domenica 21 giugno 2020

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela.

Palamara, la replica dell’Anm agli avvertimenti: “Mente e inganna l’opinione pubblica”. Caputo: “Inventa realtà”. E Albamonte lo querela

Il sindacato delle toghe diffonde un comunicato per spiegare perché non ha sentito il suo ex presidente prima di espellerlo: "Semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni". Il leader di Area querela il collega, che ai giornali riferisce di cene con l'onorevole dem Donatella Ferranti per discutere della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini. Il segretario dell'Anm Caputo, tirato in ballo sempre dal pm sotto inchiesta, replica: "Per difendersi attacca, ma con lui mai parlato di nomine".
“Un Giudice dovrebbe essere in grado di leggere lo Statuto di una associazione. Ancora di più quando ne è stato Presidente”. Nel day after dell’espulsione di Luca Palamara dall’Associazione nazionale magistrati – da lui presieduta tra il 2008 e il 2012 – le polemiche nel mondo delle toghe sono tutt’altro che svanite. Il sindacato dei magistrati, infatti, ha affidato a un comunicato stampa la sua replica per il pm al centro dell’inchiesta che imbarazza il mondo della giustizia. Ma a Palamara non è indirizzata solo la nota ufficiale dell’Anm, ma pure la smentita – si presume a titolo personale – del segretario del sindacato delle toghe, Giuliano Caputo. E poi l’annuncio di querela di Eugenio Albamonte, collega di Palamara alla procura di Roma e come lui ex presidente dell’Anm. Ma andiamo con ordine.
Anm: “Palamara mente” – Già ieri, quando il comitato direttivo centrale aveva respinto all’unanimità la sua richiesta di audizione, Palamara aveva attaccato: “Mi è stato negato il diritto di parola e di difesa, nemmeno nell’Inquisizione”. Poi aveva fatto trapelare alle agenzie di stampa il testo del suo discorso denso di rivendicazioni e avvertimenti. Quindi, in una serie di interviste ad alcuni quotidiani (compreso Il Fatto) rincara la dose: “Non ho agito da solo e non farò, come ho già detto più volte, da capro espiatorio. Questo deve essere estremamente chiaro”, dice il pm indagato dalla procura di Perugia. Ed è tornato nuovamente ad attaccare, che a suo dire non gli avrebbe dato modo di difendersi dalle contestazioni. “Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi, Palamara mente” e “cerca ora di ingannare l’opinione pubblica con una mistificazione dei fatti”, replica la giunta dell’Associazione nazionale magistrati. “Il dottor Palamara – si legge nella nota dell’organismo guidato da Luca Poniz – non è stato sentito dal Cdc semplicemente perché lo Statuto non lo prevede. Non vi sono altre ragioni. Quando dice che non ha avuto spazio per difendersi Palamara mente: è stato sentito dai probiviri e in tutta la procedura disciplinare non hai mai preso una posizione in merito agli incontri con consiglieri del Csm, parlamentari e imputati. E, come lui, gli altri incolpati. Le regole si rispettano, anche quando non fanno comodo”.
“Albamonte a cena col Pd”. E lui querela – Molto diverso il dibattito che si è acceso per le dichiarazioni rilasciate da Palamara ai giornali, nei minuti dopo l’espulsione. Il pm è stato chiamato a chiarire cosa intende dire nel suo discorso quando si scaglia contro “quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento”. A chi si riferiva, gli chiede Antonio Massari del Fatto: “A Eugenio Albamonte e Donatella Ferranti, per esempio. Per quanto mi risulta, si sono frequentati come io ho incontrato Luca Lotti e Cosimo Ferri. Non credo che abbiano parlato solo di calcio”, risponde Palamara. Che poi evoca su quelle cene l’ombra degli accordi per le nomine degli uffici giudiziari: “Diciamo che non lo posso escludere. Esisteva un rapporto anche tra Ferranti ed il vice presidente del Csm David Ermini: erano compagni di partito”. Segretario di Area, la corrente di sinistra delle toghe, storicamente in buoni rapporti con Palamara – che era il leader di Unicost, la corrente moderata e per lungo tempo alleata di Area – Albamonte ha dato mandato al proprio legale per presentare querela nei confronti del collega. Il motivo? Lo ha diffamato – spiega l’avvocato Paolo Galdieri- parlando di fatti mai avvenuti, in particolare di non meglio precisate cene tra il mio assistito e l’onorevole Donatella Ferranti, già presidente della commissione Giustizia della Camera, nelle quali si sarebbe discusso della nomina del vicepresidente del Csm David Ermini e delle nomine di avvocati generali della Cassazione”. “Non vediamo cosa ci sia di diffamatorio nelle dichiarazioni del nostro assistito. Sarà comunque un’occasione di chiarimento. Piuttosto ci si dovrebbe seriamente interrogare sul trattamento ricevuto da Palamara, privato di difesa e di come il trojan inoculato non abbia carpito nulla di penalmente rilevante”, controreplicano i legali di Palamara, gli avvocati Benedetto e Mariano Marzocchi Buratti.
“Caputo? Ha beneficiato del sistema”. “Tutto falso” – Al quotidiano Repubblica, invece, il pm sotto inchiesta fa il nome del segretario dell’Anm, che come lui fa parte di Unicost: “Se penso a Giuliano Caputo – le parole di Palamara – penso a un beneficiato assoluto di questo meccanismo che si trova lì perché Enrico Infante, anche lui di Unicost, era ritenuto troppo di destra. Questi sono gli errori che hanno fatto fallire un sistema facendo prevalere gli accordi tra correnti”. Caputo, da parte sua, non querela ma smentisce: “Nel disperato tentativo di difendersi attaccando, Palamara inventa una realtà che non corrisponde ai fatti“. Il segretario dell’Anm smentisce di aver discusso con lui di nomine: “Mai ne avevo parlato con lui e la pubblicazione integrale delle chat chiarirà forse anche le sue idee sulla mia nomina.Con un chiaro tentativo mistificatorio accosta le dinamiche associative alle prassi relative alle nomine per posti direttivi e semidirettivi ed al mercato delle nomine di cui è stato assoluto (anche se non unico) protagonista negli ultimi anni. Non ho mai parlato né con lui né con altri di domande presentate da me o da altri magistrati”, dice Caputo. “Raramente – prosegue il segretario dell’Anm – mi sono confrontato con lui, come con altri ex esponenti apicali dell’Anm, su questioni dell’associazione. Era nota la sua aspirazione a diventare procuratore aggiunto a Roma, resa possibile dall’abrogazione di una norma, avvenuta con dinamiche ancora da chiarire, rispetto alla quale l’Anm ha assunto da subito una posizione di ferma condanna. Ignoravo assolutamente i suoi tentativi di condizionare la nomina del procuratore della Repubblica di Perugia che avrebbe dovuto gestire il procedimento a suo carico, che si confrontasse con un parlamentare imputato per la nomina del procuratore di Roma e che pensasse di screditare, per varie ragioni, altri colleghi, circostanze che hanno rappresentato le ragioni della sua espulsione dall’Anm”.

