martedì 15 gennaio 2013

Elezioni 2013, Casini e quei seggi offerti (ai suoi familiari). - Sara Nicoli


Pier Ferdinando Casini


Il nepotismo senza freni del leader dell'Udc: mette in lista la cognata, il "quasi" genero e il marito della sua portavoce. Un posto con "Pier" anche per il nipote di De Mita. Pd e Pdl non sono da meno: arrivano le "nuove generazioni" di parenti politici.

Prima di tutto la famiglia. Soprattutto, la sua. Quella, cioè, di Pier Ferdinando Casini. Il leader dell’Udc, divorziato e risposato, alla guida del partito che si prefigge di difendere l’identità cristiana, stavolta ha esagerato con il nepotismo. Mentre sul territorio crescono le candidature scudocrociate tramandate di padre in figlio (o nipote, o cugino, o zio) “Pier” ha messo in cima ai suoi pensieri la sua famiglia. Così, in Emilia Romagna, subito dopo il capolista alla Camera, Gian Luca Galletti, Casini ha imposto Silvia Noè, sua cognata. Ovvero moglie del fratello Federico.
Ha una lunga storia politica alle spalle, Silvia Noè: è consigliera regionale e ha un trascorso di lunga militanza, ma la sua investitura dall’alto è considerata dal gruppo Udc inopportuna. Specie dopo che Casini ha monopolizzato i posti di capolista nel Lazio, in Sicilia, Campania, Basilicata e Calabria. Il presidente Cesa l’ha presa male, al punto da minacciare le dimissioni. Questione di sostanza: più posti sono “occupati” dalla banda Casini, meno ne restano al segretario Cesa per piazzare i suoi. Casini, ovviamente, ha respinto l’assalto. “Silvia Noè – ha detto – è la più votata dell’Udc in Emilia Romagna, ha fatto il consigliere comunale e regionale, non penso che possa pagare la parentela all’inverso. Chi conosce qualcuno più votato me lo indichi”.
Ma la questione del bacino di voti vale anche per il giovane “quasi” genero? Casini non si è fatto mancare nulla. Al numero due della lista per la Camera del Friuli, ha inserito Fabrizio Anzolini, classe 1983, vicepresidente friulano dei giovani Udc. E, soprattutto, fidanzato di Maria Carolina Casini, figlia di primo letto del leader e dell’ex moglie Roberta Lubich. Familismo amorale? Neanche un po’. “Non è mio genero e non lo diventerà”, ha risposto piccato Casini: “Sono stato contestato dai giovani friulani perché l’ho messo al secondo posto in una regione dove eleggiamo un solo deputato. È un ragazzo molto intelligente e aspirava ad avere un posto che non avrà”.
Insomma, dopo le storie di clientele e guai giudiziari (ha difeso fino all’ultimo Totò Cuffaro, in carcere per favoreggiamento aggravato a Cosa nostra) adesso è la volta dei posti per la famiglia. Val la pena ricordare che, oltre ai familiari del presidente Udc, saranno anche tutelate quelle dei maggiorenti del partito. Nei collegi della Campania 2, ci saranno due rampolli di nobile lignaggio,Giuseppe De Mita, nipote di Ciriaco, e Giampiero Zinzi, figlio di Domenico, uomo di riferimento anche di Noi Sud.
Lascerà poi lo scranno di deputato il foggiano Angelo Cera, una vita a Montecitorio, per far posto al figlio Napoleone Cera, così come l’eurodeputato Gino Trematerra, che ha ottenuto la candidatura del figlio Michele Trematerra, oggi assessore regionale all’agricoltura in Regione Campania. Sempre in Campania lascerà dopo 11 legislature Teresio Delfino, ma al suo posto entrerà Giuseppe Delfino, segretario provinciale a Cuneo e marito della portavoce di Casini, Roberta De Marco. Di famiglia si parlerà anche nella prossima legislatura per via del quoziente familiare, legge “bandiera” dell’Udc, che prevede l’abbassamento delle tasse per le famiglie in cui la madre non lavora. Un’idea bocciata da economisti che spingono, come avviene in Europa, per aiutare la madre a trovar lavoro, riducendo il cuneo fiscale sul lavoro femminile. Ma Casini difende l’identità cristiana dove le donne fanno figli e stanno a casa. A meno che non siano di famiglia, come sua cognata. Anche nel Pd hanno incrementato le “nuove generazioni” di parenti politici. In Lombardia viene candidata Giulia Mancini, moglie del deputato Claudio, a Benevento la nuora di Floriano Panza,Anna Chiara Palmieri, a Napoli ricandidata la signora Anna Maria Carloni, moglie di Bassolino.
Nel Pdl, infine, candidate Chiara Geronzi, giornalista del Tg5 figlia di Cesare, Katia Gentile, vicesindaco di Cosenza, figlia dell’assessore regionale Pino e nipote del senatore Antonio Gentile, e Luca Morrione, presidente del consiglio comunale di Cosenza, figlio dell’ex deputato Ennio, oggi consigliere regionale.

