giovedì 29 aprile 2010

Pedofilia, dal Vaticano un sabba di menzogne - Paolo Flores d'Arcais


Contro la pedofilia dei suoi preti, sembra proprio che il Papa voglia fare sul serio. Perché allora continua a occultare la verità sul passato e ha messo online un falso? Padre Federico Lombardi, infatti, non agisce di testa propria, è il portavoce della Santa Sede, e inoltre è persona di squisita gentilezza. Se dunque non ha risposte alle “
quattro domande cruciali” che con una mia lettera aperta questo giornale gli ha rivolto una settimana fa non è perché non ha voluto, è perché non poteva: non aveva la “licenza de’ superiori”.

Avesse potuto, infatti, avrebbe dovuto confessare quanto segue: la frase chiave “Va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte” contenuta nelle famose “linee guida” sulla pedofilia, messe online sul sito ufficiale del Vaticano lunedì 12 aprile, e presentate da padre Lombardi come “disposizioni diramate fin dal 2003” (sito dell’
Avvenire, quotidiano della Cei) non risale affatto al 2003 ma è stata coniata nuova di zecca nel weekend del 10-11 aprile.

Al responsabile dell’autorevolissima agenzia internazionale “Associated Press”, Victor Simpson, che chiedeva lumi sulla posizione della Chiesa in fatto di pedofilia, padre Lombardi inviava infatti il venerdì 9 aprile un documento in inglese identico a quello messo online il lunedì successivo, tranne la frase chiave di cui sopra, che non compariva. E che perciò è stata partorita durante il weekend.

Come altro si può chiamare in buon italiano una manipolazione del genere se non un “falso” (“falso: non corrispondente al vero in quanto intenzionalmente deformato”, Devoto-Oli)? Perché tutto l’interesse di quel documento si concentrava nella famosa frase chiave, che non a caso è stata sbandierata come la dimostrazione di una volontà della Chiesa – da anni – di collaborare con le autorità civili, rispettandone le leggi anche quando esse impongono a un vescovo di denunciare alla magistratura inquirente il suo prete sospetto di pedofilia.

E’ dunque falso, assolutamente falso, che la Chiesa cattolica gerarchica avesse già nel 2003 fatto obbligo ai suoi vescovi e sacerdoti di “dare seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. All’epoca era vero, anzi, il tassativo obbligo opposto: tacere assolutamente alle autorità civili, in ottemperanza al “segreto pontificio”, che comporta addirittura un giuramento al silenzio fatto solennemente sui vangeli, la cui formula terribile abbiamo riportato in un
precedente articolo (cfr. Il Fatto del 10 aprile).

E’ perciò altrettanto falso quanto ha sostenuto mons. Scicluna nei giorni scorsi, secondo cui “accusare l’attuale pontefice [per quando era cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede] di occultamento è falso e calunnioso (…) in alcuni paesi di cultura giuridica anglosassone, ma anche in Francia, i vescovi, se vengono a conoscenza di reati commessi dai propri sacerdoti al di fuori del sigillo sacramentale della confessione, sono obbligati a denunciarli all’autorità giudiziaria”.

Questa non è la dichiarazione di un carneade qualsiasi, perché, come spiega il suo intervistatore Gianni Cardinale “monsignor Charles J. Scicluna è il ‘promotore di giustizia’ della Congregazione per la Dottrina della Fede. In pratica si tratta del pubblico ministero del Tribunale dell’ex sant’Uffizio”. Che l’affermazione di monsignore sia falsa lo prova
ad abundantiam la testimonianza dei giorni scorsi del cardinale Dario Castrillon Hoyos, tuttora tra i più stretti collaboratori di Papa Ratzinger, che ha ricordato come fosse stato Giovanni Paolo II in persona a fargli scrivere una lettera di solidarietà e sostegno a un vescovo francese che per il rifiuto a testimoniare contro un suo prete pedofilo era stato condannato a tre mesi con la condizionale.

Padre Federico Lombardi ha opposto un “no comment” alle affermazioni (palesemente inoppugnabili) del porporato colombiano, ma ha aggiunto che l’episodio “dimostrava e dimostra l’opportunità della unificazione delle competenze in capo alla Congregazione per la Dottrina della Fede”. Non rendendosi conto che tale “unificazione” avviene nel maggio del 2001, mentre la lettera del cardinale, per volere di Papa Wojtyla, è del settembre dello stesso anno, dunque è successiva, e conferma l’unica interpretazione che di quella “unificazione” si può dare: il più assoluto segreto era assolutamente centralizzato per renderlo ancora più catafratto.

Perché perciò tutto questo sabba di menzogne, visto che Benedetto XVI sembra davvero intenzionato a cambiare atteggiamento, e a non occultare più alle autorità secolari i casi di pedofilia ecclesiastica (il vescovo di Bolzano e Bressanone ha inviato in procura le prime denunce)?

