Secondo i giudici la distinzione tra “intercettazioni dirette, indirette, e casuali” “non assume rilevanza”. La sentenza 1/2013 scritta dai giudici relatori Gaetano Silvestri e Giuseppe Frigo si compone di 49 pagine. Il conflitto, sollevato dal Capo dello Stato, era sorto attorno ad alcune intercettazioni disposte nell’ambito dell’inchiesta stato-mafia che hanno captato indirettamente conversazioni del presidente Giorgio Napolitano durante i controlli effettuati sulle utenze dell’ex ministro Nicola Mancino. Quattro le conversazioni di Napolitano intercettate, che i pm hanno sempre definito “irrilevanti” ai fini del procedimento. Ma la Corte Costituzionale ha stabilito che “non spettava ai pm” né valutare la rilevanza della documentazione né “omettere di chiederne al giudice l’immediata distruzione ai sensi dell’articolo 271 (sulle intercettazioni vietate, ndr), terzo comma codice procedura penale e con modalità idonee ad assicurarne la segretezza del loro contenuto, esclusa comunque la sottoposizione della stessa al contraddittorio delle parti”.
“Presidente al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato”. Per i magistrati “alla luce della normativa costituzionale e ordinaria… la posizione del Presidente delal Repubblica non sarebbe assimilabile a quella del parlamentare: solo il secondo infatti può essere sottoposto a intercettazione da parte del giudice ordinario” e in questo senso la Procura di Palermo avrebbe “fatto un uso non corretto dei propri poteri”. I giudici osservano che il presidente della Repubblica “è stato collocato dalla Costituzione al di fuori dei tradizionali poteri dello Stato e, naturalmente, al di sopra di tutte le parti politiche”. La Consulta ritiene che il capo dello Stato, sia per quanto attiene alle sue attività formali che quelle informali” “deve poter contare sulla riservatezza assoluta delle proprie comunicazioni, non in rapporto a una specifica funzione, ma per l’efficace esercizio di tutte”. Inoltre secondo i giudici a “propalazione” del contenuto dei colloqui del Capo dello Stato “… sarebbe estremamente dannosa non solo per la figura e per le funzioni del Capo dello Stato, ma anche, e soprattutto, per il sistema costituzionale complessivo che dovrebbe sopportare le conseguenze dell’acuirsi delle contrapposizioni e degli scontri”.
“Non è salvaguardia della persona ma della efficacia delle funzioni”. I giudici ricordano anche che: “L’art. 90 Cost. prevede che il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o attentato alla Costituzione. È opinione pacifica che l’immunità di cui alla citata norma costituzionale sia onnicomprensiva, copra cioè i settori penale, civile, amministrativo e politico. Tuttavia la perseguibilità del Capo dello Stato per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione rende necessario che, allo scopo di accertare così gravi illeciti penali, di rilevanza non solo personale, ma istituzionale, possano essere utilizzati anche mezzi di ricerca della prova particolarmente invasivi, come le intercettazioni telefoniche. Si tratta di una limitazione logica ed implicita alla statuizione costituzionale che assoggetta il Presidente della Repubblica alla giurisdizione penale – sia pure con forme e procedimenti peculiari – in vista dell’accertamento della sua responsabilità per il compimento di uno dei suddetti reati funzionali”. Con tali norme non si tutela la persona, ma l’istituzione: “Sulla base delle considerazioni sinora esposte, si deve affermare altresì che, al fine di determinare l’ampiezza della tutela della riservatezza delle comunicazioni del Presidente della Repubblica, non assume alcuna rilevanza la distinzione tra reati funzionali ed extrafunzionali, giacché l’interesse costituzionalmente protetto non è la salvaguardia della persona del titolare della carica, ma l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, fondato sulla separazione e sull’integrazione dei poteri dello Stato”.
Per i reati, fuori dal ruolo, il capo dello Stato è un cittadino come un altro. E’ ovvio e i giudici lo ricordano che per eventuali reati commessi al di fuori delle competenze anche il capo dello Stato è un cittadino come un altro: “Allo scopo di fugare ogni ulteriore equivoco sul punto, va riaffermato che il Presidente, per eventuali reati commessi al di fuori dell’esercizio delle sue funzioni, è assoggettato alla medesima responsabilità penale che grava su tutti i cittadini. Ciò che invece non è ammissibile è l’utilizzazione di strumenti invasivi di ricerca della prova, quali sono le intercettazioni telefoniche, che finirebbero per coinvolgere, in modo inevitabile e indistinto, non solo le private conversazioni del Presidente, ma tutte le comunicazioni, comprese quelle necessarie per lo svolgimento delle sue essenziali funzioni istituzionali, per le quali, giova ripeterlo, si determina un intreccio continuo tra aspetti personali e funzionali, non preventivabile, e quindi non calcolabile ex ante da parte delle autorità che compiono le indagini. In tali frangenti, la ricerca della prova riguardo ad eventuali reati extrafunzionali deve avvenire con mezzi diversi (documenti, testimonianze ed altro), tali da non arrecare una lesione alla sfera di comunicazione costituzionalmente protetta del Presidente”.