Luca Palamara espulso dall’Anm: “Gravi e reiterate violazioni del codice etico”. E lui manda avvertimenti: “Vantavano diritti anche probiviri che chiedono mia cacciata. Hanno rimosso cene con politici”.

Luca Palamara espulso dall’Anm: “Gravi e reiterate violazioni del codice etico”. E lui manda avvertimenti: “Vantavano diritti anche probiviri che chiedono mia cacciata. Hanno rimosso cene con politici”

Non era mai accaduto prima che l’Associazione nazionale magistrati decidesse di espellere un suo ex presidente. Il pm, cacciato per quanto emerso nell’indagine di Perugia, ha diffuso il testo del suo intervento, che non c’è stato perché è stata respinta la richiesta di poter parlare. "Non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. La responsabilità non era soltanto mia. Non farò il capro espiatorio di un sistema", scrive.
Luca Palamara ha commesso gravi e reiterate violazioni del codice etico. Per questo motivo l’Associazione nazionale magistrati ha decretato l’espulsione del pm al centro dell’inchiesta che imbarazza il mondo delle toghe . È la prima volta che un provvedimento così drastico viene assunto nei confronti di un ex presidente dell’Anm: Palamara, infatti, ha guidato il sindacato delle toghe tra il 2008 e il 2012. “Oggi non abbiamo bisogno di capri espiatori, abbiamo bisogno di tornare a prendere coscienza della diffusività di comportamenti che dimostrano un modo distorto di formazione del consenso in magistratura – non intorno ad idee e valori – ma sulla base di interessi strettamente individuali, su impropri rapporti tra consiglieri o esponenti di correnti e magistrati aspiranti ad un incarico”, ha detto il segretario dell’Anm Giuliano Caputo al Comitato direttivo centrale prima del voto sull’espulsione. Un riferimento, quello ai “capri espiatori“, ripetuto anche dal presidente Luca Poniz e che non è casuale. Nessuna vittima sacrificale, ma “solo alcuni colleghi a cui sono stati stati addebitati specifici fatti”, ha detto il numero del sindacato delle toghe. Fonti di via Arenula fanno sapere che il guardasigilli Alfonso Bonafede rispetta “il percorso di rinnovamento dell’Anm” e “non entro nel merito delle loro scelte“. Il ministro ha raccomandato di mantenere il massimo impegno e concentrazione sul progetto di riforma del Csm: “Questa – ha detto – sarà la vera rivoluzione “.
L’espulsione – Nel giorno in cui i suoi colleghi decidevano di cacciarlo, infatti, il magistrato indagato a Perugia avrebbe voluto pronunciare davanti a loro un discorso. Quattro pagine in cui compaiono allusioniavvertimenti, rivendicazioni. E anche qualche ammissione di colpa. L’Anm, però, ha rigettato la richiesta di audizione all’unanimità. “Mi è stato negato il diritto di parola e di difesa, nemmeno nell’Inquisizione”, commenta il pm di Roma. “La richiesta del collega Palamara di rendere dichiarazioni davanti dal Cdc non è stata accolta ai sensi di Statuto, giacché esso assegna non alla fase decisoria, bensì a quella istruttoria, affidata ai probiviri, l’ascolto dell’incolpato e la possibilità di raccogliere sue memorie e documenti. Di tali facoltà il dottor Palamara ha potuto avvalersi compiutamente in quella sede, venendo convocato allo scopo più volte, come da sue richieste”, spiega una nota del Comitato direttivo centrale.
“Non farò il capro espiatorio di un sistema” – Palamara, però, ci teneva parecchio a parlare davanti all’intero parlamentino delle toghe. La sua non sarebbe stata una difesa tecnica sulle contestazioni, ma un discorso il cui senso è riassumibile nella chiusa: “Non farò il capro espiatorio di un sistema”. Bocciata la sua richiesta di audizione, Palamara ha quindi girato alle agenzie di stampa il testo del suo intervento. “Ognuno – scrive il magistrato – aveva qualcosa da chiedere, ognuno riteneva di vantare più diritti degli altri, anche quelli che oggi si strappano le vesti, penso ad esempio ad alcuni componenti del collegio dei probiviri che oggi chiedono la mia espulsione, oppure a quelli che ancora oggi ricoprono ruoli di vertice all’interno del gruppo di Unità per la Costituzione, o addirittura ad alcuni di quelli che ancora oggi siedono nell’attuale Comitato direttivo Centrale e che forse troppo frettolosamente hanno rimosso il ricordo delle loro cene o dei loro incontri con i responsabili giustizia dei partiti politici di riferimento. Sarebbe bello che loro raccontassero queste storie. Non devo essere io a farlo. Io ascoltavo sempre tutti”.
“Io non ho agito da solo” – Una vera e propria messa in stato d’accusa dei suoi stessi accusatori. Palamara, infatti, riconosce di aver “fatto parte del sistema delle correnti, quel sistema che ora mi condanna, spesso mi insulta, perché a torto o a ragione individua in me l’unico responsabile di tutto. Io – dice l’ex presidente dell’Anm – non mi sottrarrò alle responsabilità politiche del mio operato per aver accettato regole del gioco sempre più discutibili. Ma deve essere chiaro che non ho mai agito da solo. Sarebbe troppo facile pensare questo“. Il magistrato al centro dell’inchiesta che imbarazza tutto il mondo delle toghe, insomma, rivendica un passaggio fondamentale: non è solo lui l’artefice della degenerazione rappresentata dal sistema delle correnti. “All’inizio – sostiene il pm – ero animato dal sacro fuoco del cambiamento, perché ovviamente anche io mi rendevo conto che era un meccanismo infernale, dal quale però mi sono lasciato inghiottire. Ma ciò non per sete di potere”, bensì in una logica – che oggi riconosco, comunque, erronea – secondo cui il rafforzamento della posizione, mia e del mio gruppo di appartenenza, avrebbe potuto assicurare opportunità di avanzamento di colleghi meritevoli. Ma il fine, ora non posso non ammetterlo, non giustifica mai i mezzi”.
