Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
lunedì 12 ottobre 2009
Al processo contro Provenzano nuove ombre su Forza Italia
MISTERI Nell’udienza romana nuove rivelazioni di Antonino Giuffrè. Il collaboratore racconta delle missioni di don Vito nella Capitale e come “Binnu”, nel periodo di sommersione, fosse impegnato a riformare l’organizzazione.
E’ in trasferta a Roma, nell’aula bunker di Rebibbia, il processo al generale Mori e al colonnello Obinu, per ascoltare il collaboratore Nino Giuffrè. Il processo è relativo alla fuga di Bernardo Provenzano, come denunciato dal colonnello dei carabinieri Michele Riccio, il 31 ottobre 1995 in una cascina a Mezzojuso. Secondo Riccio, l’ex capo dei Ros avrebbe in qualche modo consentito che il boss si allontanasse indisturbato.
«Informai il colonnello Mori - ha dichiarato al processo Riccio -. Lo chiamai subito a casa per riferirgli dell’incontro e rimasi sorpreso, perché, non me lo dimenticherei mai, non vidi alcun cenno di interesse dall’altra parte». Secondo il collaboratore di giustizia, ascoltato invece in questi giorni, durante il cosiddetto periodo di sommersione, il capo della nuova Cosa nostra, Bernardo Provenzano, avrebbe portato avanti una trattativa per risolvere i gravi problemi che stava attraversando la mafia e causati dalla forte pressione dello Stato in seguito alle stragi del ’92. I temi erano la confisca dei beni, gli ergastoli, i collaboratori di giustizia, i benefici carcerari.
La trattativa, in una prima fase, avvenne tramite Vito Ciancimino. Giuffrè, in relazione alla trattativa, ricorda come Provenzano dicesse di Ciancimino, quando questi si recava a Roma, che era «andato in missione», e poi in seguito come si consolidasse il contatto che avrebbe consentito l’aggancio con un nuovo interlocutore politico: Marcello Dell’Utri. I rapporti con il senatore Dell’Utri, sempre secondo Giuffrè, sarebbero stati intrattenuti tramite diversi intermediari, in particolare il costruttore Ienna e i fratelli Graviano. A conclusione dell’udienza, il collegio giudicante ha deciso di ascoltare in aula, questa volta a Palermo, Luciano Violante e Giovanni Ciancimino, l’altro figlio di Vito Ciancimino che ha iniziato a rilasciare dichiarazioni solo di recente. Ma torniamo alla vicenda che ha dato il via a questo processo, e quindi all’incontro di boss a Mezzojuso dal quale fuggì indisturbato il capo di Cosa nostra.
Il colonnello Riccio era sul posto, avrebbe potuto intervenire immediatamente appena avuto il via libera dal capo dei Ros in Sicilia. «Mi disse che preferiva impegnare i propri strumenti, dei quali al momento era però sprovvisto - prosegue Riccio nel suo racconto -. Noi eravamo pronti e non ci voleva una grande scienza per intervenire ». L’ufficiale ha parlato anche di un incontro a Roma fra Luigi Ilardo, vice del capo mafia di Caltanissetta “Piddu” Madonia e affidato direttamente a Riccio, del quale era diventato confidente, il colonnello e Mori. «Quando lo portai da Mori, Ilardo gli disse: “In certi fatti la mafia non c’entra, la responsabilità è delle istituzioni e voi lo sapete”. Io raggelai». Dopo qualche mese Ilardo venne ucciso a Catania, pochi giorni prima del suo ingresso “ufficiale” nel programma di protezione per i collaboratori.
Ilardo aveva parlato esplicitamente anche di un contatto tra Provenzano e Dell’Utri, «l’uomo dell’entourage di Berlusconi», e di un «progetto politico», la nascita di Forza Italia, che interessava ai vertici della Cupola mafiosa. E motore di quel nuovo progetto politico, non a caso, era proprio l’allora capo di Publitalia Dell’Utri. Nel 2002, nel corso di un’altra udienza, Riccio ha raccontato di un incontro con l’avvocato Taormina e Marcello Dell’Utri: «Mi venne detto che sarebbe stato positivo per il senatore Dell’Utri se nella mia deposizione avessi escluso che era emerso il suo nome nel corso della mia indagine siciliana».
http://www.terranews.it/news/2009/10/al-processo-contro-provenzano-nuove-ombre-su-forza-italia
E Silvio chiese una mano a Vladimir
Alla vigilia del terzo anniversario dell’assassinio di Anna Politkovskaja il 7 ottobre del 2006, Sandro Ruotolo riceve una lettera anonima che lo minaccia di morte. Poi questo 7 ottobre la notizia su il Corriere della Sera che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi "sospetta una manovra anti-nazionale" e "per capire cosa gli stia succedendo, avrebbe chiesto aiuto ai servizi di una potenza amica ma non alleata".