Perché scegliendo la Verità dovrebbe riconoscere che il suo predecessore aveva ribadito come dovere sacrosanto l’omertà rispetto a magistrati e polizia, e difficilmente dopo tale ammissione potrebbe elevare Karol Wojtyla all’onore degli altari.

Perché dovrebbe confessare Urbi et Orbi che la svolta è di questi giorni, e che egli stesso, come cardinale Prefetto (e in larga misura anche nei primi anni del Pontificato) non ha trovato il coraggio di chiedere coram populo (non sappiamo cosa pensasse in interiore homine) una politica della trasparenza e della denuncia ai tribunali, contribuendo con ciò all’impunità di un numero angoscioso di pedofili, che se prontamente messi in condizione di non nuocere avrebbero risparmiato la via crucis di migliaia di vittime.

Perché dovrebbe ammettere che a tutt’oggi il suo portavoce si è prodigato in un lavoro di raffinata disinformacija, e consentirgli (o intimargli: non sappiamo se padre Lombardi soffra per quanto ha dovuto manipolare) di cambiare registro. Perché…

Il Fatto Quotidiano (28 aprile 2010)



La casa in nero di Scajola - Marco Lillo



29 aprile 2010

Il gip di Perugia ricostruisce il giro di assegni. Da Anemone a Zampolini fino al ministro

Ora ci sono le carte: la casa di Claudio Scajola è stata pagata con assegni circolari per 900 mila euro provenienti dai conti di un architetto, Angelo Zampolini, che la Procura di Perugia vuole arrestare per associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio. Secondo i pm Alessia Tavernesi e Sergio Sottani, i soldi che Zampolini ha usato per comprare la casa del ministro Claudio Scajola (non indagato) provengono dalle attività delittuose della "cricca". Il gip ha negato l’arresto di Zampolini e di altre due persone, Claudio Rinaldi, commissario per la ricostruzione post-terremoto a San Giuliano e Commissario dei Mondiali di nuoto 2009, e Stefano Gazzani, il commercialista di tutti i protagonisti dello scandalo dei Grandi eventi: il costruttore Diego Anemone e i due dirigenti della Presidenza del Consiglio Angelo Balducci e Claudio Rinaldi.

Secondo il gip Massimo Riccarelli, i fatti sono accaduti a Roma e devono essere valutati dai magistrati capitolini. I pm perugini hanno fatto ricorso ma a prescindere dal suo esito, sin d’ora, si comprende che i fatti sono gravi. A partire da quelli che riguardano Claudio Scajola. Con la solita aria tronfia il ministro dello Sviluppo economico ieri aveva risposto così alla domanda del cronista del Fatto sugli assegni circolari della cricca di Anemone usati per comprare la sua casa al Colosseo nel 2004: "Sono assolutamente amareggiato e disgustato che il segreto istruttorio finisca sui giornali. Non voglio partecipare a questa bruttissima abitudine di fare processi mediatici".

Ora si scopre che la scelta di svicolare di fronte al nostro registratore era per lui obbligata. Scajola - come provano le carte inedite dell’indagine che pubblichiamo oggi - avrebbe dovuto ammettere di essere un bugiardo e un evasore fiscale. Non solo. Avrebbe dovuto spiegare perché l’architetto del circolo Salario di Anemone, Angelo Zampolini, accusato di riciclare i soldi della "cricca", ha pagato la splendida magione al Colosseo del ministro: 180 metri quadrati nel palazzo abitato da vip come Raoul Bova e Lory del Santo. Ieri Il Fatto quotidiano aveva pubblicato l’atto di acquisto nel quale il ministro dichiarava di avere pagato alle sorelle Beatrice e Barbara Papa solo 610 mila euro.

Avevamo poi raccontato il nostro colloquio con l’architetto Zampolini che ci aveva detto di essere stato incaricato da Anemone di trovare la casa a Scajola e di avere trattato un prezzo reale molto maggiore di quello dichiarato. Ora la Procura di Perugia nella richiesta di arresto contro Zampolini scrive che l’architetto deve finire in galera con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al riciclaggio anche per gli assegni dell’acquisto di questa casa. Gli episodi nei quali i pm contestano all’architetto di avere prestato i suoi conti per riciclare i soldi della cricca in occasione di compravendite immobiliari sono quattro ma il capo di imputazione contro Zampolini che è destinato a far rumore è quello che, pur non vedendo indagato il ministro Scajola, potrebbe costargli le dimissioni. Zampolini, rischia la galera "perché versando 900 mila euro in contanti presso gli sportelli della Deutsche Bank agenzia 582 di Roma e ottenendo l’emissione di 80 assegni circolari all’ordine di Barbara e Beatrice Papa per valuta corrispondente per l’acquisto nell’interesse di Claudio Scajola di un immobile sito in via del Fagutale intestato al suddetto trasferiva denaro e compiva comunque operazioni tali da ostacolare l’identificazione della loro provenienza da delitti contro la pubblica amministrazione".

