Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 17 settembre 2010
Studio: l'escalation dei costi del nucleare.
giovedì 16 settembre 2010
E' Matteo Renzi il sindaco più amato di Italia.
Ciancimino, la perizia conferma. - di Umberto Lucentini
Al termine delle perizie, gli esperti del servizio di Polizia scientifica della Direzione centrale anticrimine hanno una certezza: questi tre testi sono stati di sicuro firmati da Vito Ciancimino, ex sindaco di Palermo condannato per mafia e morto il 19 novembre 2002. E sono stati scritti proprio nei periodi indicati dal figlio Massimo.
Una conferma importante per due delicate inchieste della procura di Palermo condotte anche grazie alle dichiarazioni di Ciancimino junior, che del padre ha custodito documenti e segreti ora messi a disposizione del pool dell'aggiunto Antonio Ingroia e dei sostituti Nino Di Matteo e Paolo Guido. Nuovi, importanti riscontri, nella ricerca di parte del tesoro di Ciancimino senior investito nel nord Italia e di quei patti "scellerati" che sarebbero stati stretti da alcuni alti ufficiali dei carabinieri del Ros e dai vertici di Cosa nostra (sempre smentiti dagli indagati).
Una circostanza di cui Massimo ha parlato decifrando l'appunto scritto dal padre in cui c'erano i nomi dei costruttori palermitani Buscemi e Bonura, del futuro senatore di Forza Italia e di Milano Due. La Polizia scientifica ha così comparato il foglio in possesso dei pm Ingroia, Di Matteo e Guido con altri documenti pubblici e privati sicuramente scritti da Ciancimino. Il giudizio è netto: sono "compatibili".
Stesso esito anche per l'analisi merceologica, cioè sul tipo di carta e sul periodo in cui il foglio è stato prodotto : sono "compatibili" con quelli indicati da Ciancimino junior che tramite appunti e ricordi li sta decifrando davanti ai pm. E se, come ha già detto al termine dell'udienza di febbraio Niccolò Ghedini, avvocato di Silvio Berlusconi e parlamentare Pdl «le dichiarazioni di Ciancimino su Milano Due sono del tutto prive di ogni fondamento fattuale e di ogni logica, e sono smentibili documentalmente in ogni momento», è ovvio pensare che la Procura di Palermo stia cercando di trovare in diversi istituti di credito le tracce dei movimenti di soldi che proverebbero l'investimento dell'ex sindaco Dc del "sacco di Palermo".
La seconda inchiesta sta facendo luce sulla trattativa tra mafiosi e pezzi dello Stato per ottenere lo stop alla stagione stragista voluta da Riina in cambio di garanzie e impunità per i boss: è quella che vede il generale dei carabinieri Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu accusati di favoreggiamento aggravato alla mafia. Mori, ex comandante del Ros e direttore del servizio segreto civile Sisde, e il suo braccio destro Obinu, avrebbero trattato nel '92 la fine della strategia degli attentati di Cosa nostra in cambio di alcune garanzie chieste dai capimafia. Il tramite di questo patto sarebbe stato Vito Ciancimino, nato a Corleone e legato ai compaesani Riina e Provenzano da antica amicizia. Così, al "papello" di richieste avanzato da Riina tramite il medico Antonio Cinà e consegnato a Ciancimino perché lo girasse agli ufficiali dell'Arma, è seguito un "contropapello": l'ex sindaco Dc formulò proposte più moderate che prevedevano l'abolizione del carcere duro per i mafiosi (il 41 bis), una riforma della giustizia all'americana con un sistema elettivo dei giudici, la nascita di un partito del Sud. Aperto dall'annotazione «Mancino-Rognoni» (allora ministri dell'Interno e della Difesa), il foglio sarebbe stato scritto prima del 19 luglio del '92, giorno dell'attentato a Borsellino. Le analisi della Polizia Scientifica hanno confermato che la grafia è quella di Ciancimino e che il post-it accluso in cui c'era scritto "consegnato spontaneamente al col. Mori" è stato prodotto tra il 1986 e il 1991.
Di quest'ultimo scriveva: «Dopo un primo scellerato tentativo di soluzione avanzato dal Colonnello Mori per bloccare questo attacco terroristico ad opera della mafia, ennesimo strumento nelle mani del regime, e di fatto interrotto con l'omicidio del Giudice Borsellino, sicuramente oppositore fermo di questo accordo...».