Ritorna in mente le immagini della conferenza stampa congiunta Putin-Berlusconi a Villa Certosa. La domanda rivolta a Putin da una giornalista russa: "E’ vero che lei vuole divorziare? Non pensa a sua figlia, che oltretutto vive all’estero?" La prima risposta la fa Berlusconi con un sorriso in bocca, i due indici puntati su di lei mima un mitra. Più tardi, la cronista, Natalia Melikova della Nezavsinaya Gazeta, è scoppiata in lacrime: "Ho visto il gesto del vostro presidente e so che scherza sempre. So che il gesto non avrà alcuna conseguenza". La Federazione Nazionale della Stampa ha definito "imbarazzanti" le battute di Berlusconi. "Se si considera che in Russia negli ultimi dieci anni sono morti più di duecento giornalisti e che non si sono mai ritrovati gli assassini" [2]
Ritorna in mente la lettera pubblicata da Il Giornale di Vittorio Feltri, "La vera democrazia ha i suoi costi Tra questi,Travaglio" titolava la rubrica di Mario Cervi del 15 settembre, il lettore scriveva "Una volta creato l’esempio gli altri giornali di sinistra si guarderanno dal continuare ad offendere il premier e la sua coalizione. Possibile che non si riesca a trovare una norma che preveda l’attentato morale al capo del governo? Io credo che l’unica soluzione a questo continuo stillicidio di calunnie sia quello di rispondere con i sistemi usati (che io non approvo) da Putin nei confronti della Georgia, e della Cina nei confronti dei monaci tibetani: «La forza»." [3]
Sandro Ruotolo, collaboratore di Michele Santoro per Annozero, nella lettera ricevuta al suo domicilio è indicato come il secondo obiettivo di una lista espliciti riferimenti al caso Dino Boffo, direttore di Avvenire costretto a dimettersi dopo la campagna diffamatoria de Il Giornale. La lettera anonima riporta precise e dettagliate indicazioni sugli impegni del giornalista da rendere quasi certo che sia stato pedinato e tenuto d’occhio da uno o più persone durante un lungo periodo. Come annunciato giovedì scorso da Santoro ad Annozero, Ruotolo queste ultime settimane preparava un’inchiesta sulle stragi mafiose degli anni 1992-1993 e gli intrecci tra Mafia, Stato e Servizi deviati. Era a Palermo per intervistare magistrati e pentiti. Michele Riccio, colonnello dei carabinieri in pensione, che accusa l’Arma di aver ostacolato la cattura di Provenzano nel 1995, e Massimo Ciancimino figlio di Vito che ha rivelato i rapporti di suo padre, uomo d’onore e sindaco di Palermo, con onorevoli e ministri nonché testimonio di ’scambi di favori’ tra Bernardo Provenzano e Silvio Berlusconi tramite Marcello Dell’Utri. Roba che scotta, tanto più se mandata in onda in prime time su una rete nazionale durante il processo d’appello per associazione mafiosa a Marcello Dell’Utri ideatore e artigiano della discesa in campo politico del suo amico e socio in affari Silvio Berlusconi. [4]
Anna Politkovskaja, giornalista reporter della Novaya Gazeta. Più volte minacciata e arrestata per la sua opposizione al governo e per le sue denunce di violazioni dei diritti umani commesse in Cecenia .Assassinata alle 17,10 del 7 ottobre nell’ascensore del suo palazzo, mentre stava tornando a casa, da cinque colpi di pistola esplosi da un sicario. Un’esecuzione il giorno stesso del compleanno di Vladimir Putin. "Vivere così è orribile. Vorrei un po’ più di comprensione. Ma la cosa più importante è continuare a fare il mio lavoro, raccontare quello che vedo, ricevere ogni giorno in redazione persone che non sanno dove altro andare. Per il Cremlino le loro storie non rispettano la linea ufficiale. L’unico posto dove possono raccontarle è la Novaja Gazeta."[5]
"Ogni giorno ho sulla mia scrivania decine di cartelle: le copie degli incartamenti riguardanti cause penali di persone in carcere per "terrorismo" oppure, per il momento, solo indagate. Perché qui la parola "terrorismo" è tra virgolette? Perché la stragrande maggioranza di queste persone sono state etichettate con questo marchio, quindi sono solo terroristi di nome, ma non di fatto. Nel 2006 questa prassi di "marchiatura dei terroristi" non ha semplicemente sostituito un’autentica lotta al terrorismo, ma ha anche trasformato in potenziali terroristi tutti coloro i quali desiderano vendicarsi. Quando i magistrati e i tribunali non agiscono secondo la legge e per punire i colpevoli, ma invece ubbidiscono a ordini della politica e vanno a caccia dei criminali designati dal Cremlino per compiacere la sua volontà in materia di antiterrorismo, le cause penali spuntano come funghi." [6]