Gli ottanta assegni non sono contestati al ministro dello Sviluppo economico che sembrerebbe, almeno da un punto di vista economico, "il beneficiario finale". I pm non vogliono arrestare l’architetto Zampolini perché ha pagato la casa di Scajola ma perché avrebbe nascosto soldi sporchi della "cricca". Insomma per ora i pm si disinteressano (o almeno non ci sono tracce di indagini in tal senso nella loro richiesta di arresto) dell’eventuale vantaggio tratto da Anemone per giustificare tanta generosità. Scajola era stato ministro dell’Interno fino al luglio del 2002 quando era stato costretto a dimettersi dopo aver dato del "rompicoglioni" a Marco Biagi, ucciso dalle Br. Il ministro sarà sentito probabilmente nelle prossime settimane dai pm di Perugia se il Tribunale del riesame confermerà la loro competenza. Certo è che la sua posizione è imbarazzante. Anche perché a rendere il quadro più fosco ci sono gli altri casi in cui Zampolini ha usato gli assegni circolari per nascondere l’origine delittuosa dei soldi della "cricca". A Zampolini si contestano altre due operazioni. La prima è stata fatta versando sul solito conto corrente della Deutsche Bank “danaro contante per euro 435 mila che nei giorni successivi permetteva l’emissione di assegni all’ordine di Geraldini Manfredi". Con quegli assegni, secondo l’ipotesi dell’accusa, il figlio di Balducci, Lorenzo, avrebbe pagato un immobile comprato dalla società di Geraldini Manfredi nel 2004 in via della Pigna, a due passi dal Pantheon. La terza persona beneficata dagli assegni di Zampolini è il generale dell’Aisi, responsabile della logistica del servizio segreto, Francesco Pittorru (anche lui non indagato come Balducci Jr e Scajola).

Nel 2004 Zampolini avrebbe emesso 29 assegni circolari per 285 mila euro complessivi che poi sarebbero stati usati per pagare la casa di via Merulana intestata ai figli del generale. Due anni dopo la scena si ripete. Zampolini stavolta emette assegni circolari sul suo conto per 520 mila euro che poi vengono usati per acquistare una seconda casa di fronte alla prima e più grande, sempre per il generale e per sua moglie.

LEGGI: Soldi sporchi, false fatture e un film mai realizzato di Antonio Massari

Da il Fatto Quotidiano del 29 aprile

http://antefatto.ilcannocchiale.it/glamware/blogs/blog.aspx?id_blog=96578&id_blogdoc=2481642&title=2481642

Assemblea azionisti Telecom Italia - intervento di Beppe Grillo

mercoledì 28 aprile 2010

Schifani e la libertà di stampa - Marco Lillo e Peter Gomez


28 aprile 2010
La citazione del presidente del Senato mette in gioco una delle regole fondamentali delle democrazie liberali: gli elettori hanno il diritto di sapere tutto sui politici per poi sceglierli o bocciarli con il voto

Le 54 pagine della citazione civile notificate ieri a Il Fatto Quotidiano dal presidente del senato, Renato Schifani, spiegano bene quale considerazione abbiano della libertà di stampa molti esponenti delle nostre classi dirigenti. Nei mesi scorsi, come è noto, questo giornale ha pubblicato più puntate di una lunga inchiesta sulla vita umana e professionale della seconda carica dello Stato e alcuni pezzi di commento sulle risposte (mancate) di Schifani. L’indagine giornalistica si è rivelata quanto mai opportuna. Dopo i primi articoli è tra l’altro emerso come il nome di Schifani, già citato da altri collaboratori di giustizia, fosse stato fatto anche di recente da due protagonisti della storia di Cosa Nostra palermitana: Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito, e Gaspare Spatuzza, il braccio destro ora pentito dei fratelliGraviano, i boss di Brancaccio condannati per le stragi del 1993. E le loro dichiarazioni, vista l’importanza delle persone tirate in ballo, sono state ampiamente riprese da giornali e agenzie.

Ora, è bene dirlo subito, nè Ciancimino, nè Spatuzza, hanno imputato a Schifani dei reati. E nemmeno lo avevamo fatto noi de
Il Fatto con le nostre inchieste. Ciancimino ha raccontato come il presidente del Senato da giovane fosse stato l’autista del potente senatore fanfaniano, Giuseppe La Loggia, solito accompagnarlo alle riunioni con l’eurodeputato Salvo Lima e suo padre Vito. Spatuzza ha poi sostenuto di aver visto Schifani mentre, al fianco del suo clientePippo Cosenza, s’incontrava nei primi anni novanta con Filippo Graviano. MentreIl Fatto Quotidiano ha ripercorso i rapporti societari e professionali del senatore azzurro, rivelando come tra questi ve ne fossero stati molti con persone poi ritenute o mafiose, o contigue o complici di Cosa Nostra.