Responsabilità non è soltanto mia”- Nel suo discorso Palamara rivendica: “Le nomine dei dirigenti giudiziari sono il frutto di estenuanti accordi politici. Talvolta essi conducono alla designazione di persone degnissime e meritevoli di ricoprire i posti per cui hanno fatto domanda. Nella consiliatura a cui ho preso parte, sono stati nominati più di mille nuovi dirigenti. E tra essi – alla guida delle Procure di Milano, Napoli, Palermo (solo per citarne alcune) – magistrati di grande valore come Francesco GrecoGiovanni MelilloFranco Lo Voi“. Poi, però, Palamara ammentte che “alcuni casi le nomine hanno seguito solo logiche di potere, nelle quali il merito viene sacrificato sull’altare dell’appartenenza. Dei risultati virtuosi di quella esperienza consiliare non ho la presunzione di dirmi l’artefice, ma solo un testimone. Degli altri che non hanno risposto a questa logica sento, invece, il peso della responsabilità. Che però non è soltanto mia”.
Le altre decisioni su Ferri e Criscuoli – Al centro dell’indagine che imbarazza il mondo della magistratura, Palamara è stato sospeso in via cautelare da funzioni e stipendio dalla sezione disciplinare di Palazzo dei Marescialli. La contestazione all’ex pm di Roma riguarda l’episodio dell’incontro in un albergo romano con i consiglieri del Csm, poi dimissionari, Luigi Spina, Corrado Cartoni, Gianluigi Morlini, Paolo Criscuoli e Antonio Lepre, e i deputati del Pd Luca Lotti e Cosimo Ferri (poi passato a Italia viva), per discutere di nomine ai vertici delle principali procure italiane, in primo luogo quella di Roma. In quel momento Lotti era indagato dalla procura capitolina per l’inchiesta Consip. Subito tutti i magistrati coinvolti vennero deferiti ai probiviri, e la richiesta di espulsione è stata formulata per tutti, ma la maggior parte di loro si sono nel frattempo dimessi dall’Anm. Non lo aveva fatto Paolo Criscuoli, che oggi è stato sospeso per 5 anni. Diversa la posizione di Ferri, che è magistrato in aspettativa. Secondo il Comitato direttivo centrale, Ferri è ancora socio dell’Anm a differenza di quanto sostenuto dal diretto interessato e almeno da una parte dei probiviri: per questo sono stati rinviati gli atti al collegio dei probiviri, che ora dovranno procedere con una proposta.
Le accuse e l’hotel Champagne – Neanche Palamara ha voluto dimettersi dall’Anm: adesso è il primo ex presidente ad esserne espulso. Probabilmente lo sarebbe stato anche se avesse potuto parlare davanti al comitato centrale. Nel suo discorso, infatti, il pm non si difende da queste contestazioni: “Sugli aspetti deteriori del correntismo e sulle vicende che mi hanno riguardato allhotel Champagne devo potermi difendere nella competente sede disciplinare e spiegare quando sarà il momento a tutti i magistrati le mie ragioni e lo stato d’animo che mi ha accompagnato in quei giorni. Non posso farlo oggi perché per difendermi ritengddover utilizzartutti gli strumenti processuali che l’ordinamento mette mia disposizione. Non mi sottrarrò alle mie responsabilità su questi fattioggi posso dire che ho sottovalutato le mie frequentazioni di quel periodo perché in me prevaleva l’idea di schivare qualsiasi pericolo e di essere un incorruttibile”. I pm di Perugia, però, non la pensano così.
La riforma del Csm e la fine della crisi dell’Anm- Il comitato direttivo centrale ha all’ordine del giorno anche la riforma del Consiglio superiore della magistratura. Nelle bozze che sono circolate della riforma sono state recepite molte delle nostre proposte”, ma “dobbiamo stare attenti che questa non sia l’occasione per un attacco all’indipendenza della magistratura“, ha detto il segretario dell’Anm Giuliano Caputo. Un concetto su cui ha insistito anche il presidente Luca Poniz: “Speriamo di non dover ricordare il principio di autonomia che il Csm è chiamato a tutelare e che ha legame con la democrazia”. Poniz e Caputo, tra l’altro, hanno chiesto una “rinnovata fiducia” e un “mandato politico pieno” alla giunta dell’Associazione nazionale magistrati per affrontare l’interlocuzione sulle riforme e la ripresa dell’attività giudiziaria dopo lo stop dovuto all’emergenza coronavirus. La richiesta arriva dopo la crisi che, per effetto delle nuove chat emerse dagli atti dell’inchiesta di Perugia sul caso Palamara, aveva portato lo scorso 23 maggio alle dimissioni della giunta. Poi, in una successiva riunione due giorni dopo, in assenza di un accordo “politico” si decise che sarebbe rimasta in carica per l’ordinaria amministrazione e per arrivare alle elezioni, rinviate a ottobre a causa dell’emergenza sanitaria. “Ho chiesto, dopo che ci siamo scontrati anche aspramente e abbiamo affrontato una crisi politica un nuovo mandato sui punti essenziali – ha spiegato Caputo, intervenendo al Cdc – riforme, per affrontare la ripresa totale dell’attività nei tribunali, per l’organizzazione delle elezioni telematiche che è complessa e rispetto alla quale non possiamo permetterci errori o disguidi. È necessario perché la sostanza dell’accordo e della ritrovata concordia tra di noi e l’appoggio dei gruppi all’attività della giunta sia percepito in modo chiaro e lineare anche all’esterno”. Poco dopo il mandato a Caputo e Poniz è stato votato dal comitato centrale. La crisi interna all’Anm, dunque, sembra essere rientrata nel giorno dell’espulsione di Palamara.