Silvio Berlusconi - "Non sono l’avvocato difensore di Vladimir Putin ma in Cecenia c’è questo: una resistenza che ricorre alla violenza e che non vuole aprirsi al dialogo nemmeno dopo che è stata data ai cittadini ceceni la possibilità di avere libere elezioni; e c’è la presenza della Federazione russa per garantire l’ordine pubblico. I russi garantiscono ordine. Putin è una persona democratica e di buonsenso". (Silvio Berlusconi, alla trasmissione di Giuliano Ferrara ‘Otto e Mezzo’ su la7. 09/02/2006) [5]
[1] citazione di Vera figlia di Anna Politkovskaja in Panorama, 08/05/2009
[2] Putin, è vero che divorzia? E Berlusconi fa il gesto del mitra, Repubblica, 18/04/2008
[3] Il Giornale lancia la fatwa contro i viscidi giornalisti, AgoraVox, 01/10/2009
[4] Annozero, pronta la puntata su mafia e politici, La Stampa, 02/10/20009
[5] Il mio lavoro a ogni costo, Anna Politkovskaja, Internazionale, 26/10/2006
[6] Ti chiamiamo terrorista, Anna Politkovskaja, PeaceReporter, 13/10/2006
[5] Berlusconi difende Putin e attacca la stampa, Repubblica, 06/11/2003
http://www.agoravox.it/E-Silvio-chiese-una-mano-a.html
Scajola alla Rai: "Voglio chiarimenti" - Martelli da Santoro, rivelazioni sulla mafia
ROMA - Ancora polemiche e battibecchi alla puntata di Annozero.
Il tema caldo, Le verità nascoste tra mafia e politica, è preceduto da denunce di "boicottaggi" di Santoro e scontri verbali tra gli antichi nemici Antonio Di Pietro, leader dell'Idv, e Niccolò Ghedini, legale di Berlusconi e deputato del Pdl ("Avvocato, domanda Di Pietro, si è fatto uno spinello?").
Martelli su Borsellino. Poi si entra nel vivo della discussione e Claudio Martelli, ministro di Grazia e Giustizia nel 1992, svela che all'epoca i Ros trattarono con il figlio di Ciancimino per raggiungere un patto con la mafia che interrompesse il periodo stragista e conferma i sospetti che Borsellino fosse al corrente della trattativa. Martelli ricorda con precisione quell'episodio: "Il Direttore degli affari penali del ministero della Giustizia, la dottoressa Liliana Ferraro, che era la principale collaboratrice di Giovanni Falcone, ricevette una visita di De Donno (allora a caccia dei superlatitanti di Cosa Nostra) che le riferì di un incontro con Massimo Ciancimino (presente nello studio di Raidue, figlio di Vito, ex sindaco di Palermo condannato per mafia). Una trattativa chiesta da don Vito il quale sembrava disposto a "collaborare" in cambio di garanzie e coperture politiche. Al capitano De Donno, la Ferraro disse: riferisca queste cose a Borsellino".
L'appello di Agnese Borsellino. E sul video compare il volto della moglie del giudice: "Chiedo in ginocchio ai collaboratori di giustizia, complici e non della strage di Via D'Amelio, di far luce sui mandanti e su coloro che hanno voluto la strage annunziata. Aiutateci - ha detto Agnese Borsellino - la vostra collaborazione sarà un atto di amore".
Di Pietro nell'obiettivo della mafia. Poi è la volta Di Pietro che rivela di quando una nota riservata dei carabinieri l'avvisò che era finito nella lista degli obiettivi della mafia. "Mi diedero un passaporto con nome diverso a me e a mia moglie e mi dissero che dovevo andare all'estero. Raggiunsi il Costa Rica, dopo un viaggio di 23 ore. Nella missiva dei Ros c'era scritto che la mafia voleva uccidere me, che allora facevo il pm, e Borsellino".
Santoro: "Basta boicottaggi". Il clima ad Annozero resta pesante. Anche stasera, Michele Santoro non ha perso occasione per denunciare "azioni di disturbo del tutto sleali nei nostri confronti". Il giornalista si dice aperto e disponibile a consigli ma rifiuta "forme di boicottaggio", come quelle che hanno accompagnato la partenza della nuova stagione di Annozero: contratti firmati in ritardo, stop alle troupe storiche, attacchi politici.
