Non v’è dubbio che l’intervista fatta a Riccardo Iacona è molto impressionante. Egli descrive una situazione quasi da bolgia infernale che sarebbe presente nelle carceri italiane. Io che di carceri ne ho diretto una trentina in 40anni sono molto sorpreso dai contenuti dell’intervista, che sembra generalizzare situazioni di disagio estremo presenti in quella forma acuta in carceri antichi come Poggioreale a Napoli o in carceri moderne come la Dozza di Bologna. Io aggiungo carceri vecchie come San Vittore a Milano (costruito nel 1879), Regina Coeli a Roma (un convento adattato a carcere nel 1881, l’Ucciardone a Palermo (progettato come carcere nel 1800 ed entrato in funzione nel 1842).
Ve ne sono altri, ma ai fini del presente commento non interessa.
Spero che Iacona, bravo giornalista, si sia occupato anche di carceri che funzionano, come la II^ casa di reclusione di Milano-Bollate.
Per primo desidero parlare delle immagini presentate nel video. La maggior parte sembra non sia si carceri italiane, le celle sono di tipo cubicolare, delle quali ne sopravvivono poche unità (per certo ad Alessandria, carcere che io diretto, salvo da allora i cubicoli non siano stati modificati con imponenti lavori strutturali, mentre la Casa di Reclusione di Firenze, dove ho prestato servizio quale vicedirettore è stata dismessa contemporaneamente alla casa circondariale – non a sistema cubicolare – per l’entrata in funzione del nuovo carcere di Firenze-Sollicciano).
Ma soprattutto io non ho contezza di celle affiancate e numerate.
Iacona afferma che le carceri in Italia sono “luoghi di tortura” e basta, dando l’impressione che si pratica la tortura fisica, il che, ovviamente, non è vero. Quindi, si tratta di sollecitazioni anche gravi di natura psicologica, nettamente connesse col sovraffollamento, affermando – ed è vero – che alcune carceri hanno il doppio dei detenuti previsti dalla capienza.
Poi passa a descrivere la vita interna a Poggioreale, il carcere vecchio di Napoli, laddove i detenuto languono in cella per 22 ore su 24, ed è vero, per mancanza di attività trattamentali e di tempo libero pur previste dall’ordinamento penitenziario e dal suo regolamento di esecuzione. Le due ore sono distribuite nel passeggio nei relativi cortili all’aria aperta, un’ora al mattino e l’altro al pomeriggio.
Egli afferma che, rebus sic stantibus, l’esecuzione della pena detentiva sono soldi buttati via, perché ogni detenuto costa intorno ai 150 euro al giorno. Anche questo è vero come è vero che un giornalista deve svolgere attività di denuncia e non deve presentare soluzioni, che non gli competono.
Passando ad esaminare i motivi del sovraffollamento, lavoro improbo, Iacona li individua in tre leggi che definisce criminogene: 1) la Bossi-Fini; 2) la Giovanardi-Fini; 3) la ex-Cirielli.
Non chiarisce perché ma l’ambito di una intervista non consente chiarimenti agevoli.
LA BOSSI-FINI (IMMIGRAZIONE)
Fissa dei limiti molto ristretti per l'immigrazione regolare(bisogna già avere un contratto di lavoro prima di partire) e riduce la durata del permesso di soggiorno (due anni).
In pratica da un lato non tiene conto che è davvero raro che qualcuno venga assunto a distanza senza nemmeno un colloquio, e dall'altro impone il rinnovo del permesso ogni due anni indipendentemente dalla durata del contratto.
Parallelamente introduce sanzioni penali anche per quelle violazioni precedentemente sanzionate solo in sede amministrativa.
Si realizza dunque un meccanismo secondo il quale la difficoltà di adempiere alle prescrizioni induce più facilmente alla violazione. E, inoltre, sanzionare allo stesso modo comportamenti diversi significa non già scoraggiarli, ma far ritenere "conveniente" commettere il reato più grave.
LA GIOVANARDI-FINI (DROGA)
La nuova legge sulla droga, la Fini-Giovanardi, non fa più alcuna distinzione tra le varie sostanze ai fini della determinazione delle sanzioni, ossia delle pene detentive. Tutte sono state aumentate, indistintamente.