Liste Pdl, Nicola Cosentino vince la faida interna. Sarà candidato in Campania come numero tre al Senato. - Alessandro De Angelis

Nicola Cosentino Stefano Caldoro

“Caldoro, con cui ho un'amicizia e verso cui nutro una profonda stima, ha una posizione personale verso Cosentino, forse giustificata credo ma non lo so, da vicende locali”. C’è un motivo se Silvio Berlusconi, nel corso della sua intervista a Omnibus, bolla come posizione personale il veto del governatore della Campania alla posizione di Cosentino. Da posizione politica, meritevole di essere discussa, a questione privata, di cui non serve parlare. Già, perché Nicola Cosentino sarà candidato. Punto.

Il suo nome è nero su bianco sulle liste campane che si chiuderanno nei prossimi giorni. Ieri sera è stata fatto il primo screening, che ha portato già a una scrematura di nomi. Ma anche a blindare i due che stanno più a cuore a Denis Verdini, vero interprete della volontà del Capo sulle liste: quello di Nicola Cosentino, detto Nick ‘o merikano e di Gigi Cesaro, noto come Giggino ‘a purpetta. Il primo, già rinviato a giudizio per aver impiegato soldi del clan dei casalesi nella costruzione di un centro commerciale in provincia di Caserta e più volte finito nel mirino dei magistrati per accuse di contiguità con la camorra. Il secondo, pure lui, indagato per i suoi rapporti con i clan. Entrambi correranno al Senato, in posizione sicura. Cosentino numero tre dopo Silvio Berlusconi e Francesco Nitto Palma, e Cesaro numero cinque.

È il risultato di una faida feroce, a colpi di veleni all’interno del Pdl campano e non solo. Che dura da settimane. Iniziò tutto, appena si è iniziato a parlare di liste e candidature, con Stefano Caldoro - governatore della Campania grazie al veto di Fini su Cosentino - che a Berlusconi ha proposto di fare il capolista al Senato. E di paracadutare altrove, o non candidare gli indagati. Un’operazione messa a punto col segretario del Pdl Angelino Alfano, che sulle liste, appena si apre uno spazio, prova a depennare qualche berlusconiano in odore di procura. Berlusconi in un primo momento prende in considerazione l’ipotesi in nome del rinnovamento. Succede però che Verdini gli spiega la trappola: Alfano – dice Verdini al Cavaliere - vuole togliere i tuoi dalle liste, che poi sono quelli che hanno i voti; così la faccia sulla sconfitta ce la metti tu, e il minuto dopo le elezioni ti addebitano la disfatta in Campania.

Ecco perché l’ex premier dà il via libera a Cosentino, indifferente alla mossa successiva di Caldoro: se Cosentino è in lista – è il suo ragionamento – io aiuto Grande Sud di Miccichè alle elezioni. Minacce, ricatti, ripicche nella regione cruciale per la battaglia del Senato. E veleni. A colpi di dossier. Già, perché la questione attorno a Cosentino, non è solo politica. È una faida. Tanto che Verdini è passato alle maniere forti, inserendo nelle liste tal Ernesto Sica, colui che per conto di Cosentino produsse dossier falsi su Caldoro, per azzoppare la sua candidatura alla Regione. Storie torbide di sesso, scandali e trans rivelatesi completamente false. Raccontano che Caldoro, che con Cosentino neanche si saluta quando si incontrano, abbia chiesto la convocazione dei garanti: “Siamo all’indecenza – è il suo ragionamento – qui le liste sono di impresentabili, neanche di in candidabili”. È possibile, dicono i ben informati che Sica alla fine non sarà in lista. Serve in questa fase, poi finita questa trattativa da western, rimarrà solo Cosentino e non i suoi sceriffi sul campo.