Embraco, “spese personali e auto di lusso coi fondi per gli operai”: così i vertici di Ventures hanno svuotato le casse invece di investire. - Giovanna Trinchella e Andrea Tundo

Embraco, “spese personali e auto di lusso coi fondi per gli operai”: così i vertici di Ventures hanno svuotato le casse invece di investire

Almeno 3 milioni di euro, sostiene la procura di Torino, sono stati usati per pagare finte consulenze d'oro a proprietari e manager della società, comprare 5 auto di lusso ed estinguere sofferenze bancarie personali. Così mentre buona parte dei 417 operai di Riva di Chieri restava in cassa integrazione e la fabbrica non è mai tornata operativa, i conti di Ventures sono stati prosciugati. Il "disegno criminoso" partito subito dopo il via libera del ministero dello Sviluppo Economico. Tibaldi (Fiom-Cgil) al Fatto.it: "Vicenda paradigmatica di come si fanno le reindustrializzazioni in Italia. Invitalia e Mise parlavano di piano grandioso".
robot per pulire i pannelli solari sono rimasti solo sulle slide del piano industriale, mentre i soldi che sarebbero dovuti servire per rilanciare l’ex Embraco e salvare i quasi 500 operai dal licenziamento finivano sui conti esteri dei manager di Ventures srl. Avevano iniziato pochi giorni dopo l’accodo firmato nel giugno di due anni fa con il gruppo Whirlpool per farsi carico della reindustrializzazione dello stabilimento di Riva di Chieri, nel Torinese, a fronte di 49mila euro di contributo per ogni dipendente assunto dopo l’annuncio della multinazionale di voler licenziare tutti e delocalizzare la produzione dei compressori per frigoriferi.
Almeno 3 milioni di euro dei 20 al centro dell’intesa, sostiene la procura di Torino, sono invece stati usati per pagare finte consulenze d’oro a proprietari e manager della società, comprare 5 tra Bmw Serie 5, Audi A4 e A6 ed estinguere sofferenze bancarie personali. Mentre buona parte dei 417 operai restava in cassa integrazione, la fabbrica non è mai tornata operativa e i conti di Ventures sono stati prosciugati. Tanto che il procuratore aggiunto di Torino Marco Gianoglio ha depositato istanza di fallimento sulla scorta di quanto ricostruito dagli uomini della Guardia di finanza guidati dal comandante provinciale Guido Mario Geremia.
E ora sono scattati sequestri e perquisizioni nei confronti dei 5 indagati in questa vicenda che racconta l’ennesimo fallimentare epilogo di una reindustrializzazione che dentro Invitalia e al ministero dello Sviluppo Economico, prima retto da Carlo Calenda e poi da Luigi Di Maio, davano tutti per risolta. Mentre Ronen Goldstein e Gaetano Di Bari brindavano di fronte ai fotografi e ora si ritrovano indagati per bancarotta per distrazione insieme a Carlo NosedaLuigi e Alessandra Di Bari.
Le 9 pagine del decreto di sequestro preventivo eseguito dai finanzieri raccontano nel dettaglio come, ad avviso degli inquirenti, i cinque della Ventures abbiano “distratto”“occultato” e “dissipato” una parte dei milioni che avrebbero dovuto assicurare un futuro agli operai, che nel gennaio scorso hanno dato nuovo impulso alle indagini con un esposto presentato in procura. Il “disegno criminoso” finalizzato al “drenaggio” delle risorse per scopi personali, stando a quanto ricostruito dagli investigatori, inizia poco dopo l’11 luglio di due anni, giorno in cui Ventures perfeziona la cessione del ramo d’azienda al prezzo simbolico di 10 euro.