La firma in calce alla lettera, ha accertato la Polizia Scientifica, è proprio quella di Vito Ciancimino.
martedì 14 settembre 2010
Perché il Cavaliere non vuole più le elezioni. - Eugenio Scalfari
In caso di risultato incerto del voto ci vorrebbe un governo di unità nazionale. Ma il primo ministro non potrebbe più essere Berlusconi
di EUGENIO SCALFARISI DIMETTERA' oppure no? Gli voteranno contro o troveranno un compromesso per tirare avanti e guadagnar tempo? Napolitano sarà costretto a sciogliere le Camere oppure troverà una maggioranza alternativa per non strozzare un'altra volta la legislatura come già accadde con la crisi del governo Prodi?
Mentre scrivo sembra che tutto stia volgendo al meglio, almeno dal punto di vista di chi vede (e noi siamo tra questi) lo scioglimento anticipato del Parlamento come una iattura. Prima di procedere oltre spiego perché.
Anzitutto l'economia. Mi aveva stupefatto - lo confesso - la tranquillità con la quale pochi giorni fa il ministro Tremonti aveva pubblicamente affermato che l'economia e la finanza pubblica italiana erano completamente salvaguardate e blindate e che quindi una campagna elettorale anticipata non avrebbe procurato alcun danno.
Un'affermazione del genere fatta dal titolare di un ministero che tra la fine di settembre e i primi di dicembre vedrà scadere e dovrà rinnovare circa 160 miliardi di titoli di Stato e sul quale incombe uno stock di debito pubblico che ha superato il 117 per cento del Pil, dimostra un senso di responsabilità molto leggero.
Ma quella leggerezza si trasforma addirittura in irresponsabilità se si pensa ai probabili risultati di elezioni anticipate. Quand'anche la coalizione Pdl-Lega vinca con questa legge le elezioni alla Camera, resta assai alta la possibilità che le perda al Senato.
Questa è una delle ragioni particolarmente presenti al Capo dello Stato: l'ingovernabilità di una legislatura con maggioranze diverse tra una Camera e l'altra. È incredibile che un pensiero analogo non abbia neppure sfiorato il ministro dell'Economia.
Ma c'è un altro elemento ancora che avrebbe dovuto allarmarlo fin dall'inizio di quest'assurda girandola di fuochi d'artificio: uno scioglimento anticipato della legislatura che avvenisse entro ottobre per poter votare prima della fine dell'anno, interromperebbe la sessione di bilancio dedicata all'approvazione della legge finanziaria. Il bilancio dello Stato andrebbe in esercizio provvisorio e ci resterebbe fino all'entrata in carica di un nuovo governo, il che significa da ottobre fino a febbraio nel migliore dei casi.
Tremonti sa, come tutti noi sappiamo, che quei quattro o cinque mesi di esercizio provvisorio sarebbero un pascolo pingue per la speculazione internazionale contro i titoli pubblici italiani e contro l'euro e aprirebbero nelle maglie di Eurolandia un buco ben più grave del temuto "default" della Grecia.
In una tardiva dichiarazione di mercoledì scorso finalmente anche Tremonti ha dichiarato di esser contrario allo scioglimento anticipato. Ha aspettato che lo dicesse Bossi. Non è proprio questo un teatro dei pupi?
* * *
Il teatro dei pupi, del resto, sta dilagando in tutta la politica italiana. Qualche esempio di questi giorni per tener sveglia la nostra spesso latitante memoria.
1. All'indomani del discorso di Fini a Mirabello, Berlusconi e Bossi dichiararono che avrebbero portato il caso Fini dinanzi al presidente della Repubblica cui avrebbero chiesto di obbligare Fini a dimettersi da presidente della Camera.
2. Il Capo dello Stato ha precisato dal canto suo che i presidenti di Camera e Senato non possono essere sfiduciati da nessuno e restano in carica per tutta la legislatura salvo che siano essi stessi a dimettersi.
3. Berlusconi e Bossi hanno reiterato la loro intenzione di sollevare il caso Fini al Quirinale.
4. Tutta la stampa italiana e tutti i giuristi, Costituzione alla mano, hanno definito Berlusconi, Bossi e i loro fedeli seguaci come altrettanti analfabeti costituzionali.
5. Berlusconi ha dichiarato che la volontà a lui attribuita di voler sollevare il caso Fini dinanzi al Quirinale è una delle tante falsità della stampa italiana e si è rimangiato tutto chiudendo la questione. Non è la prima volta e purtroppo non sarà l'ultima.