Sicura anche la candidatura di Amedeo Laboccetta, indagato per favoreggiamento nell'ambito delle indagini sui rapporti tra la BpM e Francesco Corallo, titolare della società Bplus Atlantis, mentre in bilico quello di Alfonso Papa, che nella scorsa legislatura ha conosciuto anche il carcere.

Storia chiusa, dunque. Si capisce anche dalle dichiarazioni di giornata dell’ex guardasigilli Nitto Palma che in Campania è anche commissario del partito: “Il garantismo non può essere a corrente alternata. Il vero problema del Pd, come ammette il suo segretario regionale e' che la candidatura di Cosentino al Senato modificherebbe gli equilibri elettorali”. Il voto, si sa, come la pecunia “non olet”. Ora si tratta solo di fare un po’ di ammuina fino a domenica, quando saranno formalmente chiuse le liste. Con la commissione dei “garanti” che esaminerà animata le carte processuali di Cosentino. E arriverà al verdetto di assoluzione completa.


http://www.huffingtonpost.it/2013/01/15/nicola-cosentino-vince-la-faida-interna-al-pdl-sara-candidato-in-campania-come-numero-tre-al-senato_n_2479345.html?utm_hp_ref=fb&src=sp&comm_ref=false

Il primo, Nick o mericano, è già rinviato a giudizio per aver impiegato soldi del clan dei casalesi nella costruzione di un centro commerciale in provincia di Caserta....mi ricorda qualcuno che ha creato la sua fortuna con un prestito elargitogli da una certa banca in odor di mafia....c'è l'analogia.

Meno armi e più pensioni. - Michele Ainis



L'emergenza finanziaria non può uccidere i diritti sociali. Che sono tutelati dalla Costituzione. E sono la precondizione dei diritti civili. Quindi a un certo punto, se mancano soldi, bisogna per forza guardare altrove.

C'è un tempo in cui si costruisce e un tempo in cui si demolisce. Vale per gli individui, vale per la società nel suo complesso. D'altronde se non liberi il terreno dagli avanzi del passato, non hai spazio per edificare il nuovo. E infatti questo è un tempo di ruspe, di bombe, di picconi. Con che bersaglio? Perforano il paesaggio dei diritti fabbricato durante il Novecento. A partire dai diritti sociali, il cui seme fu deposto nella Costituzione di Weimar del 1919, poi nel New Deal di Roosevelt lungo gli anni Trenta, infine nelle Carte costituzionali del secondo dopoguerra. Diritto all'istruzione, alla sanità gratuita, al lavoro, alla casa, alla pensione. Ormai ne restano macerie. Ma in questo caso è dubbio che ai vecchi diritti subentreranno nuove forme di protezione collettiva.

Da qui, imperiosa, la domanda: possono farlo? Possono spogliarci del nostro patrimonio di diritti, sia pure in nome dell'emergenza finanziaria? E fino a che punto può spingersi questa svestizione? Come ha osservato Habermas, i diritti sociali sono la precondizione per l'esercizio dei diritti civili. Perché soddisfano un'istanza di eguaglianza, e perché non c'è libertà senza eguaglianza. I diritti o sono di tutti o rappresentano altrettanti privilegi. Dunque amputando le garanzie in soccorso dei più deboli si menoma il concetto stesso di diritto, oltre a violare la legalità costituzionale. 

Del resto la legge serve per i deboli; i forti non ne hanno alcun vantaggio, loro si difendono da sé.
Sennonché i diritti sociali dipendono, a conti fatti, dalla borsa della spesa. Sono diritti condizionati, ossia sottoposti all'eventualità che lo Stato disponga dei quattrini per renderli effettivi. E' la formula della "riserva del possibile", coniata in Germania dalla Corte di Karlsruhe, e da lì esportata dappertutto. 


Però, attenzione: questa riserva non significa che i diritti sociali siano altrettante suppliche al sovrano. Ogni diritto racchiude infatti una pretesa, e se i governi fossero liberi d'accettarla o di respingerla, allora la pretesa - diceva Carl Schmitt - sarebbe un trucco, una finzione. Diciamo piuttosto che lo Stato può decidere sui tempi d'attuazione del diritto, sulla velocità, sulla direzione della corsa; ma gli è vietato fare retromarcia. Perché a quel punto l'attuazione (poca o molta che sia) s'incorpora con la norma costituzionale: se per esempio tagli il pronto soccorso gratis, dopo averlo erogato per decenni, offendi l'art. 32 della Costituzione.