L’accordo prevedeva che Embraco avrebbe dovuto versare poco più di 20 milioni di euro con uno “scopo preciso”, ricorda il procuratore aggiunto di Torino: “Evitare il licenziamento dei dipendenti e una grave crisi occupazionale”. Con Ventures che, a sua volta, si sarebbe dovuto dotare delle risorse finanziarie per “attuare” e “sostenere” il piano industriale sulla base del quale aveva ottenuto il via libera dei sindacati e del ministero dello Sviluppo Economico, che aveva accordato anche la cassa integrazione – in scadenza tra un mese – in attesa del riavvio della produzione. La sintesi della procura è tranchant: “Lo stabilimento di Riva di Chieri mai ha iniziato l’attività produttiva, il progetto industriale è rimasto sulla carta, non vi è stato il minimo investimento di capitale. Dunque: una provvista certa in entrata, a cui non ha fatto seguito alcunché”.
Quali strade abbiano preso i primi bonifici arrivati sui conti di Ventures, invece, è ritenuto accertato dagli investigatori che ricostruiscono al centesimo di euro il vorticoso giro di denaro, spesso finito su conti all’estero e poi rientrato in Italia anche per ripianare debiti personali. Tra il 16 luglio 2018 e il 2 dicembre scorso, ha accreditato sui conti di Ventures la “considerevole somma” di 12.680.758,88 euro ma, a fronte di uno stallo totale sotto il profilo industriale eccetto il pagamento degli stipendi decurtati dalla cassa integrazione, il 2 marzo scorso la società “ha completamente esaurito la liquidità” mentre fioccavano i primi pignoramenti.
Intanto “gran parte dei bonifici in uscita” finiva sui conti di Gaetano Di Bari e Carlo Noseda, giustificata come “pagamento fatture” sulle quali per la procura è “lecito dubitare” vista “l’assoluta inoperosità” di Ventures e il poco tempo passato tra i versamenti di Embraco e il giro sui conti personali, a volte questione di ore. Agli occhi dei pm, quindi, “risulta evidente” come il denaro sia stato “quasi interamente distratto” verso “attività estranee alla sua originale destinazione” finendo sui conti personali e “disperdendosi in rivoli che nulla hanno a che vedere con la continuità aziendale” e “con la salvaguardia dei livelli occupazionali”.
I finanzieri hanno accertato come 250mila euro finiti su un conto corrente tedesco intestato a Di Bari hanno in buona parte fatto rientro in Italia venendo “redistribuiti” in favore anche dei figli e della moglie. Altri 92mila euro trasferiti su un conto aperto in una filiale tedesca della Deutsche Bank, sempre secondo gli inquirenti, sono stati “esclusivamente per spese personali” e per estinguere una sofferenza bancaria di oltre 49mila euro conseguente a finanziamenti ed esposizioni degli stessi e di una società a loro riferibile. Movimenti simili sono stati ricostruiti dalla Guardia di finanza anche sui conti di Noseda e in favore di due società riferibili ad Alessandra e Luigi Di Bari che avevano sofferenze per quasi mezzo milione di euro. Mentre 1,38 milioni di euro sono stati trasferiti alla G.R. Consumer System Ltd, società “riferibile” a Goldstein.
Non solo: la terza tranche dei pagamenti di Embraco era legata da contratto all’aumento di capitale di Ventures, ma ad avviso degli inquirenti la ricapitalizzazione sarebbe stata effettuata con una triangolazione. Dai conti partirono due bonifici da 600mila e 230mila in favore della Lad, società amministrata da Alessandra Di Bari, che li utilizzò per sottoscrivere l’aumento. “Ventures eroga a Lad soldi per sottoscrivere il proprio aumento di capitale”, sintetizza la procura che ora ha messo un punto a quella che la Fiom Cgil definisce “una vicenda paradigmatica di come funzionino le reindustrializzazioni” in Italia.
“Se quanto ipotizzano dalla magistratura sarà confermato, quella di Embraco non è un’avventura finita male – spiega Barbara Tibaldi, membro della segreteria generale della Fiom a Ilfattoquotidiano.it – ma nata, con il bollino di Invitalia e del ministro Carlo Calenda, con questi presupposti”. Per la sindacalista ora “è il momento che ognuno si assuma le sue responsabilità, compresa Whirlpool”. La Fiom chiede quindi una “convocazione urgente” per “chiarire il futuro di oltre 400 lavoratori che lottano e aspettano da oltre due anni”.