Scajola dai vertici Rai. A mantenere alta la tensione, la riunione di questa sera tra il ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola, che ha aperto una vera e propria "indagine" su Annozero, e i vertici di viale Mazzini (il presidente Paolo Garimberti e direttore generale Mauro Masi). "Voglio acquisire informazione sulle trasmissioni giornalistiche di approfondimento per verificare il rispetto del pluralismo", ha detto il ministro. Non parla in maniera esplicita di Annozero, ma è chiaro il riferimento alla prima trasmissione di Santoro sullo scandalo delle escort a Palazzo Grazioli che Scajola definì con tono sprezzante, "spazzatura".
Garimberti: "Rai azienda autonoma". Il presidente Paolo Garimberti si è detto pronto a collaborare ma "nel rispetto delle normative vigenti", perché "la Rai resta un'azienda autonoma dal punto di vista editoriale e organizzativo".
La lettera del direttore di Raidue. La bufera continua ad Annozero. La rinuncia improvvisa del leghista Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, e l'arrivo di Niccolò Ghedini, ha creato rumore. In realtà dietro il cambio di ospiti non sembra esserci solo una mutata disponibilità dei deputati. Marco Travaglio, editorialista della trasmissione ma ancora senza contratto Rai, svela che il direttore di Raidue Massimo Liofredi ha "fatto presente in modo formale - dice Travaglio - che Michele non aveva scelto gli ospiti in modo equilibrato". Liofredi, invece, taglia corto: "Si tratta di semplici comunicazioni interne".
http://www.repubblica.it/2009/10/sezioni/politica/rai-5/santoro/santoro.html?ref=search
Stragi, il ricatto bipartisan dei boss
Da Berlusconi alla sinistra: tutti sotto schiaffo.
Il dossier mai dato a Borsellino.
Ci sono dentro tutti.
Gli uomini di Governo e di opposizione: quelli che tra il 1992 e il 1993, mentre per strada scoppiavano le bombe di mafia, erano al corrente della trattativa intavolata tra Cosa Nostra, i servizi servizi segreti e i carabinieri.
E ci sono dentro anche i leader di oggi: il premier Silvio Berlusconi e il suo braccio destro Marcello Dell'Utri che, tra il '93 e il '94, proprio nei giorni in cui stava nascendo Forza Italia, furono informati, secondo il pentito Giovanni Brusca, di tutti i retroscena delle stragi.
A Berlusconi - ha più volte spiegato Brusca in aula e in una serie d'interrogatori davanti ai pm - la mafia fece arrivare, dopo i primi articoli di giornale che parlavano dei suoi legami con il boss Vittorio Mangano, un messaggio preciso: non ti preoccupare se adesso scrivono di te, intanto i tuoi avversari politici non possono far finta di cadere dalle nuvole, non ti possono tenere sotto schiaffo, perché ci sono di mezzo anche loro; dacci invece una mano per risolvere i nostri problemi altrimenti noi continuiamo con le bombe e finiremo per renderti la vita impossibile.
All'indomani della puntata di “Annozero” in cui l'ex Guardasigilli, Claudio Martelli, ha svelato di essersi opposto al dialogo tra Stato e Antistato e di aver fatto arrivare la notizia della trattativa in corso a Paolo Borsellino (che si mise di traverso e forse anche per questo fu ucciso), la storia oscura di quei giorni insanguinati assomiglia sempre più a quella di un grande ricatto.
Un ricatto in cui affonda le sue radici la Seconda Repubblica.
In troppi, infatti, sapevano, e in troppi hanno taciuto.
La prima parte della vicenda è ormai nota.
Borsellino, intorno al 23 giugno del 1992, viene avvertito da una collega del ministero dei colloqui che il colonnello Mario Mori e i capitano Giuseppe De Donno hanno avviato con l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino. Capisce che è in corso un gioco pericoloso. In quel momento parlare con i vertici dell’organizzazione vuol dire convincere Totò Riina che le stragi pagano perché lo Stato è disposto a scendere a patti. Dice di no da subito e per questo il 25 giugno, durante un dibattito pubblico, spiega di aver ormai i giorni contati.
Poi incontra Mori e De Donno.
E, il primo luglio, vede il nuovo ministro degli Interni, Nicola Mancino (che continua a negare di avergli parlato) e il numero due del Sisde, Bruno Contrada.
Che cosa si dica con loro non è chiaro. Fatto sta che Riina cambia strategia. Evita di uccidere, come programmato, il leader della sinistra Dc siciliana , Lillo Mannino, (considerato un traditore) e fa invece saltare in aria il 19 luglio Borsellino e la scorta.
Un attentato reso più semplice dall’assenza di controlli in via D’Amelio, la strada dove viveva sua madre. E da un’incredibile dimenticanza: Borsellino non viene informato dell’esistenza di una relazione dell’Arma che dà per imminente un’azione di Cosa Nostra contro di lui e contro l’allora pm, Antonio Di Pietro.