“Pubblicazione intercettazioni vulnus che va evitato”. Non solo il capo dello Stato non può essere intercettato, ma proprio in relazione alle sue funzioni, al suo ruolo le sue conversazioni non possono essere rese pubbliche e anche la rivelazione dell’esistenza è da evitare: “È chiaro dunque come, specie ai livelli di protezione assoluta che si sono riscontrati riguardo alle comunicazioni del Presidente della Repubblica, già la semplice rivelazione ai mezzi di informazione dell’esistenza delle registrazioni costituisca un vulnus che deve essere evitato. Se poi si arrivasse ad intraprendere iniziative processuali suscettibili di sfociare nella divulgazione dei contenuti delle stesse comunicazioni, la tutela costituzionale, di cui sinora si è trattato, sarebbe irrimediabilmente e totalmente compromessa. Dovere dei giudici – soggetti alla legge, e quindi, in primo luogo, alla Costituzione – è quello di evitare che ciò possa accadere e, quando ciò casualmente accada, di non portare ad ulteriori conseguenze la lesione involontariamente recata alla sfera di riservatezza costituzionalmente protetta”.
La Costituzione non è sacrificabile rispetto alla simmetria processuale. “Nelle ipotesi ora indicate – e dunque anche, a maggior ragione (stante il rango degli interessi coinvolti), in quella dell’intercettazione di colloqui presidenziali – deve ritenersi che i principi tutelati dalla Costituzione non possano essere sacrificati in nome di una astratta simmetria processuale, peraltro non espressamente richiesta dall’art. 271, comma 3, cod. proc. pen. Né gioverebbe richiamare, in senso contrario, la sentenza di questa Corte n. 173 del 2009, che ha stabilito la necessità dell’udienza camerale, nel contraddittorio delle parti, per procedere alla distruzione dei documenti, supporti o atti recanti dati illegalmente acquisiti inerenti a comunicazioni telefoniche o telematiche, ovvero ad informazioni illegalmente raccolte. A prescindere da ogni altro possibile rilievo, si discuteva, nel caso che ha dato origine alla questione decisa con la suddetta pronuncia, di documenti che costituivano essi stessi corpo di reato, esplicitamente esclusi dalla previsione di distruzione di cui al comma 3 dell’art. 271 cod. proc. pen., palesemente inapplicabile dunque a quelle fattispecie”.
Intercettazioni vanno distrutte, alla Procura non spettava neanche la valutazione. Per i giudici costituzionali quindi il capo dello Stato ha ragione su tutta la linea: “Le intercettazioni oggetto dell’odierno conflitto devono essere distrutte, in ogni caso, sotto il controllo del giudice, non essendo ammissibile, né richiesto dallo stesso ricorrente, che alla distruzione proceda unilateralmente il pubblico ministero. Tale controllo è garanzia di legalità con riguardo anzitutto alla effettiva riferibilità delle conversazioni intercettate al Capo dello Stato, e quindi, più in generale, quanto alla loro inutilizzabilità, in forza delle norme costituzionali ed ordinarie fin qui citate. Ferma restando la assoluta inutilizzabilità, nel procedimento da cui trae origine il conflitto, delle intercettazioni del Presidente della Repubblica, e, in ogni caso, l’esclusione della procedura camerale “partecipata”, l’Autorità giudiziaria dovrà tenere conto della eventuale esigenza di evitare il sacrificio di interessi riferibili a principi costituzionali supremi: tutela della vita e della libertà personale e salvaguardia dell’integrità costituzionale delle istituzioni della Repubblica (art. 90 Cost.). In tali estreme ipotesi, la stessa Autorità adotterà le iniziative consentite dall’ordinamento”. Per tutti questi motivi le toghe di Palazzo dei Marescialli concludono che “non spettava alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Palermo di valutare la rilevanza delle intercettazionidi conversazioni telefoniche del Presidente della Repubblica, operate nell’ambito del procedimento penale n. 11609/08″ e che “non spettava alla stessa Procura della Repubblica di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni indicate, ai sensi dell’art. 271, comma 3, del codice di procedura penale, senza sottoposizione della stessa al contraddittorio tra le parti e con modalità idonee ad assicurare la segretezza del contenuto delle conversazioni intercettate”