Se non si vogliono ridurre i giudizi politici su chi rappresenta i cittadini nelle istituzioni alla categoria (giudiziaria) del colpevole o innocente, ci pare sia necessario partire proprio da notizie come queste. Specie quando sono numerose e reiterate nel tempo. Nelle democrazie liberali le regole del gioco sono chiare. La selezione delle classi dirigenti, e ancor più quella delle altissime cariche istituzionali, non viene demandata alla magistratura, ma all’opinione pubblica. L’elettore ha il diritto di sapere tutto sul suo candidato per poi sceglierlo o bocciarlo al momento del voto (o almeno era così finchè ci veniva data la possibilità di esprimere le nostre preferenze).
Il Fatto si è sempre mosso - e continuerà a muoversi - proprio in questa convinzione. E per dar modo al senatore Schifani di offrire la sua versione, o di contestare eventuali inesattezze rispetto a quanto da noi scoperto, prima di scrivere, lo ha contattato via e-mail o attraverso il suo portavoce. Il presidente del Senato, pur informato nei particolari, non ha mai voluto rispondere.

Oggi leggendo la citazione in giudizio con cui Schifani chiede un risarcimento da 720mila euro si comincia a intuire il perché. In 54 pagine il senatore bolla come "falsa" (e vedremo poi quale) solo una delle decine di notizie su di lui riportate da
Il Fatto Quotidiano . Schifani invece si lamenta genericamente perchè "gli autori hanno tratteggiato, con dichiarazioni altamente diffamatorie, la figura dell’attore (lui, il presidente del Senato, ndr) come quella di un soggetto vicino agli ambienti della criminalità mafiosa, ledendone la sua reputazione, dignità e prestigio professionale e personale". L’unica prova addotta non è però il contenuto degli articoli o delle inchieste portate in giudizio, ma è una vignetta-fotografica del 22 novembre, pubblicata nella rubricaSatire&satiriasi.

Un’immagine in cui Schifani, immortalato mentre offre la mano stesa a alcuni parlamentari, appare circondato da persone a cui viene fatto dire "bacio le mani". In casi come questi più che invocare il diritto di satira, serve invece ricordare la storia. La libertà di parola è nata nel ‘700 per poter parlare male di chi stava al potere. Per parlarne bene, infatti, c’erano già i cortigiani.

Ma andiamo avanti. Quale sia la filosofia che sta alla base della citazione lo si capisce leggendo le pagine 29 e 30 del documento.
Il Fatto il 20 novembre per la penna di Marco Lillo ha pubblicato un articolo dal titolo: "Schifani e la casa della mafia". È la storia di un palazzo abusivo, quasi interamente costruito e abitato da parenti o esponenti di famiglie mafiose. A opporsi allo scempio edilizio erano due palermitane, le sorelle Pilliu, che proprio per questo furono anche ascoltate informalmente da Borsellino prima della morte. Schifani, con un suo collega di studio, assisteva invece dal punto di vista amministrativo il costruttore Pietro Lo Sicco. Il nipote di Lo Sicco, Vincenzo, dopo essere stato collaboratore dello zio ha avuto il coraggio di rompere con quel mondo e di testimoniare contro il suo familiare. Il Lo Sicco "buono" ha sostenuto in aula che Schifani si vantò con lui di aver salvato palazzo “facendolo entrare in sanatoria durante il governo Berlusconi” e che la sanatoria era "riuscito a farla pennellare in quello che era l'esigenza di questi edifici".

Per la seconda carica dello Stato "non si vede quale sia l’interesse pubblico ad un processo nel quale il presidente Schifani non risulta in alcun modo indagato e ne quale le dichiarazioni rese dal Lo Sicco non sono passate al vaglio della magistratura". In realtà
Il Fatto, dopo aver scritto, chiaramente che i pm non avevano ritenuto di mettere Schifani sotto inchiesta, ha riassunto una serie di elementi che lasciano la porta aperta a interrogativi. Già nel ‘94, pur non essendo formalmente iscritto a partito, Schifani lavorava politicamente al fianco del senatore Enrico La Loggia, capogruppo degli azzurri. Il condono allora varato dal governo Berlusconi, come ammette lo stesso senatore, ha permesso di mettere in regola il palazzo.

Ma c’è di più. Schifani sostiene che è una "affermazione gravemente falsa e ingannevole" scrivere che un emendamento alla legge finanziaria del 2000, presentato da un esponente di Forza Italia, fosse
ad personam perchè sembrava ritagliarsi alla perfezione sugli inquilini dello stabile. Per capire che non è così basta però guardare che cosa è accaduto. Fino a quell’anno chi aveva firmato un compromesso di acquisto per un appartamento in un palazzo abusivo poi confiscato per fatti di mafia, non poteva perfezionare la compravendita. Grazie alla nuova legge sì. Tanto che uno dei promittenti acquirenti (che non citiamo per ragioni diprivacy, visto che non è un politico) è già riuscito a comprare proprio grazie a quella norma, mentre gli altri ci stanno ancora provando. Questi, però, sono particolari da tribunale.