Da qui lo statuto dei diritti sociali: sono irrevocabili, come la Consulta ha dichiarato a più riprese. Vale per il diritto alla salute (sentenza n. 992 del 1988), per quello all'abitazione (sentenza n. 19 del 1994), per il lavoro (sentenza n. 108 del 1994), per ogni altra fattispecie. Tanto che se una legge ne disponga l'abrogazione, sopprimendo - per dirne una - l'assegno di accompagnamento per gli invalidi, la Corte costituzionale provvede ad annullarla (sentenza n. 106 del 1992). 

Ma la legge non può nemmeno prosciugare l'entità della prestazione sociale, non almeno fino al punto da renderla irrisoria. Un caso esemplare investì la normativa che fissava l'indennità di disoccupazione in 800 misere lire al giorno, per giunta senza meccanismi di rivalutazione; e infatti la Consulta (sentenza n. 497 del 1988) accese il rosso del semaforo.

C'è insomma il cadavere dell'eguaglianza, sotto le ruspe che stanno sventrando i diritti sociali. Poi, certo, l'eguaglianza puoi garantirla in due modi: parificando verso l'alto oppure verso il basso. Se il tuo vicino svolge il tuo medesimo lavoro, ma con una busta paga che pesa la metà, la legge può raddoppiare il suo stipendio, o viceversa dimezzare il tuo. Tuttavia soltanto la prima alternativa è in linea con la Costituzione: perché i diritti sono progressivi, e perché una guerra fra poveri è l'ultima cosa che ci serve. Mancano i quattrini? Pazienza: vuol dire che compreremo un carro armato in meno, per ottenere una pensione in più.


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/meno-armi-e-pi%C3%A3%C2%B9-pensioni/2170922

Trattativa, Consulta: “Presidente al di fuori dei tradizionali poteri”.


Trattativa, Consulta: “Presidente al di fuori dei tradizionali poteri”


Depositate le motivazioni del verdetto della Corte Costituzionale sul conflitto. Per i magistrati le intercettazioni dovevano essere distrutte subito; "L’interesse costituzionalmente protetto non è la salvaguardia della persona del titolare della carica, ma l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano".