Mondo di Mezzo, Buzzi a Radio Radicale: «Ho finanziato 'sti papponi e dopo arresto hanno detto "Roma liberata"».

Mondo di Mezzo, Buzzi a Rado Radicale: «Ho finanziato 'sti papponi e dopo arresto hanno detto

«Sono stato dipinto come il "grande corruttore", ma le persone non le ho corrotte, erano corrotte di loro. La sentenza della Cassazione che certifica l'entità delle corruzioni ammontano a 65mila euro, su un fatturato di 180 milioni. Allora dico, non è giusto corrompere, pagare tangenti, ma se io pago 65mila euro di tangenti su un fatturato di 180 milioni di fatturato sono stato bravo e lo rivendico. Tutti mi chiedevano soldi, favori, assunzioni: è la realtà imprenditoriale a Roma, lo abbiamo visto con Parnasi, lo vedremo successivamente con qualche altro disgraziato, ma un imprenditore che fa impresa a Roma, nei servizi con il Comune di Roma si ritrova con persone da assumere, manifestazioni da sponsorizzare e poi se tutto diventa corruzione...». Così Salvatore Buzzi a Radio Radicale, durante il lungo dibattito organizzato dall'associazione Nessuno Tocchi Caino, commenta l'inchiesta di Mafia Capitale, dissoltasi fino alla recente scarcerazione di Massimo Carminati.