6. Nel frattempo tutto l'apparato berlusconiano e leghista è stato mobilitato per affrontare le elezioni entro la fine dell'anno. Il ministro dell'Interno leghista Maroni ha indicato il 27 e 28 novembre come la data probabile; il ministro della Semplificazione Calderoli ha spostato la data al 3-4 dicembre. Tutti e due evidentemente se ne infischiano delle prerogative del Capo dello Stato in materia di scioglimento anticipato delle Camere.
7. Berlusconi nel frattempo si è rivolto ai suoi "legionari della libertà" allertandoli per votazioni immediate entro l'anno per prendere contropiede sia Fini sia i partiti d'opposizione. Ma resta il problema di come mettere fine a questo Parlamento.
8. Il presidente del Consiglio esclude le sue dimissioni. Non vuole che la gente pensi che sia lui il responsabile di quella morte anticipata.
9. Bossi è stufo di queste lentezze e annuncia che sarà la Lega a votare la sfiducia al governo ammazzando così il Parlamento. Per chiudere in bellezza quell'annuncio fa una sonora pernacchia al microfono in stile Totò e la dedica a Fini.
10. Sia Berlusconi sia Bossi sia Tremonti dichiarano tra martedì e mercoledì scorso che non vogliono affatto le elezioni immediate e cercheranno invece di governare al meglio nonostante i finiani. Naturalmente se le Camere voteranno la fiducia al programma berlusconiano che sarà presentato al Parlamento il 28 di settembre.
Non è un teatrino di pupi? Un dire oggi cosa diversa ed anzi opposta a quella detta ieri ed a quella che sarà detta domani su questioni del massimo rilievo? È questo il modo di infondere negli italiani fiducia nella politica e nelle istituzioni?
* * *
Nel frattempo Berlusconi cerca un manipolo di ascari che rafforzi la sua pericolante maggioranza e dia fiducia al programma quando lo esporrà a fine mese alla Camera.
La ricerca finora si è indirizzata verso tre o quattro cani sciolti del gruppo misto e verso Raffaele Lombardo detto il siciliano che ne controlla altri otto. Ci sono poi quattro deputati eletti nelle liste del Pdl ma iscritti fin dall'inizio in un gruppo chiamato "Noi-Sud" per confondersi con l'"Io-Sud" della Poli Bortone. In sostanza si tratta di contare due volte una manciata di trasformisti di professione che hanno sempre votato Berlusconi e che ora si ripresentano mascherati da autonomi che tornano alla casa madre. Voteranno la fiducia al governo con i finiani. La prova che il governo ha in suo rinforzo questo gruppetto dunque non si avrà.
Resta da spiegare per quale ragione Berlusconi si è improvvisamente convinto ad evitare le elezioni anticipate anziché volerle a tutti i costi subito come pensava e diceva appena pochi giorni fa. Ebbene la ragione è chiara: c'è il rischio di perdere la maggioranza al Senato.
Questo rischio è reale anche con l'attuale e pessima legge elettorale. Il risultato dipende dalla probabile alleanza elettorale tra Fini e Casini in alcune Regioni-chiave come la Sicilia, la Campania, la Sardegna, il Lazio, il Piemonte. In queste Regioni l'accoppiata Fini-Casini potrebbe ottenere la vittoria o favorire quella del centrosinistra togliendole comunque a Berlusconi e realizzando al Senato una maggioranza diversa da quella della Camera.
In tal caso si renderebbe necessario un governo di quelli che si chiamano di "unità nazionale" che veda unite insieme tutte le maggiori forze politiche presenti in Parlamento. Un governo cioè del tipo delle "grosse coalizioni" tedesche, che potrebbe nascere soltanto se il nuovo presidente del Consiglio fosse persona diversa da Berlusconi, il quale diventerebbe semplicemente un deputato leader di un partito importante ma in fase - a quel punto - di un sommovimento interno di incalcolabili esiti. Per cinque anni in questa condizione e senza più alcuno scudo che possa difenderlo dai processi in corso.
Il rischio per Berlusconi è insomma enorme e per questa ragione egli farà di tutto per scongiurarlo. Ci riuscirà? Accetterà di essere cotto a fuoco a lento per due anni e mezzo? E come reagirà l'opinione pubblica, le categorie sociali più colpite dalla crisi, i giovani, le forze politiche d'opposizione? Come reagirà la Lega che scalpita per incassare l'incremento di voti tolto nel Nord al Pdl?
Queste sono le domande dei prossimi mesi. Diciamo: tutto a posto, niente in ordine, proprio così dopo 15 anni di anomalia berlusconiana.