Se questo è il quadro (Brusca e Massimo Ciancimino, il figlio di Vito, assicurano che Cosa Nostra era al corrente di come il presunto referente governativo della trattativa fosse Mancino), diventa chiaro quanto la notizia fosse politicamente esplosiva.
Anche perché pure l’ex comunista Luciano Violante, all’epoca presidente della commissione antimafia, sapeva che i carabineri parlavano con l’ex sindaco mafioso.
È a questo punto che, secondo Brusca, entrano in scena Berlusconi e Dell’Utri.
Un anno dopo, intorno al 20 settembre del ‘93, Brusca legge un’articolo su L’Espresso in cui si parla del Cavaliere e di Vittorio Mangano. Riina, che non gli aveva mai parlato di questo legame con la Fininvest, è ormai in carcere. Durante la primavera e l’estate le bombe di mafia sono esplose a Roma, Firenze e Milano. Ma le stragi non sono servite per far ottenere a Cosa Nostra norme meno dure. Così Brusca pensa di utilizzare Mangano per fare arrivare al Cavaliere il suo messaggio. Ne parla con Luchino Bagarella, il cognato di Riina, che dà l’assenso. Verso metà ottobre Mangano parte in missione. A novembre, come risulta da un’agenda sequestrata a Dell’Utri, l’ideatore di Forza Italia lo incontra. Poi i colloqui, mediati secondo il pentito da degli imprenditori delle pulizie di Milano, proseguono almeno fino alle elezioni del marzo ‘94.
Il futuro premier è soddisfatto Brusca ricorda: “Mangano mi disse che Berlusconi era rimasto contento”.
Tratto da: il Fatto Quotidiano
http://www.antimafiaduemila.com/content/view/20404/78/
domenica 11 ottobre 2009
Le presunte intercettazioni a sfondo sessuale
Le presunte intercettazioni a sfondo sessuale.
Nel giugno 2008 il giornale argentino El Clarín pubblica un articolo in cui si fa riferimento ad affermazioni della stampa italiana riguardanti l'esistenza di alcune intercettazioni telefoniche, disposte in una non precisata indagine napoletana contro la corruzione. Secondo tali fonti, tra il ministro Carfagna e il presidente del consiglio Silvio Berlusconi vi sarebbe stato un dialogo con allusioni esplicite ad un rapporto di sesso orale.
Queste intercettazioni non sono state pubblicate da nessun quotidiano o rivista italiana, né in alcun sito Internet: nonostante ciò l'ex viceministro degli Affari Esteri del Governo Berlusconi II e dirigente socialista Margherita Boniver, in una dichiarazione rilasciata al quotidiano La Repubblica, ne ha riconosciuto l'esistenza.
Reazioni.
Il 2 novembre 2008 il senatore del Popolo della Libertà Paolo Guzzanti ha scritto sul suo blog riguardo la Carfagna « È ammissibile o non ammissibile, in una democrazia ipotetica, che il capo di un governo nomini ministro persone che hanno il solo e unico merito di averlo servito, emozionato, soddisfatto personalmente? »
riprendendo in termini di contenuto le parole pronunciate dalla figlia Sabina al No Cav Day l'8 luglio 2008
« Io non sono moralista, non me ne frega niente della vita sessuale di Berlusconi. Ma tu non puoi mettere alle Pari opportunità una che sta lì perché t'ha succhiato l'uccello. Se ne deve andare! »
la notizia è stata ripresa da varie fonti nazionali, tra cui Il Corriere della Sera e La Repubblica. A tali dichiarazioni l'on. Carfagna ha risposto prima citando in giudizio la Guzzanti e successivamente, in data 3 novembre, annunciando con una nota ufficiale di voler «presentare querela penale per diffamazione nei confronti dell’on. Paolo Guzzanti per quanto di falso da lui sostenuto nel suo blog e ripreso dal sito di Repubblica»
(wikipedia)
Una nuova pista nel rapporto Fininvest - Cosa Nostra? - 14/07/09
Le dichiarazioni di Ciancimino, i fogli mancanti del processo e i messaggi mafiosi a Berlusconi… Massimo Ciancimino fa ancora parlare di sé e questa volta l’argomento scottante non è la trattativa tra mafia e Stato intercorsa all’epoca delle stragi del 1992, per il quale presto sarà chiamato a rispondere in udienza pubblica.
Le sue dichiarazioni stanno irrimediabilmente sollevando un polverone attorno alla Palermo degli affari che negli anni Ottanta e Novanta ha basato il suo punto di forza sul patto economico stretto con la mafia di Riina e Provenzano.