Distruggere nel più breve tempo le registrazioni casualmente effettuate di conversazioni telefoniche del presidente della Repubblica”. Questa la “soluzione”, indicata dalla Corte Costituzionale nelle motivazioni della sentenza per il conflitto sollevato dal Quirinale nei confronti della Procura di Palermo. I giudici della Corte costituzionale hanno depositato i motivi del verdetto sul conflitto d’attribuzione sollevato dalla presidenza della Repubblica contro la Procura di Palermo a proposito dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia. Dopo l’udienza pubblica del 4 dicembre, la Corte aveva già fatto sapere di aver accolto la posizione del Capo dello Stato, affermando che non poteva essere intercettato neppure in via indiretta e che i nastri dovranno essere distrutti in base all’art. 271 cpp, garantendo la segretezza del loro contenuto. (Clicca qui per leggere la sentenza)
Secondo i giudici la distinzione tra “intercettazioni dirette, indirette, e casuali” “non assume rilevanza”. La sentenza 1/2013 scritta dai giudici relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo si compone di 49 pagine. Il conflitto, sollevato dal Capo dello Stato, era sorto attorno ad alcune intercettazioni disposte nell’ambito dell’inchiesta stato-mafia che hanno captato indirettamente conversazioni del presidente Giorgio Napolitano durante i controlli effettuati sulle utenze dell’ex ministro Nicola Mancino. Quattro le conversazioni di Napolitano intercettate, che i pm hanno sempre definito “irrilevanti” ai fini del procedimento. Ma la Corte Costituzionale ha stabilito che “non spettava ai pm” né valutare la rilevanza della documentazione né “omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271 (sulle intercettazioni vietate, ndr), terzo comma codice procedura penale e con modalità idonee ad assicurarne la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti”.
“Presidente al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato”. Per i magistrati “alla luce della normativa costituzionale e ordinaria… la posizione del Presidente delal Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo infatti può essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario” e in questo senso la Procura di Palermo avrebbe “fatto un uso non corretto dei propri poteri”.  I giudici osservano che il presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”. La Consulta ritiene che il capo dello Stato, sia per quanto attiene alle sue attività formali che quelle informali” “deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto a una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte”. Inoltre secondo i giudici a “propalazione” del contenuto dei colloqui del Capo dello Stato “… sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo che dovrebbe sopportare le conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri”.
“Non è salvaguardia della persona ma della efficacia delle funzioni”. I giudici ricordano anche che: “L’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. È opinione pacifica che l’immunità di cui alla citata norma costituzionale sia onnicomprensiva, copra cioè i settori penale, civile, amministrativo e politico. Tuttavia la perseguibilità del Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione rende necessario che, allo scopo di accertare così gravi illeciti penali, di rilevanza non solo personale, ma istituzionale, possano essere utilizzati anche mezzi di ricerca della prova particolarmente invasivi, come le intercettazioni telefoniche. Si tratta di una limitazione logica ed implicita alla statuizione costituzionale che assoggetta il Presidente della Repubblica alla giurisdizione penale – sia pure con forme e procedimenti peculiari – in vista dell’accertamento della sua responsabilità per il compimento di uno dei suddetti reati funzionali”. Con tali norme non si tutela la persona, ma l’istituzione: “Sulla base delle considerazioni sinora esposte, si deve affermare altresì che, al fine di determinare l’ampiezza della tutela della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, non assume alcuna rilevanza la distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali, giacché l’interesse costituzionalmente protetto non è la salvaguardia della persona del titolare della carica, ma l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, fondato sulla separazione e sull’integrazione dei poteri dello Stato”.
Per i reati, fuori dal ruolo, il capo dello Stato è un cittadino come un altro. E’ ovvio e i giudici lo ricordano che per eventuali reati commessi al di fuori delle competenze anche il capo dello Stato è un cittadino come un altro: “Allo scopo di fugare ogni ulteriore equivoco sul punto, va riaffermato che il Presidente, per eventuali reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini. Ciò che invece non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente”. 
“Pubblicazione intercettazioni vulnus che va evitato”. Non solo il capo dello Stato non può essere intercettato, ma proprio in relazione alle sue funzioni, al suo ruolo le sue conversazioni non possono essere rese pubbliche e anche la rivelazione dell’esistenza è da evitare: “È chiaro dunque come, specie ai livelli di protezione assoluta che si sono riscontrati riguardo alle comunicazioni del Presidente della Repubblica, già la semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato. Se poi si arrivasse ad intraprendere iniziative processuali suscettibili di sfociare nella divulgazione dei contenuti delle stesse comunicazioni, la tutela costituzionale, di cui sinora si è trattato, sarebbe irrimediabilmente e totalmente compromessa. Dovere dei giudici – soggetti alla legge, e quindi, in primo luogo, alla Costituzione – è quello di evitare che ciò possa accadere e, quando ciò casualmente accada, di non portare ad ulteriori conseguenze la lesione involontariamente recata alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta”.
La Costituzione non è sacrificabile rispetto alla simmetria processuale. “Nelle ipotesi ora indicate – e dunque anche, a maggior ragione (stante il rango degli interessi coinvolti), in quella dell’intercettazione di colloqui presidenziali – deve ritenersi che i principi tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria processuale, peraltro non espressamente richiesta dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. Né gioverebbe richiamare, in senso contrario, la sentenza di questa Corte n. 173 del 2009, che ha stabilito la necessità dell’udienza camerale, nel contraddittorio delle parti, per procedere alla distruzione dei documenti, supporti o atti recanti dati illegalmente acquisiti inerenti a comunicazioni telefoniche o telematiche, ovvero ad informazioni illegalmente raccolte. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, si discuteva, nel caso che ha dato origine alla questione decisa con la suddetta pronuncia, di documenti che costituivano essi stessi corpo di reato, esplicitamente esclusi dalla previsione di distruzione di cui al comma 3 dell’art. 271 cod. proc. pen., palesemente inapplicabile dunque a quelle fattispecie”. 
Intercettazioni vanno distrutte, alla Procura non spettava neanche la valutazione. Per i giudici costituzionali quindi il capo dello Stato ha ragione su tutta la linea: “Le intercettazioni oggetto dell’odierno conflitto devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero. Tale controllo è garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed ordinarie fin qui citate. Ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento”. Per tutti questi motivi le toghe di Palazzo dei Marescialli concludono che “non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazionidi conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08″  e che “non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate”

Expo 2015, rapporti con Cosa nostra: sospesa azienda siciliana. - Davide Milosa


Expo 2015


La Prefettura di Milano ha emesso un'interdittiva per la Ventura spa, azienda messinese. Secondo quanto accertato dalla Direzione investigativa antimafia emergono rapporti con i potenti boss del clan di Barcellona Pozzo di Gotto.