Oltre un miliardo di euro, sequestro da record al “signore del vento” vicino a Messina Denaro
Si tratta dell'imprenditore alcamese Vito Nicastri, ras siciliano dell'eolico già coinvolto nell'indagine di Avellino. Per la Dia sarebbe contiguo a Cosa nostra
Gli investigatori, guidati dal generale Antonio Girone, hanno ricostruito il fitto reticolo patrimoniale di Nicastri, tornando indietro di oltre 30 anni. Il risiko finanziario finito sotto la lente dell’antimafia dimostra una grande sperequazione tra i redditi dichiarati dall’imprenditore alcamese e quelli effettivamente accumulati. Ombre e sospetti, dunque. E un tesoretto che viaggia in parallelo con le frequentazioni dell’imprenditore, considerate contigue agli ambienti mafiosi.
Ne ha fatta di strada Vito Nicastri. Partito come semplice elettricista negli anni ’70, fa parlare di se già nel 1994, quando resta invischiato nella Tangentopoli siciliana. Fin da subito, il suo business è strettamente legato al campo delle energie rinnovabili: prima col fotovoltaico, poi con l’eolico e negli ultimi tempi, di nuovo nel settore dei pannelli solari. Nicastri è l’inventore della figura dello “sviluppatore”: parchi eolici e fotovoltaici forniti chiavi in mano alle grosse aziende energetiche.
L’ex elettricista alcamese era diventato un mago nell’ottenere concessioni dallo Stato (concessioni che in certi casi erano state negate persino all’Enel), acquistare terreni, costruire i parchi eolici e poi cederli “tutto incluso” ai grandi colossi del settore. Proprio per questo addirittura l’autorevoleFinancial Times lo aveva soprannominato come “il signore del vento”. Affari che portavano nelle tasche di Vito Nicastri decine di milioni di guadagno netto, come lui stesso ammetteva orgoglioso nelle interviste .
Affari che undici mesi fa interessano anche la Procura d’Avellino che spicca un mandato di cattura per Nicastri con l’accusa di truffa allo Stato. Già in quel frangente emergono le possibili frequentazioni di Nicastri con Mario Giuseppe Scinardo, mafioso del clan messinese dei Rampulla, lo stesso clan che fornì il detonatore per la strage di Capaci. Non è finita. Perché vengono alla luce anche i rapporti con le potentissime ‘ndrine calabresi di Platì, San Luca e Africo.
Il sequestro preventivo dei beni del Nicastri, a cui la DIA lavorava dal dicembre 2009, è sintomo evidente di una fondata e più che attuale contiguità con gli ambienti di Cosa Nostra trapanese, retta ancora dal latitante Matteo Messina Denaro. Il procuratore di Palermo, Francesco Messineo sottolinea come “sottrarre i beni a Cosa Nostra è di basilare importanza per la lotta alla criminalità, come dimostrano le operazioni contro Giuseppe Grigoli e Rosario Cascio, anche loro vicinissimi a Matteo Messina Denaro.”
D’altronde come dice lo stesso generale Girone “per Cosa Nostra è più semplice sostituire un adepto arrestato, che un patrimonio”. Soprattutto se si tratta di un patrimonio di queste proporzioni. Un sequestro record – sicuramente il più ingente degli ultimi anni -paragonabile soltanto a certi maxi sequestri ai grossi imprenditori edili del passato, nella Palermo dei Lima e dei Vito Ciancimino. Un sequestro che però rappresenta soltanto la prima tappa delle indagini, che cercheranno di gettare luce sulla florida realtà economico criminale della Sicilia occidentale. Una realtà al cui vertice c’è sempre lui: l’inafferrabile Matteo Messina Denaro.
di Giuseppe Pipitone
domenica 12 settembre 2010
Puglia, buonuscita record di 8 milioni agli ex consiglieri
BARI - Ad agosto di solito gli uffici pubblici sono chiusi. Ma non tutti, e soprattutto non per tutti. E così, mentre qualcuno andava al mare, gli ex consiglieri regionali pugliesi sono passati alla cassa per riscuotere gli assegni di fine mandato. Un regalino che vale otto milioni di euro, dei quali tre milioni e mezzo appena erogati sull’unghia. Alla faccia di tutte le crisi. Il 25 agosto gli uffici di via Capruzzi hanno infatti liquidato 40 mandati di pagamento che vanno dai 21mila euro degli assessori esterni Magda Terrevoli e Gianfranco Viesti ai 236mila euro di Sandro Frisullo.