Sono i magistrati Nino Di Matteo e Antonio Ingroia i depositari delle nuove rivelazioni del figlio di don Vito Ciancimino, condannato a 5 anni e 8 mesi per riciclaggio, intestazione fittizia di beni e concorso in tentata estorsione, nell’ambito del processo sul tesoro occulto di suo padre. Rivelazioni che hanno già causato l’avvio di nuove indagini per corruzione aggravata a carico dei senatori Carlo Vizzini e Salvatore Cuffaro e degli onorevoli Romano e Cintola. Tutti indagati a vario titolo per aver ricevuto compensi economici (ufficialmente non dovuti) pagati dalla famiglia Ciancimino per agevolare, nell’assunzione delle gare d’appalto, la Gas Spa (Gasdotti Azienda Siciliana). La società in quota al Gruppo Brancato – Lapis venduta il 13 gennaio 2004 alla multinazionale “Gas Natural” per 120 milioni di euro, di cui una percentuale era finita sul conto svizzero Mignon come pagamento spettante a don Vito, in qualità di socio “riservato”.
Proprio in seguito a questa vendita Massimo Ciancimino era stato accusato di aver incassato e reinvestito la percentuale destinata a suo padre (all’epoca deceduto). Da qui le manette, i domiciliari e poi il processo in abbreviato, tuttora in corso a Palermo in sede di Appello. Ed è in seguito a questi sviluppi giudiziari che Massimo Ciancimino ha iniziato a parlare: prima alludendo alle responsabilità della famiglia Brancato corresponsabile nella Gas della “gestione Ciancimino”, poi denunciando pubblicamente la sparizione di alcune intercettazioni ambientali che sarebbero dovute essere da tempo depositate agli atti del suo procedimento. I magistrati hanno così aperto un nuovo filone investigativo che ha coinvolto anche l’erede del socio di Lapis, Monia Brancato, rimasta finora estranea ai fatti, secondo Massimo Ciancimino, a causa di uno “strabismo investigativo” che ha inevitabilmente finito per colpire una sola delle due compagini societarie riferibili all’azienda del Gas. Accuse chiaramente tutte da verificare (per questo è stata avviata un’indagine a Catania). Ciononostante le sue dichiarazioni lasciano spazio a dubbi e perplessità sulla conduzione delle prime indagini dopo il ritrovamento di un documento che era stato sequestrato dai carabinieri nel 2005, durante la perquisizione avvenuta nella sua casa prima del suo arresto. Probabilmente ritenuto irrilevante dai pm che detenevano l’incartamento originale del primo grado, il foglio strappato nella sua parte iniziale (così verbalizzavano i carabinieri) è stato ritrovato in questi giorni da Ingroia e Di Matteo in mezzo ad altri 18 faldoni che i magistrati hanno trasmesso ai giudici del processo Ciancimino. Una scoperta di notevole importanza perché, come ha dichiarato il Pg del processo Dell’Utri Antonino Gatto, che ne ha chiesto l’acquisizione insieme all’audizione di Massimo Ciancimino (la Corte si è riservata di decidere il prossimo 17 settembre), il documento potrebbe “dimostrare la continuità dei rapporti intercorsi tra lo stesso Dell’Utri e Cosa Nostra siciliana”. Il testo della missiva vergata a mano non è completo (Ciancimino dice che originariamente era intera), ciò che è possibile leggere è la parte finale di una richiesta minacciosa all’attuale Presidente del Consiglio: “… posizione politica intendo portare il mio contributo (che non sarà di poco) perché questo triste evento non ne abbia a verificarsi. Sono convinto che questo evento onorevole Berlusconi vorrà mettere a disposizione le sue reti televisive”. Una frase enigmatica che richiama il rapporto Fininvest - Cosa Nostra di cui si trova traccia nelle sentenze sulle stragi del biennio ’92-’93 e nella sentenza di condanna a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell’Utri. La cosa più interessante è che la lettera, che era indirizzata proprio a Dell’Utri, è stata data a Massimo Ciancimino nella casa di Pino Lipari a San Vito Lo Capo alla presenza di Provenzano. Una volta nelle sue mani l’erede più piccolo di don Vito l’avrebbe portata a suo padre, all’epoca detenuto, il quale avrebbe poi espresso il proprio parere per farla avere a una terza persona non meglio precisata. In quanto al triste evento Massimo Ciancimino ha ricordato con precisione che si sarebbe trattato dell’omicidio del figlio di Berlusconi. Un fatto che, come emergerebbe dai verbali d’interrogatorio del 30 giugno e del 1 luglio, lo aveva molto impressionato. I due documenti in ogni caso