Più interessante è rileggere altri passaggi della citazione. Schifani ci rimprovera di non aver sottolineato che tra la sua clientela vi erano anche molte persone mai incappate in guai di tipo mafioso con la giustizia. E ci redarguisce per non aver detto che da una cooperativa edilizia in cui entrò a far parte molti anni fa uscì già nel 1986. Poi se la prende con
Marco Travaglio che nella sua rubrica lo ha definito un “avvocaticchio di terza fila” prima di descrivere la sua straordinari carriera politica. È un reato tutto questo o è diritto di cronaca e di critica? Prima del giudice, un’idea se la potranno fare i lettori che da oggi troveranno l’atto di citazione di Schifani liberamente scaricabile dal sito dell’Antefatto. Noi invece continueremo le nostre inchieste giornalistiche. E invieremo di nuovo delle e-mail al presidente del Senato. Nella speranza che per una volta ci risponda. Pubblicamente e non in tribunale.



Da
il Fatto Quotidiano del 28 aprile



Je t'aime, (moi non plus) - Andrea Scanzi




La prima e unica esegesi quasi-integrale del Redde Rationem tra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini.
Dopo averla letta, non sarete più gli stessi. O forse sì. Che è anche peggio.

Ho fatto un sogno. Indossavo infradito, bevevo Ronco e ascoltavo Povia. A quel punto ho preferito svegliarmi.
fini_berlusconiHo così potuto vedere, ebbro di gioia e satollo di gloria, il redde rationem tra Ho Chi Finh e il Sultano Tascabile. L’ho trovato eccitante.
Alcune considerazioni.
1) Nemmeno dopo lo scontro, che sembra (ho detto
sembra) aver fiaccato il dominio berlusconiano, Pigi Bersani ha abbandonato quell’aria compassata da triglia agonizzante nei fondali del Vingone.
2) Ha fatto meglio Darko Pancev all’Inter che il Pd in Italia (questa non è mia ma di un lettore, Felix Fè).
3) Ha detto più cose di sinistra Ho Chi Finh in un intervento di dieci minuti che il Dalai Lema in tutta la sua vita. E le ha dette insistendo su temi (legalità e informazione) ritenuti desueti quando non indesiderabili dal Partito Disastro.
4) La tentazione di deificare il Gianfri è, da più parti, alta. Purtroppo ho buona memoria. Di Fini (non) amo ricordare il suo impeccabile operato durante le mattanze al G8 di Genova, la Legge Bossi-Fini (che non si chiama così per omonimia), le parole su Carlo Giuliani (
Un punkabbestia) e Benito Mussolini (Il più grande statista del secolo). Ma capisco che in tale contesto postatomico, persino Fini assurga a meno peggio nel centrosinistra.
5) Ho Chi Finh ha impiegato sedici anni, vissuti mollemente da maggiordomo del Sultano Tascabile, per accorgersi di chi forse è (sia?) Silvio Berlusconi. Nemmeno la Duna smarmittata in salita aveva simili tempi di reazione.
6) Gli uomini più di sinistra in questo paese, oggi, sembrano Antonio Di Pietro, Beppe Grillo, Marco Travaglio e Gianfranco Fini. Ovvero un ex magistrato di destra, un ex comico generalista, un giornalista liberale cresciuto con Indro Montanelli e un ex fascista. Forse c’è un vuoto a sinistra (e non sarà la Serracchiani a riempirlo). Ma forse, eh.
7) Rischio elezioni anticipate. Panico nella sinistra (cit).
8 ) Quando vedo in tivù Renzi e Lady Debora, gggiovani del Pd (acronimo di una bestemmia sprecata), ho quasi nostalgia di Natta. Anzi, tolgo il quasi.
FINI, BERLUSCONI, LA RUSSA, VERDINI9) Il concetto di contraddittorio berlusconiano è stato pienamente mostrato durante il convegno guerreggiante del 22 aprile. Quando parlava Ho Chi Finh, il Sultano Tascabile aveva il microfono e gli interveniva sopra per interromperlo. Quando parlava il Premier, Ho Chi Finh non aveva il microfono e sembrava un pesce fuor d’acqua. E’ laimpar condicio, baby.
10) Si attende a breve un duro e fermo intervento del Dalai Lema, nel corso del quale esorterà a riprendere il dibattito con la maggioranza
, per preservare la democrazia, la Costituzione e soprattutto la sua barca.

Ciò detto, si percepisce un’urgenza di esegesi. Un desiderio, nitido e quasi virulento, di abbeverarsi allo scibile della conoscenza. Si sono per questo scelti dei passaggi cardine, debitamente, acriticamente e doviziosamente sbobinati. Solo per voi, empi comunisti esecrabili.