Ciò provoca l'orientamento della criminalità sullamassimizzazione del profitto. In pratica visto che il rischio di condanna è uguale, meglio spingere le droghe che costano di più e rendono di più. Naturalmente sono quelle dagli effetti più dannosi.
Morale: più di un terzo della popolazione carceraria totale è rappresentato da detenuti accusati di reati connessi agli stupefacenti.
In sintesi: la nuova legge ha eliminato il criterio della “modica quantità” per uso personale per introdurre le soglie massime consentite.
Oltre questa soglia qualunque siano le condizioni soggettive, le circostanze del fatto, non si può mai parlare di detenzione per uso personale ma di spaccio. Dunque la pena va da 6 a20 anni.
In teoria il principio potrebbe essere giusto ma in pratica si rivela dannoso.
Ecco perché: le tabelle fissano i limiti di possesso personale di “principio attivo” – e non di stupefacente complessivamente inteso - di ciascuna sostanza.
Ora il punto è questo: un assuntore di cannabis (ad esempio) che è riuscito a trovare sostanza più “pura”, dove il principio attivo è al 20 per cento (accade spesso a coloro che se la producono da soli coltivandosi le piantine nell’orto), va in galera per 10 anni se viene beccato con 5/7 spinelli perché si suppone, automaticamente, che sia uno spacciatore.
Al contrario (cosa che accade molto frequentemente) le organizzazioni criminali, dopo la legge, hanno quasi dimezzato il principio attivo in modo che uno spacciatore di cocaina sorpreso con 20 dosi pronte per essere vendute possa agevolmente sostenere che si tratti in realtà di uso personale perché il principio attivo non supera la soglia della tabella legislativa.
Ciò provoca due conseguenze:
1) mettiamo in carcere i consumatori “privati” etichettandoli come spacciatori.
2) lasciamo liberi, e gli paghiamo anche una riabilitazione che in realtà non serve a nulla, degli spacciatori professionisti alle dipendenze della criminalità definendoli semplici consumatori.
Per giunta quella stessa criminalità, diminuendo la quantità di principio attivo, raddoppia i propri guadagni e, come non bastasse, adoperando spesso per il taglio sostanze dannose fa aumentare i morti.
LA EX-CIRIELLI (PRESCRIZIONE)
Con la riforma introdotta dalla legge 251 del 5 dicembre 2005 (la cosiddetta ex - Cirielli), il tempo necessario per la prescrizione corrisponde al massimo della pena edittale, cioè della pena prevista dal codice penale senza tenere conto di attenuanti o aggravanti che possono, in concreto, far aumentare la condanna sotto il minimo o oltre il massimo rispetto a quanto previsto dal codice.
Oggi ciò che conta è la pena massima: se è di 7 anni il reato si prescrive in 7 anni (e non in 10 come prima), se è di 10, indieci anni.
Sono però previsti due “limiti”: nessun delitto può prescriversi in meno di 6 anni (ad esempio per l’abuso d’ufficio la pena massima è 3 anni ma la prescrizione è di 6), e nessun reato contravvenzionale si può prescrivere in meno di 4 anni.
Che significa tutto questo?
Oggi, il reato di ricettazione (pena massima stabilita dal codice: 8 anni) si prescrive, appunto, in 8 anni. Prima invece siccome 8 sta tra 5 e 10 si prescriveva in 10 anni.
In sostanza la prima conseguenza della riforma è che la prescrizione è stata quasi sempre ridotta, almeno per i reati più gravi.
E visto che non è stato fatto nulla per abbreviare i tempi della giustizia questo significa che sono di più i processi che si concludono con la prescrizione.
Una seconda conseguenza è che al contrario i reati di minore importanza (come il disturbo della quiete pubblica che certo non crea alla società gli stessi problemi della corruzione) si prescrivono in tempi più lunghi.
