché persegue il fine di sottomettere la democrazia o la politica al processo penale. Dall’altro, quelli che pensano che non si tratti affatto di questo, ma semplicemente di ampi settori del mondo politico che, avendo costruito le proprie fortune sull’illegalità, temendo l’azione giudiziaria, vogliono limitare l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. I primi parlano di “guerra” dei magistrati contro la politica, di “giustizialismo”, ora di “populismo giuridico”; i secondi, specularmente, di “guerra” dei politici contro la magistratura, di “assalto” alla giustizia. Se davvero stato di guerra ci fosse (ecco la riserva cui accennavo all’inizio), allora anche le idee dovrebbero schierarsi, perché in guerra non solo tacciono le leggi, ma anche suonano le trombe che chiamano i cervelli all’adunata. Ai primi, però, bisognerebbe dire che i secondi non sono affatto tutti “antipolitici”, come vengono definiti con una parola violenta e disonesta, che non fa che creare ostilità contro “i politici” che la pronunciano; ai secondi, occorrerebbe dire che la critica distruttiva della politica non sappiamo dove ci potrebbe portare: ma non certo verso il regno della giustizia (e della democrazia). Coloro che sognano rivalse contro i magistrati dovrebbero chiedersi da dove nasce il risentimento contro “la politica” ch’essi impersonano e dovrebbero vedere che molti loro propositi non sono che altrettanti boomerang che alimentano le fila di chi sta dall’altra parte. Credono davvero che i diversi “riequilibri”, in questo clima di scontro, siano saggi propositi e non conati controproducenti? Il ricorso del Capo dello Stato ha aperto un “conflitto” giuridico ma, inevitabilmente, ha finito per essere inglobato, come suo episodio, in questo “conflitto” politico (astuzia perversa delle parole!). L’invito a ricercare una limpida soluzione della questione nella sede processuale ordinaria e a riconsiderare quindi l’opportunità di quel conflitto, nasce da qui.

Un tour di ghetto di Detroit.



Ancora notizie horror da Detroit. Nella città-incubo della crisi, si gettano cadaveri nei fossi e nelle discariche abusive.

http://crisis.blogosfere.it/2012/08/crisi-usa-a-detroit-si-gettano-i-cadaveri-in-strada.html