Dopo gli allarmi, le conferme. L’Expo si ritrova in casa un’azienda sospettata di avere rapporti poco chiari con uomini legati a Cosa nostra. Risultato: la Prefettura di Milano ha emesso un’interdittiva per la Ventura spa di Furnari, paese non lontano da Barcellona Pozzo di Gotto. Mafia messinese, dunque, da sempre alimentata da un brutto impasto tra criminalità, massoneria e grigi settori della buona borghesia locale. La ditta ha un’importante sede milanese nel comune di Pieve Emanuele.
Attualmente la società siciliana fa parte di un’associazione temporanea d’impresa che si è aggiudicata l’appalto fino ad ora più goloso di Expo, vale a dire la costruzione della cosiddetta piastra sulla quale sorgeranno gli edifici dell’esposizione. Il tesoretto ammonta a 165 milioni e 130mila euro, portato a casa con un ribasso del 43%. Una percentuale pazzesca che ha fatto drizzare le antenne della procura di Milano. A tirare il gruppo è la veneta Mantovani, come venete sono la Silev e la Coveco, dopodiché c’è la romana Socostramo e quindi la Ventura, società quest’ultima iscritta alla Compagnia delle opere, il braccio finanziario del movimento cattolico Comunione liberazione.
All’azienda, seguendo una prassi ormai consolidata, verrà sospeso il certificato antimafia e dunque anche la possibilità di operare per Expo. Sospensione, si badi, che sulla carta può essere temporanea, visto che l’interdittiva può essere impugnata davanti al Tar. Così come fece la milanese Edil Bianchi, colosso del cemento al quale nel 2008 il Prefetto tolse la possibilità di operare dopo che le indagini certificarno l’affidamento di diversi subappalti a ditte calabresi in odore di ‘ndrangheta. Una decisione che fu però ribaltata dal Tribunale amministrativo che rimise in moto i camion della società. Questo per dire che, naturalmente, la scelta del Prefetto non qualifica la Ventura spa come ditta mafiosa, ma solo indica un sospetto ed evidenzia un rischio d’infiltrazione.
Un rischio che va cercato nelle carte dell’indagine Gotha tre, la maxi-operazione del Ros che nel luglio scorso ha portato in carcere dodici persone, tra cui l’avvocato Rosario Cattafi, oggi pentito e ritenuto uno degli uomini chiave per svelare finalmente i segreti della trattativa Stato-mafia. La Dia e il prefetto di Milano, però, non si sono spinti così in alto. Molto più banalmente, analizzando tutte le carte di quell’indagine, hanno incrociato più volte il nome della ditta Ventura. Ditta che, va detto, non sarà mai coinvolta penalmente in quell’operazione. A inguaiare gli imprenditori saranno,però, le dichiarazioni di alcuni testimoni verbalizzate dagli investigatori. Saranno loro, infatti, a coinvolgere la Ventura nel giro delle imprese collegate ai boss e alla grande spartizione degli appalti pubblici in tutto il Messinese.
Protagonista e puparo del gioco è Salvatore Sam Di Salvo, origini canadesi, ma curriculum (mafioso) tutto messinese. E’ lui, secondo la ricostruzione dei carabinieri, ad avere i rapporti con i Ventura. E così si scopre che nel 2003, durante una perquisizione in casa di Di Salvo i magistrati trovano una serie di certificati Soa, alcuni intestati alla ditta Ventura. Ma agli atti viene messo anche altro: e cioè la partecipazione della Ventura a un consorzio temporaneo di imprese composto da ditte tutte (o quasi) riconducibili ai Ventura.
Racconta, invece, l’imprenditore Maurizio Marchetta: “Salvatore Di Salvo mi ha invitato, tra il fine 2002 ed i primi mesi del 2003 (…) a partecipare ad una riunione presso gli uffici dell’impresa Ventura Giuseppe. A questa riunione (…) Aquilla e Di Salvo (…) dicevano di voler organizzare in maniera più attenta, cioè più precisa, le turbative delle aste. Loro volevano coinvolgere Ventura e Scirocco per le sue conoscenze di altri imprenditori siciliani e del Nord. Infatti a loro interessava raccogliere un numero maggiore di offerte per condurre la turbativa con minimi margini di errore ed aggiudicarsi con maggiore certezza gli appalti di loro interesse (…) Sia io che Pippo Ventura abbiamo espresso le nostre perplessità in ordine alla riuscita di questa organizzazione delle turbative”.
Nel dicembre 2012, un’inchiesta dell’Espresso aveva già messo in luce i rapporti opachi della Ventura con i professionisti dei clan. All’epoca, il numero del settimanale uscì il 6 dicembre, i vertici di Ventura risposero con un secco comunicato stampa dove si precisava “che non risulta coinvolgimento alcuno e ad alcun titolo di suoi soci o amministratori nelle indagini condotte dalle Procure della Repubblica evidenziate; come d’altro canto certificato da tutti gli organismi deputati allo scrutinio dei rigidi requisiti richiesti per l’aggiudicazione di gare d’appalto di tale rilevanza”. Una rigidità nel controllo, rivendicata nei giorni successivi, dalla stessa società che gestisce Expo 2015. Anche in quel caso si fece appello agli alti livelli di controllo. Conclusione: pochi giorni fa la decisione del Prefetto di escludere la Ventura per sospetti legami con i clan.