presentano diverse discrasie. Il testimone inizialmente non intendeva rispondere. Poi alle stringenti domande dei pubblici ministeri che lo hanno interrogato dopo il ritrovamento della lettera, ha risposto visibilmente provato: “Sono cose più grandi di me”. Anche perché le comunicazioni che la mafia avrebbe inoltrato a Berlusconi non si esauriscono qui. La richiesta di una televisione in cambio di un appoggio elettorale sarebbe solo l’ultima di tre lettere scritte tra il 1991 e il 1994. Il secondo messaggio Ciancimino junior ha riferito di averlo ricevuto in una busta chiusa da un giovane che nei primi anni Novanta faceva l’autista di Provenzano. In questo caso Vito Ciancimino avrebbe svolto il ruolo di consulente del capo mafia, mentre in un’altra occasione avrebbe fatto da mediatore consegnando copia della missiva a un tale di nome “Franco”. Ciò che però qui conta sottolineare è che l’istanza sarebbe alla fine giunta a destinazione, rientrando così nella consueta e vecchia gestione dei contatti tra gli ambienti Fininvest e criminalità organizzata siciliana iniziati già negli anni Settanta. Periodo in cui l’Anonima Sequestri terrorizzava la Milano bene e quindi anche la famiglia del futuro premier. Al quale era corso in aiuto l’amico Marcello Dell’Utri che per proteggerlo si era rivolto, attraverso Tanino Cinà (uomo d’onore posato della famiglia di Malaspina) al capo di Cosa Nostra Stefano Bontade. Sarebbe stato proprio il “Principe di Villagrazia” ad impegnarsi con il promettente imprenditore edile fornendogli una “garanzia” contro il pericolo dei rapimenti. Garanzia che rispondeva al nome di Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore implicato in varie inchieste tra cui la famosa “Pizza connection”, condotta da Giovanni Falcone.
L’incontro tra Berlusconi e Bontade era avvenuto negli uffici della Edilnord, a Milano, alla presenza di Marcello Dell’Utri, Tanino Cinà, Mimmo Teresi (boss di Santa Maria di Gesù) e Francesco Di Carlo (boss di Altofonte).Ed è proprio Di Carlo - oggi collaboratore di giustizia, ritenuto perfettamente attendibile dai giudici che hanno condannato Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa – a raccontarlo perché testimone oculare. In quell’occasione, ha spiegato il pentito, era stato Dell’Utri a fare le presentazioni delle quali solo Cinà non aveva bisogno perché Berlusconi già lo conosceva.
Nel corso del colloquio con l’imprenditore, Bontade, tra le altre cose, gli chiedeva di “venire a costruire a Palermo, in Sicilia”. Cosa alla quale Berlusconi rispondeva con una battuta e “un sorriso sornione”: “Ma come debbo venire proprio in Sicilia? Con i meridionali e i siciliani ho già problemi qui!”. Bontade, però, lo rassicurava: “Ma lei è il padrone quando viene là, siamo a disposizione per qualsiasi cosa”. Prima di dirgli, in riferimento al problema dei sequestri: “Per qualsiasi cosa si rivolga a Marcello”, promettendogli quella garanzia che sarebbe poi stata rappresentata da Vittorio Mangano.
Dell’Utri, infatti, ricordava ancora Di Carlo era considerato una persona “fidata”. Tanto che in occasione del matrimonio londinese del trafficante di droga Jimmy Fauci, spiegava il pentito, fu Mimmo Teresi a dire allo stesso Di Carlo che Dell’Utri era “un bonu picciottu”. E a dichiarare: “Noi con Stefano abbiamo intenzione di combinarlo”
.La riunione negli uffici della Edilnord segna quindi l’inizio di un rapporto tra Berlusconi e Cosa Nostra siciliana basato su favori ed estorsioni: l’organizzazione criminale minacciava, chiedeva, offriva. Il Cavaliere rispondeva.
E così, dopo l’incontro, Mangano si era insediato nella sua villa di Arcore e dal 1974 l’imprenditore aveva iniziato a versare all’organizzazione il suo “contributo” annuale. Poi quando il boss-stalliere era stato costretto ad allontanarsi (un anno e mezzo più tardi), Berlusconi aveva subito il primo attentato nella sua villa di via Rovani. Era il 26 maggio del 1975, ma solo anni dopo si era scoperto che l’autore di quel gesto intimidatorio era stato proprio Mangano. In quello stesso periodo iniziava per Berlusconi una carriera tutta in salita: prima gettava le fondamenta del suo grande impero, dopo entrava nel business delle emittenti televisive. Ad aiutarlo nella grande impresa 113 miliardi di lire di provenienza sconosciuta che tra il 1975 e il 1983 sarebbero affluiti nelle 22 holding Fininvest, che diventeranno poi 37.