E precisa: «Io tante corruzioni le ho avute perché non riuscivo a incassare i miei crediti legittimi: ogni mese mi servivano 5milioni di euro per pagare dipendenti, fornitori, ma se il Comune non pagava? - incalza retorico Buzzi - La famosa intercettazione nella quale avrei detto a una mia collaboratrice 'si guadagna più con la droga che con i migrantì è un falso, è stata montata ad arte. È un'intercettazione ambientale che dice ben altro - attacca - elaborata dal colonnello Russo dei Ros. C'è stato un attacco alla cooperazione sociale mettendo in bocca anche frasi non volute. In relazione alle intercettazioni ambientali che colpiscono oggi i magistrati, con le chat di Palamara, con il trojan, dicono che tra amici si dicono delle cose. E noi? Noi non possiamo dire stupidaggini? No, perché è come se parli davanti a un ufficio notarile».
Poi Buzzi nel dibattito di Nessuno Tocchi Caino entra nel merito delle accuse «politiche». «Tutta questa storia di Mafia Capitale che ha consentito la desertificazione della cooperazione sociale a Roma e alla Raggi di diventare sindaco, è stata un'operazione fatta a tavolino per colpire alcune parti politiche: la destra, Alemanno, Gramazio e Tredicine, e la sinistra, ma guarda caso tutti gli esponenti di Bersani, gli altri erano tutti innocenti. Questa è la cosa grave: poi vedendo le chat di Palamara si scopre che ci sono tante altre cose». E ancora: «Quando ci arrestano il 2 dicembre per mafia nessuno di tutti gli amici con i quali eravamo cresciuti ha detto a Pignatone che stava sbagliando, anzi, addirittura Orfini ha dichiarato che lo ringraziava per aver liberato Roma dalla mafia. La solidarietà vera l'ho avuta dal Partito Radicale, da Sansonetti, da Sgarbi, da pochissime persone ».
«Mi sono fatto da mafioso 5 anni e 18 giorni in alta sicurezza al confine con l'Austria - continua Salvatore Buzzi - mia moglie arrestata, 2 anni e 2 mesi ai domiciliari, mia figlia l'ho ritrovata come un'estranea, aveva 5 anni l'ho ritrovata a 10. Ho querelato tg 5 e tg La7, la Sciarelli perché a me del mafioso non me lo puoi dare più. Bisogna dare un segnale, incominciare a ribellarsi. Non mi sorprende quanto accaduto in altre aziende, quella di Cavallotti l'ho seguita alle Iene. Noi in cooperativa avevamo livelli retributivi elevatissimi, i soci prendevano 16 mensilità, con la legalità si sono ritrovati il cambio di contratto, 13 mensilità quando li pagava, la riduzione del 30% degli stipendi e ora che sono falliti la metà sono disoccupati. Questa è stata la legalità. E le cavallette che hanno depredato la nostra cooperativa, adesso stanno spolpando altre aziende». 
«Sono stato condannato per corruzioni per versamenti pubblici - conclude il fondatore della cooperativa 29 giugno - Con Ozimo per 20mila euro messi a bilancio, con Tredicine 20mila euro messi a bilancio, con Gramazio 15mila euro messi a bilancio. Non li finanziavo in nero, ho sempre finanziato in chiaro: ad esempio con Tredicine, che non è che ha una nomea carina a Roma, non ho telefonate in 2 anni e 2 mesi, ma quale favore mi ha mai fatto se non l'ho mai incontrato? Finanzi la politica perché lo chiedevano. Quando stavo in carcere avevo il rimpianto di aver finanziato 'sti papponi. Trecento mila euro l'anno gli davo legalmente, più quelli illegali, e poi quando ci hanno arrestato per mafia Orfini andava a dire 'ho liberato Roma, ma da chi?'».