Figlio di Luigi Bisignani nominato capo ufficio stampa della Ferrari. - Antonella Beccaria


Figlio di Luigi Bisignani nominato capo ufficio stampa della Ferrari


Renato, 27 anni, laurea alla Bocconi, da sempre in corsia preferenziale nell'azienda di Maranello di cui era già business development manager. Il padre Luigi invece è alle prese con le disavventure giudiziarie, per ultimo il patteggiamento a 19 mesi per l'inchiesta sulla P4.

Le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. E infatti non accade a Renato Bisignani, figlio di Luigi, da oggi responsabile della comunicazione attività sportive della casa automobilistica Ferrari.  Per il papà Luigi, invece, le ultime disavventure giudiziarie annoverano un patteggiamento a 19 mesi per l’inchiesta sulla P4 e più recentemente (era la fine d novembre 2012), il ricorso contro la condanna è stato respinto dalla sesta sezione della corte di Cassazione e la sentenza è diventata così esecutiva. Ma il rampollo del giornalista che fu all’Ansa e ancor prima capo dell’ufficio stampa del ministro del Tesoro Gaetano Stammati procede nella sua carriera.
Nato a Roma 27 anni fa, le scuole superiori frequentate nella capitale andando alla Marymount International School e una laurea in economia internazionale alla Bocconi di Milano, Bisignani junior vanta nonostante la giovanissima età una carriera tutta nel mondo dei motori. Prima ha lavorato nel settore commerciale del team di Formula 1 della Renault e poi, nel 2010, entra nella casa di Maranello come business development manager prendendo il posto di Luca Colajanni, che da 9 anni occupava quel ruolo e che è considerato uno storico collaboratore di Luca Cordero di Montezemolo. Infine ecco che approda alla veste di responsabile della comunicazione attività sportive del Cavallino Rampante assumendo la veste di capo ufficio stampa.
Frequentatore dei salotti più esclusivi della Roma bene, oltre che di quella blasonata, il giovane manager non ha avuto guai con la giustizia. L’unica volta che il suo nome viene fuori è un’intercettazione datata 12 settembre 2010 quando Luigi Bisignani gli telefona e nel corso della conversazione vengono formulati giudizio poco lusinghieri sui costumi personali dell’allora ministro del Turismo, Maria Vittoria Brambilla. Ma non è per il contenuto irriverente della telefonata che l’ex giornalista viene condannato.
Lo sono le accuse di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio che gli hanno mosso i pm di Napoli Henry John Woodcock e Francesco Curcio e a cui è seguita la condanna inflitta dal giudice partenopeo Maurizio Conte in fase di udienza preliminare. Nel frattempo un altro gip, Luigi Giordano, aveva firmato l’ordinanza che revocava, sempre la vicenda P4, gli arresti domiciliari in base a due elementi. Da un lato c’era la richiesta di patteggiamento e dall’altra l’avvio l’8 novembre scorso del processo ad Alfonso Papa, il parlamentare del Pdl che, con l’avvio dell’indagine napoletana, si era autosospeso dai suoi incarichi istituzionali.
Luigi Bisignani, risultato negli elenchi della P2 ritrovati il 17 marzo 1981 a Castiglion Fibocchi in possesso di Licio Gelli, commentò in questo modo l’inserimento del suo nome in quella lista: “Seguo da tempo per l’Ansa le notizie sulla massoneria e conosco, pertanto, molti alti elementi della massoneria, compreso Licio Gelli. I quali abitualmente mi fanno avere i loro comunicati in redazione. Smentisco però categoricamente la mia appartenenza a qualsiasi loggia massonica, compresa ovviamente la P2. Faccio notare che non avrei neppure l’età per l’iscrizione alla P2 che sarebbe di 30 anni come ho scoperto leggendo il libro ‘I massoni d’Italia’ edito dall’Espresso”.
Superata la bufera della P2 e interrotto il suo rapporto con l’Ansa, Bisignani passa nel 1992 al Gruppo Ferruzzi, ma appena dopo arriva un nuovo guai giudiziario: l’inchiesta Enimont e un’accusa per violazione della legge sul finanziamento pubblico dei partiti. Bisignani viene arrestato e condannato in via definitiva a 2 anni e 6 mesi mentre appena dopo giunge anche la radiazione all’albo dei giornalisti. Ricomparso nelle cronache giudiziarie ai tempi dell’indagine Why Not di Luigi De Magistris, allora pubblico ministero e oggi sindaco di Napoli, giunge infine in ciclone P4, secondo le ipotesi degli inquirenti un potente gruppo d’affari che operava all’interno della pubblica amministrazione e della giustizia.