RIASSUMENDO
Il fatto più grave è che la criminalizzazione di comportamenti non previsti come reato o l’aggravamento della sanzione detentiva per reati di minimo allarme sociale, comporta l’effetto definito “massimizzazione dei profitti”. E ciò in riferimento alla clandestinità e al relativo reato, che comporta però solo una sanzione pecuniaria che l’interessato non potrà mai pagare, visto che è povero in canna, che produce la involuzione del comportamento criminoso verso altri reati, tipico quello ben più grave di spaccio di sostanze stupefacenti.
Quanto sopra è evidente soprattutto per la Bossi-Fini e perla Giovanardi-Fini, mentre la ex-Cirielli accorcia i termini di prescrizione dei reati gravi, riducendola ad almeno sei anni, e allunga tali termini per i reati contravvenzionali, che adesso si prescrivono tutti in 4 anni.
Nel redigere questi chiarimenti sulle tre leggi ho chiesto aiuto al dr. Roberto Ormanni e alla sua sapienza giuridica.
Tornando all’intervista di Iacona, i dati che egli fornisce sono impressionanti.
Il 30% di detenuti stanno in carcere per reati di tossicodipendenza o ad essa connessi, per gli stessi, sostiene a ragione Iacona occorrerebbero cure presso comunità protette esterne al carcere. Però, ve ne sono pochissime e non sono praticabili per reati commessi in stato di assunzione di droghe, di evidente maggiore gravità. Dunque le comunità potrebbero curare solo i detenuti tossicodipendenti trovati in possesso di droghe con principio attivo superiore alle tabelle.
Ciò non consente di definire il carcere una ‘discarica sociale’, considerato che detenuti per possesso di droga per uso personale non sono la maggioranza.
Poi vi sono un 30% di stranieri ed un 20% di detenuti affetti da turbe psichiche (17.000 unità).
Infine, i detenuti autori di reati gravi sono il 4%, quindi mancano all’appello un16% di detenuti non incasellati in una categoria.
Quindi, il giornalista tocca il tema della estrema povertà. A Natale 2010 nel carcere La Dozza di Bologna il 50% dei detenuti avevano 10 euro sul conto corrente carcerario.
Quindi sono poveri già in libertà che diventano ancor più poveri in carcere, dove non ci sono, aggiungo io, attività lavorative remunerate, posto che il lavoro è considerato a ragione dal legislatore come il vero fattore risocializzante.
Quindi propone la riforma del Codice Penale, nel testo licenziato da Giuliano Pisapia, depenalizzando circa 300 tipi di reato (Bruno Tinti parlava di 200). Mi chiedo quanti di essi prevedono la carcerazione preventiva (custodia cautelare) e una pena detentiva tale da non consentire l’accesso alle misure alternative alla detenzione (4 anni pena detentiva anche residua).
Però è certo che senza intervenire sulla legislazione penale, eliminandone storture e illogicità, l’aumento dei detenuti non si fermerà.
Alcune opinioni di Iacona sembrano conseguenza di disinformazione. Chi entra in carcere non diventa un numero, non indossa la casacca a strisce col numero di matricola stampato sul petto, non viene chiamato col numero ma con nome e cognome.
Altrettanto accade per il personale del carcere.
Ciò non vuol dire, però, che si abbia molta cura, oggi, del profilo umano dei detenuti, non sempre per motivi ideologici, spessissimo per carenze di ogni genere.
Per i detenuti provenienti dalla libertà mai stati in carcere c’è un servizio specifico, chiamato “Nuovi Giunti), vero è che lo psicologo addetto nei carceri di media e piccola grandezza ha contratti di lavoro a tempo determinato di pochissime ore (Iacona dice 28, in realtà il numero di ore è variabile in ordine alle risorse economiche assegnate. Ma uno psicologo non è una unità di personale (tra l’altro, non lavoro subordinato), è una unità lavorativa qualificata.
Tra le cause di suicidio di detenuti (66 l’anno 2010) Iacona individua la vergogna per essere finito in carcere, può essere ma da sola non basta. Fortemente condizionante è il clima psicologico cupo che caratterizza il carcere, anche il meglio organizzato, che finisce col rompere un fragile equilibrio psicologico con conseguenze nefaste.
http://ilgiornalieri.blogspot.com/2011/01/viaggio-nellinferno-delle-carceri.html