Arcaismi littori

Gianfranco Fini, quanto a retorica e capacità linguistica, mangia in testa (che poi è anche facile) a Silvio Berlusconi. Ho Chi Finh
defeats Sultano Tascabile 6-3 6-1 3-0 ret. Proprio per questo, in Italia, vince il secondo. Gli italiani si eccitano quando li arringa un furbacchione compiaciuto. Si sentono a casa. E’ un po’ come guardarsi allo specchio.
Fini, al contrario, non solo assurge a “traditore”, titolo che per il centro-destra è spendibile per tutti coloro che anche solo non partecipano alle gare di rutti organizzate ogni mese da Salvini e Borghezio nel sottoscala trevigiano di Gentilini.
Ho Chi Finh è detestato dai suoi (ex) alleati soprattutto in virtù della sua cultura.
Già il Gianfri è sempre stato l’unico, insieme a un mio eteronimo che gioca a Fantatennis, a usare “vi” invece di “ci”. E’ una cosa così desueta da imbarazzare perfino quelli della Crusca. Fini però si compiace di questi suoi arcaismi littori. E per certi aspetti fa bene, rivelandosi sontuoso cesellatore linguistico. Lo si ascolti in questo passaggio, tratto dal
redde rationem di cui sopra. Non berlusconi-fini-largenascondo che, sentendolo, mi sono sentito come Al Bano quando Michael Jackson gli copiò i cigni e la balalaika (?).
Così Ho Chi Finh: “Vedi (
rivolto a Berlusconi) il tradimento, che certamente è sempre nel novero (primo arcaismo littorio) dei comportamenti umani poco dignitosi (Bondi alza lo sguardo, sentendosi subito chiamato in causa), alligna (secondo arcaismo: “alligna” credevo di usarlo solo io) in coloro che sono adusi (terzo arcaismo: anche “adusi” credevo di sfoderarlo solo io in questa rubrica, uffa) all’applauso e in molti casi alla critica approvazione, salvo poi, quando i leader girano le spalle, dire tutt’altro. Raramente il tradimento è nella coscienza di chi si assume, in pubblico e in privato, la responsabilità delle proprie azioni”.
A questo punto, comprensibilmente, dopo aver sentito parlare di coscienza e coerenza, Berlusconi lo interrompe. Non si parla di corde in casa dell’impiccato (cit).

L’irata reprimenda (Parte 1)
Berlusconi reagisce e troneggia: “Noi siamo il partito della moderazione (e dell’ammmmmore), io pregherei anche (anche) tutti di f_23bd9f59d7707458276b7211e2c228d0essere moderati in (?) qualunque espressione dovesse capitare (un perfetto inizio berlusconiano, che nega dalle fondamenta tutto ciò che di lì a poco seguirà). (..) Il nostro partito è stato esposto al pubblico ludibrio (porca di una miseria ladra, questi qua del centrodestra mi copiano. MI COPIANO. Ma chi usa ancora “aduso”, “pubblico ludibrio” e “alligna” a parte me? Chi? Se domani li sento dire “zimbellato” e “daje”, giuro che faccio la marcia su Roma indossando la Tenuta Balilla in latex equino di Gasparri) da parte di presenze in televisione di Bocchino, di Urso, di Raisi (e aggiungerei anche di Maurizio Lupi, che però a Berlusconi gli carica. Si veda reperto audio poco sotto). (Tripudio tra la folla, sembra quasi di essere ai concerti di Povia. Se solo ai concerti di Povia ci fosse il pubblico). E… anche… prendo atto con piacere(Fini, seduto, ripete a bassa voce: “Non te lo consento”) che Gianfranco ha cambiato posizione, ma quando io e Gianni Lett… (Fini si alza e ripete: “Non te lo consento”). Hai cambiato totalmente posizione. Allora Gianfranco, allora parliamoci chiaro (e sarebbe anche ora). Sono venuto da te martedì e davanti a Gianni Letta mi hai detto: Punto primo (non credo che Fini abbia iniziato bondiuna frase così) mi sono pentito di avere collaborato a fondare il Popolo della Libertà (come non capirlo: però i tempi di reazione restano quelli della Duna smarmittata). Punto secondo (non credo che Fini parli come un file word con l’indice numerato) voglio fondare un gruppo parlamentare diviso (Fini gli ricorda il caso Sicilia-Miccichè. Attenti, qui Berlusconi dà il meglio di sé). Punto terzo… e io ti ho chiesto (?) La Sicilia ti rispondo subito. Per iniziativa di Ignazio La Russa (andiamo bene, vai) abbiamo fatto una riunione coi tre coordinatori ed (ED? ED?? ED??? Ma come si fa a usare la “ed” eufonica, peraltro qui sbagliata, nel parlato? Cos’è, uno scherzo????) in presenza di una campagna elettorale abbiamo deciso io hooooo assunto (mah) ascoltato la loro decisione (boh) mi sembrava molto saggia (come tutto quanto nasce da una iniziativa di La Russa, certo) di soprassedere ad affrontare il problema della Sicilia per dopo le elezioni regionali (l’urgenza della questione morale), perché era inutile (senz’altro) proporre anche il problema della Sicilia nel mezzo di una campagna elettorale. E se mi consenti, se è vero che è stato Gianfra….eeehhhh….Gianfranco Miccichè, il…leader (parola grossa, “leader”, applicata a Miccichè) di questa situazione, sei stato tu che hai dato l’acconsentito (sob) ai tuoi uomini di partecipare alla decisione stessa (mi sono perso). Ed è ci sono (?) otto uomini tuoi mi pare in quello che si chiama Popolo della Libertà Sicilia, su cui (???) nell’ultima riunione dei coordinatori si è deciso da (di) intervenire da martedì prooooossimo. Quindi questa è la realtà: non cambiamo le carte in tavola (ci pensa lui da solo)”.