Proprio così: l’ex vicepresidente della giunta Vendola, che durante la detenzione ha continuato a beneficiare dell’indennità da consigliere in virtù di una legge regionale unica in Italia (e che oggi si consola con una pensione da 10mila euro lordi al mese), è il destinatario del bonifico più corposo. In realtà, Frisullo (che vanta tre legislature in via Capruzzi) aveva già portato a casa 152mila euro a titolo di anticipazione sull’assegno di fine rapporto: la sua liquidazione totale, dunque, sfiora i 400mila euro. Per tutto questo ben di dio gli ex inquilini di via Capruzzi devono ringraziare Mario De Cristofaro, il mitologico presidente del consiglio regionale che nel 2003 (in era-Fitto) fortissimamente volle questa legge-prebenda. Nella quale, oltre al vitalizio (che si somma alla pensione), è previsto pure l’asse gno di fine mandato: un anno pieno di indennità (oggi è pari a 129.664,32 euro) per ogni legislatura di servizio. Non contenti, otto mesi dopo la legge che ha aperto la banca, i consiglieri regionali si sono fatti pure il bancomat: nella successiva finanziaria regionale (legge 1/2004, articolo 57) hanno infatti nascosto una normetta che permette di richiedere anticipi fino all’80%.
Tra gli ex della scorsa legislatura ne hanno approfittato in 19, mentre tra i consiglieri in carica l’ultimo è stato Nino Marmo: ha ottenuto altri 34mila euro che si sommano ai 283mila già ottenuti precedent emente. Così come tecnicamente il vitalizio non è una pensione, l’assegno di fine mandato non è una liquidazione: a differenza dei comuni mortali, i consiglieri regionali ricevono infatti l’intero importo (ovviamente al netto delle tasse sul reddito) e non devono lasciarne un pezzetto ai fondi di categoria. E dunque, sono soldini sonanti.
Qualche esempio: Luigi Caroppo, che era già stato consigliere regionale e al primo mandato non aveva chiesto la liquidazione, ha ricevuto 226mila euro. Un altro ex di lungo corso come Mimmo Lomelo ne ha presi 133mila che si sommano ai 229 già ricevuti in precedenza. Ma quelli che in totale hanno incassato di più sono Roberto Ruocco e Giovanni Copertino. Tra anticipi e saldi l’ex An di Cerignola è arrivato a quota 491mila euro, mille euro meno rispetto a Copertino: che però sui banchi di via Capruzzi ci ha passato esattamente 20 anni.
sabato 11 settembre 2010
P3, Martino: “Cesare” è Berlusconi Senatori pagati per far cadere Prodi
«Il suo vice è Marcello dell'Utri». Le pressioni sui magistrati e le manovre in Cassazione per la causa Mondadori.
ROMA (11 settembre) - Le manovre in Cassazione per favorire la Mondadori, quella alla Consulta per il lodo Alfano, gli incontri a casa di Verdini e il suo interesse per il business dell’eolico, i magistrati amici e i senatori comprati per far cadere il governo Prodi.
E poi ”Cesare”, cioè Silvio Berlusconi. E il ”vice Cesare”, cioè Marcello Dell’Utri. Così, alle dieci e 45 di una calda mattina di metà agosto, Arcangelo Martino ha raccontato per otto ore la sua versione sulla loggia P3 al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo. Chi è Cesare? Quando i pm gli chiedono chiarimenti sulla conversazione del 2 ottobre scorso tra l’ex sottosegretario Nicola Cosentino, anche lui indagato, e Pasquale Lombardi che al telefono dicono «”Cesare” è rimasto contento per quello che gli stiamo facendo per il 6» (il giorno dell’udienza della Corte Costituzionale sul Lodo Alfano), Martino spiega che ”Cesare” era Berlusconi” e ”vice Cesare” e dell’Utri. Per poi chiarire che erano gli altri ad utilizzare questi nomi in codice. Ma che lui ne conosceva il significato.
La causa Mondadori. Se ne comincia a parlare al ristorante, da Tullio, dove una volta a settimana Lombardi riuniva i suoi ”amici”. Accade il 23 settembre 2009, qualche ora prima di andare a casa di Denis Verdini. Ci sono Lombardi, e Flavio Carboni, il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo, l’ex avvocato generale della Cassazione Antonio Martone, e forse anche (Martino dice di non ricordare bene) il parlamentare Renzo Lusetti, il magistrato Angelo Gargani, capo di servizio al controllo interno del ministero, la deputata Nunzia di Girolamo e il magistrato Arcibaldo Miller, capo degli ispettori ministeriali. Viene fuori - secondo il verbale - che Mondadori deve pagare 450 milioni di euro di tasse che la società del presidente del consiglio avrebbe evaso.