Processo alle invenzioni. - Marco Travaglio


Un muro fra politica e magistratura. Bonafede annuncia una riforma ...
Non so quante migliaia fra articoli e talk show siano stati dedicati allo scandalo Palamara. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema: non i giochi di corrente per far promuovere o punire dal Csm il giudice Tizio e il pm Caio (ci sono sempre stati e purtroppo sempre ci saranno se non cambiano l’ordinamento giudiziario e il sistema elettorale del Csm); non le parole in libertà del pm romano e dei suoi interlocutori su Salvini e altri (ciascuno in privato dice ciò che vuole); ma le riunioni clandestine fra Palamara e due estranei alle nomine giudiziarie, i deputati renziani Luca Lotti (Pd) e Cosimo Ferri (allora Pd e ora Iv), mai espulsi né sanzionati dai loro partiti. Allo stesso modo, non so quante migliaia di articoli e talk show siano stati dedicati al caso Di Matteo-Bonafede, mischiato con questioni totalmente diverse, dalle scarcerazioni al caso Palamara, in un frittomisto tanto appetitoso quanto fuorviante incredibilmente approdato in Antimafia. Eppure, salvo pochi intimi, nessuno ha capito esattamente quale sia il problema istituzionale che dovrebbe interessare la commissione parlamentare: non la nomina a capo del Dap di Basentini anziché di Di Matteo (scelta politica opinabile e, secondo noi, sbagliata del ministro Bonafede, ma discrezionale, legittima e insindacabile); non le scarcerazioni di centinaia di mafiosi, malavitosi e presunti (decise dai giudici di sorveglianza, non dal Dap); ma un’inquietante eventualità, mai esplicitata ma fatta balenare da Di Matteo il 3 maggio nella telefonata a Giletti e poi da molti pelosi alleati dell’ultim’ora: che cioè Bonafede non l’avesse nominato perché i boss al 41-bis non lo volevano.
Il miglior modo per disinformare la gente è imbottirla e intontirla con notizie che sembrano coerenti e invece c’entrano come i cavoli a merenda, in un gran polverone che fa perdere il filo e dimenticare il punto di partenza: è ciò che han fatto Giletti e la sua corte di mitomani per sei puntate di “Non è l’Arena, è Salvini”, con la collaborazione di molti giornali e del Parlamento (question time, sfiducia a Bonafede e Antimafia). Noi abbiamo pazientemente seguito le audizioni di Bonafede, Di Matteo e un esercito di dirigenti del Dap in Antimafia, a prezzo di terribili emicranie e a rischio di labirintite. E abbiamo scoperto ciò che già tutti sapevamo. 
1) Bonafede offrì gli Affari Penali o il Dap a Di Matteo (18 giugno 2018) quando conosceva da 10 giorni le proteste dei boss e se ne infischiò. 
2) Di Matteo ha sempre smentito che Bonafede avesse deciso su input o per paura dei boss (anche sospetta pressioni di“qualcuno”, pronome che non si addice a un pm). 
3) L’ha ribadito in Antimafia: “Se avessi pensato che Bonafede non mi aveva più dato il Dap a causa di pressioni dei detenuti mafiosi, avrei denunciato la cosa in Procura”. 
Così chiarita la sola questione rilevante per la commissione che indaga su mafia e politica, il presidente Morra&C. avrebbero dovuto congedarlo. Invece han trasformato l’Antimafia nella succursale del Giletti Show (fortunatamente in ferie), facendolo parlare altre 4 ore del più e del meno nel disperato tentativo di resuscitare un caso morto prima di nascere: tipo che Di Maio lo voleva al Viminale (embè?), o che Napolitano nel 2012 voleva far la pace coi pm della Trattativa tramite Palamara. Una non-notizia, visto che Palamara era presidente dell’Anm e quel racconto era già uscito nel mio Viva il Re! (2013).
Intanto è stato sentito pure il dg uscente del Dap Giulio Romano, autore della circolare del 21 marzo che, per la vulgata dei mitomani, “ha scarcerato 500 mafiosi col pretesto del Covid”. Questi, carte alla mano, ha dimostrato che: Bonafede nel dl Cura Italia del 23.2 escludeva i mafiosi dalla liberazione anticipata; la circolare del 21.3 non faceva cenno a scarcerazioni e si limitava a chiedere i nomi dei detenuti con le patologie gravi indicate dai medici come concause mortali da Covid; era stata chiesta dai Tribunali di sorveglianza in base alla legge penitenziaria del 1976, al Dpr 230/2000 e a vari ordini di servizio dei precedenti capi- Dap; queste vecchie norme hanno prodotto le scarcerazioni, non la circolare (atto amministrativo che non può ordinare nulla ai giudici); senza la circolare, in caso di detenuti morti con o per Covid, l’intero Dap sarebbe finito alla sbarra (i Radicali avevano già denunciato Bonafede e Basentini per procurata epidemia, ma i morti sono stati solo 4 su 61 mila); molte scarcerazioni sono state disposte prima della circolare e molte successive non fanno alcun cenno alla circolare, ma a norme vigenti da decenni alla luce delle direttive dell’Oms e dell’Iss sul Covid; dei 498 detenuti “pericolosi” scarcerati al 7 maggio, quelli usciti per l’emergenza Covid sono 223 (e 50 sono già tornati dentro dopo il decreto anti-scarcerazioni), di cui 121 pregiudicati e 103 in custodia cautelare (presunti non colpevoli), e fra questi solo 4 erano al 41-bis, di cui 3 estranei alla circolare; il quarto è Zagaria, scarcerato da un giudice che cita la circolare, ma scrive che l’avrebbe messo fuori comunque; l’unico errore del Dap fu la risposta al giudice di sorveglianza per Zagaria sull’email sbagliata, infatti Basentini e Romano si sono dimessi. Sperando che siate sopravvissuti fin qui, azzardiamo una domanda: ma voi avete capito di che minchia stanno parlando?