Blitz contro trafficanti di somali, 55 arresti.



Operazione polizia e Gdf coordinata da Dna e procure Catania e Firenze.

ROMA - Maxi operazione di Polizia e Gdf - coordinata dalle procure distrettuali di Catania e Firenze e dalla Dna - contro due organizzazioni criminali somale accusate di traffico di esseri umani: 55 gli arresti in esecuzione. In manette un mediatore culturale dell'Ambasciata italiana di Nairobi e un collaboratore del World Food Program.
   Gli arrestati sono accusati, a vario titolo, di favoreggiamento aggravato dell'immigrazione clandestina di cittadini provenienti dall'area del Corno d'Africa e diretti, attraverso il territorio italiano, verso il Nord Europa, oltre che di contraffazione di documenti, esercizio abusivo dell'attivita' finanziaria, riciclaggio ed altri reati.
  Secondo le indagini coordinate dalla Direzione nazionale antimafia, il cartello criminale, composto da cellule operative radicate in Italia, in Kenya e in Libia, conduceva i migranti verso Malta e la Grecia per poi convogliarli in Italia presso alcune basi logistiche individuate a Roma, Milano, Torino, Firenze, Prato, Bergamo, Cuneo e Napoli, considerate citta' strategiche per la loro vicinanza agli aeroporti che collegano, anche con voli low cost, le principali capitali europee.
   I migranti venivano quindi muniti di falsi documenti e avviati verso paesi del Nord Europa, in particolare Olanda, Francia, Danimarca, Regno Unito e, soprattutto, Norvegia, Svezia e Finlandia. In alcuni di questi Paesi sono state individuate altre cellule operative dell'organizzazione.
   Tra gli arrestati, anche Hussein Mohamed Abdurahman, soprannominato 'Banje', mediatore culturale presso l'Ambasciata italiana di Nairobi (l'Italia non ha rappresentanze in Somalia), considerato il punto di riferimento per l'ottenimento, illecito, dei visti d'ingresso in territorio italiano e Mohamed Sheik Ali Bashir, collaboratore del Wfp.
   Altre 23 persone accusate di aver agevolato le attivita' illecite dell'organizzazione sono state denunciate a piede libero, mentre nelle prossime ore saranno eseguiti numerosi sequestri preventivi di attivita' economiche, conti correnti, agenzie di 'money transfer' ed altri beni riconducibili alla stessa organizzazione criminale, il cui giro d'affari e' stato stimato dagli inquirenti in circa 25 milioni di euro l'anno.