Martino racconta che Lombardi annuncia un possibile intervento presso la Cassazione per ottenere un esito favorevole. Lo dice e prende un taxi per il Palazzaccio, lasciando i commensali a discutere nella saletta riservata del ristorante. Poi torna, lasciando intendere di aver parlato con il primo presidente Vincenzo Carbone e con il procuratore generale Vitaliano Esposito e spiega il piano. Il problema di Mondadori si potrà risolvere con il trasferimento della causa dalla sezione Tributaria alle Sezioni Unite. Cosa che poi avverrà puntualmente, e sulla quale il procuratore aggiunto Capaldo ha già interrogato due alti magistrati della Corte. Poche ore dopo, racconta Martino, Lombardi si preoccupa di avvisare Denis Verdini e Marcello Dell’Utri che si è trovata la soluzione per il lodo Mondadori.
Il Lodo Alfano. Racconta Martino che sempre da Tullio, Lombardi avrebbe fatto una relazione sulla situazione del Lodo Alfano. Avrebbe anche riferito dei suoi controlli alla Corte Costituzionale, che in quei giorni doveva decidere se bocciare o no la legge. Sostenendo che ci fossero buone speranze per la promozione del lodo. Poi, di fatto ”cassato” dalla Consulta. Qualche settimana dopo, in casa Verdini, dove c’era anche il senatore Marcello Dell’Utri, invece Lombardi indicava i nomi dei giudici che aveva contattato e si diceva ottimista su una decisione a favore della legge. Anche un giudice donna avrebbe votato per la costituzionalità. L’unico a esprimere preoccupazioni sarebbe stato il senatore Dell’Utri.
Verdini e l’eolico. Il 23 settembre, quando Martino, Lombardi e gli altri si presentano a casa Verdini, il coordinatore del Pdl è impegnato con il presidente della Regione Sardegna Ugo Cappellacci. E’ Flavio Carboni a dire a Martino e Lombardi che Cappellacci è un uomo di Verdini, perché il coordinatore del Pdl ha contribuito alla sua elezione. Carboni, nel corso di quell’incontro, avrebbe spiegato l’importanza della riuscita degli investimenti economici sull’eolico e a quel punto Martino dice di aver compreso quanto Verdini fosse direttamente interessato alla vicenda. Così come Dell’Utri.
I senatori comprati. A Martino gliene parla Ernesto Sica, il sindaco di Pontecagnano indagato nell’inchiesta P3 per il dossier confezionato per bruciare la candidatura alla Regione Campania di Stefano Caldoro. Martino racconta che Sica gli era stato presentato da Umberto Marconi, presidente della Corte d’Appello di Milano. Il sindaco di Pontecagnano gli avrebbe riferito dei suoi rapporti di amicizia con Silvio Berlusconi, che aveva un debito di riconoscenza nei suoi confronti perché grazie a lui, alla mediazione di un imprenditore amico e al pagamento di cospicue somme di denaro, i senatori Scalera (ex Pd oggi Pdl) e Andreotti avrebbero votato contro Prodi contribuendo a far cadere io suo governo. In quell’occasione, Sica avrebbe mostrato anche gli appunti con gli estremi di presunti versamenti a Scalera. Notizie che Martino si preoccupa di ”girare” a Dell’Utri. E poco tempo dopo l’aspirante presidente della Regione Campania viene convocato da Denis Verdini, che lo tranquillizza assicurandogli un posto nella giunta regionale campana. Martino racconta che Sica aveva più volte minacciato di denunciare la corruzione dei senatori, ma che non avrebbe poi presentato alcun esposto. Ed è il coordinatore del Pdl a riferirgli che Berlusconi lo riteneva un ricattatore.
I magistrati amici. Martino snocciola i nomi in apertura di verbale, dicendo che Lombardi si vantava di averne favorito alcune carriere. Oltre a Marra e a Marconi, cita anche Paolo Albano procuratore in Molise e Bonaiuto, presidente di Corte di appello a Napoli. E diceva di essere in ottimi rapporti con l’allora vicepresidente del Csm, Nicola Mancino, con Vincenzo Carbone e Vitaliano Esposito e con il sottosegretario Caliendo.
http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=118422