Intermezzo ameno 1: quel gran figo del Lupi

Maurizio Lupi, con quel volto increspato di chi ha annusato i propri calzini rimanendo deluso dagli effluvi, vive e glorifica su RaiDue
Maurizio_Lupialla vigilia del redde rationem: “Guarda Italo (Bocchino) se andiamo avanti così, stiamo dando uno spettacolo pessimo della politica e pessimo del partito (l’unica cosa condivisibile che ha mai detto Lupi in vita sua). (..) Queste cose (di Bocchino) le sentivo da Di Pietro, le ho sentite da Travaglio e adesso le sento da te (Urso grida “Basta Lupi basta!”). Ma basta cosa? Ma cosa stai dicendo? (Urso insiste e gli chiede di dissociarsi dagli attacchi del Giornale di Feltri a Fini). No aeeeh (uagliò, in goppa jamme jà) guarda che non sei in An o nel vecchio Msi, eh (Urso incalza). Calma eh, ueeeh (e niente, dai: quel giorno Lupi si sentiva Cannavaro in quel vecchio spot, “Capo ridatece o’ pallone, ah”). Eh io non condivido il tit… uehhh (eddai)…aspetta ‘Basta’ non lo dici a nessuno. Ascolta un po’. Fai una domanda e ti rispondo. Non condivido… Ooooooooohhh mi fai rispondere o no? (urla con la manina destra semichiusa, tipo Pulcinella: tu vuo’ fa il napoletano, napoletano, ma si nato a Milano’). Ma sei fuso? Ma sei un po’ nervoso, eeehh? (momenti di altissima televisione. Bocchino lo zimbella per aver fatto parte di Comunione e Liberazione – in effetti). Italo, forse è meglio se vai presto via (al confino)”.
Lupi è una garanzia. Come la Nutella rancida.

Le comiche

Silvio Berlusconi tiranneggia: “Io credo che anche per quanto riguarda
Il Giornale bisogna dirne una, Gianfranco. Te l’ho spiegato…cento volte… che io non parlo con il direttore del Giornale (ahahahahahah), che non ho alcun modo per influire (AHAHAHAHAHAH), ma che a seguito eh ah eggg (solita citazione da Java, l’amico neanderthaliano di Martin Mystère) della posizione del Giornaleho convinto un mio familiare (uno qualsiasi, eh: mica il fratello) a mettere in vendita il Giornale. E ti ho anche detto ‘Se c’è qualche imprenditore vicino a te che vuole entrare nella compagine azionaria (brusio: questa è troppo grossa anche per loro) amico di uegheeeeehhhueeegheghe (testuale) può entrare nella compagine azionaria (tanto per dare ulteriore nitore alla libertà di stampa italiana).

Il giustizialista Ho Chi Minh

Fini qui esagera: “E’ arrivato il momento di dirle davanti a tutti, altrimenti ci prendono entrambi per matti (
in effetti). Quando si ipotizzava fini_berlusconi_(platea inferocita, Fini sta difendendo i magistrati: SACRILEGIO) quando si ipotizzava la prescrizione breve, 600mila processi che venivano cancellati dalla sera alla mattina, un’amnistia mascherata (Berlusconi interviene: “Su otto milioni”. Come se fosse un’attenuante) ma mi spieghi che cosa significa tutela della legalità, riforma della giustizia, lotta alla politicizzazione della magistratura se poi passano questi messaggi?”. Qui non faccio ironia: dico solo che il Pd non ha mai detto un decimo di quanto asserito (?) in quei pochi secondi da Gianfranco Fini.


L’irata reprimenda (Parte 2)

Berlusconi vivifica: “Scusami, ma io intendo (?) che un Presidente della Camera non debba potere fare dichiarazioni politiche (che non lo glorifichino: se invece parla Schifani gli va bene) e fare l’attività dell’uomo politico (gesticola nervosamente: passare da Fini a Berlusconi, per un esteta della lingua, è come slittare da John McEnroe ad Andreasssssseppi). Vuoi…. Eeeegggggaaahhh (qui si è sfiorata la tragedia, già Cicchitto piangeva) averelapossibilitàdifarequestedichiarazioni (tutto attaccato). Ti accogliamo a braccia aperte (sì, come no), le fai da uomo politico nel partito e non da Presidente della Camera (un ragionamento che ovviamente non ha alcun senso, e per questo parte l’applauso della platea. Il nonsense democratico li gasa).