Nel frattempo anche la galassia di Cosa Nostra subiva una grossa trasformazione: i corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano prendevano il sopravvento sulla mafia di Bontade, il quale veniva ucciso nella guerra di mafia degli anni Ottanta insieme a quasi tutti i suoi rappresentanti. Il nuovo vertice ereditava così il rapporto con l’imprenditore milanese che, dopo una serie di vicissitudini, per ordine di Riina sarebbe passato direttamente nelle mani di Tanino Cinà. Sarebbe stato lui a recarsi due volte all’anno a Milano per ritirare i contributi versati dall’imprenditore. Ma il 28 novembre 1986 la sede Fininvest di via Rovani 2 subiva un secondo attentato da parte della mafia catanese. Riina era pronto a cavalcare (nuovamente?...) l’onda.
L’intento dei mafiosi, spiegheranno i collaboratori di giustizia, è quello di “avvicinare” Cinà a Dell’Utri e Berlusconi perché il rapporto con l’imprenditore milanese non sarebbe dovuto essere solo di natura estorsiva, ma aveva anche e soprattutto una connotazione politica. Berlusconi rappresentava per la nuova Cosa Nostra l’aggancio per arrivare a Craxi, in un momento in cui lo storico rapporto con la Democrazia Cristiana di Andreotti stava tramontando. Per questo motivo, racconteranno i pentiti, (Antonino Galliano, Francesco Paolo Anzelmo) verranno rivolte al Cavaliere nuove minacce tramite lettera e telefono. E così Tanino Cinà, sempre secondo l’Anzelmo, veniva urgentemente convocato a Milano da Dell’Utri.
Ma le intimidazioni non sarebbero cessate. Infatti il 17 febbraio del 1988, nel corso di una conversazione intercettata, Berlusconi si era lamentato con l’amico immobiliarista Raniero della Valle di aver ricevuto una serie di intimidazioni e minacce di morte per il figlio Piersilvio.
Per quanto riguarda l’evoluzione di queste ritorsioni non si mai è riusciti a scoprire molto.
Ciò che pare invece certo è che gli attentati ai magazzini Standa di Catania, iniziati nel gennaio del 1990, sarebbero terminati solo grazie all’intermediazione di Marcello Dell’Utri, che avrebbe instaurato con i mafiosi locali una non meglio specificata trattativa.
Secondo la lettura delle dichiarazioni di alcuni collaboratori, tra cui Angelo Siino, anche quegli attentati sarebbero rientrati nella più ampia strategia di rinnovare le grandi alleanze strategiche e politiche. In un periodo in cui Cosa Nostra era alla disperata ricerca di nuovi referenti. Ricerca che sarebbe terminata con la discesa in campo di Silvio Berlusconi e con la decisione di appoggiare il nascente partito Forza Italia.
Le missive di cui si parla oggi e in particolare il foglio strappato scoperto tra le carte sequestrate a Massimo Ciancimino potrebbero dimostrare dunque che, anche dopo l’elezione a Presidente del Consiglio di Silvio Berlusconi, la mafia siciliana avrebbe proseguito con la tattica di sempre: intimidire per ottenere favori. La domanda allora è semplice: di quali favori si trattava?
Ed è possibile ricollegare tali favori agli incontri tra Vittorio Mangano e Marcello Dell’Utri, risalenti alla fine del 1993 e dei quali parlano altri collaboratori di giustizia?
Questi incontri, si legge nella sentenza che ha condannato il senatore del Pdl, avevano “un connotato marcatamente politico, in quanto Dell’Utri aveva promesso che si sarebbe attivato per presentare proposte molto favorevoli per Cosa Nostra sul fronte della giustizia, in un periodo successivo, a gennaio del 1995 (‘modifica del 41bis, sbarramento per gli arresti relativi al 416bis’)”. E “infatti, vi era stato un primo tentativo a livello parlamentare che, però, non era riuscito a concretizzarsi. Inoltre, Dell’Utri aveva detto a Mangano che sarebbe stato opportuno stare calmi, cioè evitare azioni violente e clamorose, le quali non avrebbero potuto aiutare la riuscita dei progetti politici favorevoli all’organizzazione mafiosa”.
Ancora, dopo le elezioni del 1994, Mangano avrebbe assicurato di aver parlato con il Dell’Utri e che lo stesso avrebbe dato “buone speranze”.È evidente che siamo di fronte a una questione di estrema rilevanza investigativa nell’ambito dei rapporti tra Dell’Utri e Cosa Nostra e tra il premier e la stessa mafia corleonese di cui Vito Ciancimino era portavoce e consigliere essendo come aveva detto Giuffrè “la mente grigia” di Provenzano. Sul piano della questione morale tutto ciò fa impallidire lo scandalo sui festini del Presidente del Consiglio. Per squallidi e disonorevoli che siano i suoi vizietti, sembra assurdo che le ragioni principali del suo declino elettorale da parte degli italiani possa essere dovuto a queste vicende e non ai suoi rapporti con Cosa Nostra.
Questo forse è il più grande scandalo italiano.
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