Io quasi quasi me la porto via, democrazia (cit)
Berlusconi al Secolo XIX: “È quasi finita, manca un niente e finalmente è fuori, non ne potevo più. Basta con quei suoi modi arroganti (ha parlato Galateo), con quel suo tono sprezzante. Lo avete visto? Sembrava uno venuto dalla Luna, l’ho provocato e poi umiliato (ma anche no). Ma ora glieli sfilo uno per uno (regalandogli dei Suv), me li compro tutti“ (a lui queste cose gli caricano, Viva l’Italia, viva Berlusconi, cit).

Intermezzo ameno 2, Don Abbondi prefigura (prefigura, prefigura, etc)
Sandro Bondi cesella: “Non è uno yes man (allude a chi come lui ha il culto del Premier). Non ci sono tra di noi uomini sandro-bondi-pregaliberi (d’accordo) e servi (un po’ meno d’accordo). Questa è una dicotomia che non esiste, non esiste questa dicotomia (Bondi parla spesso così: dice la stessa frase sette volte, ma la spezzetta cambiando l’ordine degli addendi. Più che poesia è algebra, ma il pubblico va in visibilio e plaude). (..) Si esercita da tempo nella critica de-mo-li-tri-ce (quel comunista di Fini, fanculo a lui e al suo amico Fidel) della nostra storia (che non esiste) e della leadership di Berlusconi (sempre sia lodato) prefigurando prefigurando – è legittimo farlo (si risponde da solo) – prefigurando prefigurando (HO CAPITO, CAZZO) – è legittimo farlo (HO CAPITOOOOO) – prefigurando (BASTAAAAAAA) non un partito che cresce insieeeemeeee (a te non ci sto più, guardo le nuvole lassù, finisce quaaaaaaaa-ah-ah-ah-ah-ahhhhh), ma prefigurando (ORA SPACCO QUALCOSA, GIURO) un’altra destra (magari) un’altra politica (volesse il cielo) un’altra Italia (vamos). E tutto rispetto ad un supposto tramonto di Berlusconi (che non accadrà mai, giacché se anche accadesse Egli risorgerebbe) e del leghismo trionfante. Il Dottor Filippo Rossi, un altro esponente di Farefuturo (quegli stronzi) non si è fatto scrupolo nel parlare di uno scontro (alza il ditino cicciuto) e di una differenza culturale tra Fini e Berlusconi (nel senso che in un caso c’è e nell’altro no), una differenza tra chi – cito testuale amici (amico mio NO di sicuro) – “tra chi considera il potere una cosa privata, fine a se stessa, senza ideali, senza contenuti, senza obiettivi (bravo, ‘sto Dottor Rossi) e chi lo considera al servizio dei cittadini, al servizio (qui non sa leggere, si guarda smarrito: è abituato alle sue poesie, che hannobondi prefigural’unico merito di durare poco) del paese. Purtroppo queste parole, che io ritengo personalmente (mano al cuore, cioè in un punto a caso del pingue sterno) non solo infondate, ma perfino offensive (molto offensive: perfino intelligenti, oserei dire) queste opinioni non sono mai state contraddette (tripudio nella folla). Non sono mai state contraddette (oddio ricomincia con l’effetto eco. BASTAAAAA). Non sono mai state … (oddio no, no, no: non RIDIRLO)… non sono mai state smentite (non ne posso più: ti vuoi chetare una buona volta?) né quantomeno corrette (o meglio ancora messe al rogo, possibilmente con l’autore stesso). Mi chiedo amici (guardatevi da chi vi chiama “amici”, sicuramente è astemio e indossa le infradito anche lui), si può stare in un partito e sostenere che il suo fondatore (cioè Dio, o uno comunque da Egli unto di persona) che ha avuto forse un certo ruolo nell’evoluzione della destra in Italia, si può stare in un partito e sostenere che il suo fondatore (L’HAI GIA’ DETTO, CAZZO. L’HAI GIA’ DETTO. ORA GLI TIRO UN TRONCO) rappresenterebbe un modello da ripudiare?”.
E fu Apoteosi. La loro. E Golgota. Il nostro.

Epilogo (il Sonno di Dini)

Durante tutto questo gran casino, mentre Berlusconi e Fini urlavano, Lamberto Dini – seduto poco distante dall’ex delfino di Giorgio
dini regnaAlmirante – dormiva. Sì: dormiva: Beato, rilassato. Non si è mai svegliato, nonostante le urla, i lazzi e i frizzi. Lui dormiva.
Quasi come un bambino rugoso, quasi come Brad Pitt nelle scene iniziali di Benjamin Button.
Qualcuno ha ironizzato: come faceva a dormire, in mezzo a quel disastro?
Forse però aveva ragione lui. Forse il sonno di Dini era una reazione del sistema immunitario.
Forse il suo
ronf era la recensione migliore di questo perdurante scempio.

P.S. E ora scusatemi, ma vado a iscrivermi su Facebook al gruppo Quelli che amano Sandro Bondi quando spacca la chitarra sul palco dopo aver suonato Foxy Lady.

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