domenica 24 ottobre 2010

In manette Giuseppe Spadaccini l’uomo di Bertolaso “nei cieli”.

L'imprenditore pescarese affidatario dell'appalto per gestire la flotta dei Canadair della Protezione Civile è rimasto coinvolto in un'operazione della Guardia di Finanza per evasione fiscale internazionale da circa 90 milioni di euro

A volte le cricche ritornano. Cambiano regione, raggio d’azione, nome degli esecutori materiali, ma ruotano sempre attorno a parole come appalti, evasioni fiscali. Talvolta Stato. O Protezione civile. Società nate dal nulla, ma che godono di sponsorizzazioni politiche spudorate, alcune messe addirittura nero su bianco e firmate da 130 parlamentari di Forza Italia e a An. Questa volta le indagini colpiscono il clan dell’ingegnere a capo del regno dei cieli. Si chiama Giuseppe Spadaccini è di Pescara e fa vivere le sue società grazie soprattutto a un maxi appalto che gli venne messo su un piatto d’argento (a seguito di una trattativa privata) dalla Protezione civile: la gestione dei Canadair della protezione civile fino al 2014 alla sua Sorem. Spadaccini, ovvero l’occhio di Bertolaso dall’alto dei cieli delle emergenze, uno degli uomini più potenti nell’economia abruzzese legato tanto a Gianni Letta quanto a Fabrizio Cicchitto. Che non paga i suoi dipendenti da agosto, ma questo pare quasi un dettaglio.

53 anni, abruzzese di Chieti, nipote di Felice, vecchio notabile democristiano, Spadaccini da tre giorni è in carcere con l’accusa di essere a capo di un’associazione a delinquere finalizzata all’evasione fiscale, un gruzzolo da 90 milioni di euro sottratto allo Stato. In parte, le società di Spadaccini, dalle casse pubbliche ricevevano il lavoro e alle casse pubbliche sottraevano denaro. Un mago, visto che riusciva anche a non pagare chi lavorava per lui in un settore delicato come quello dello spegnimento degli incendi. Con lui nell’inchiesta altre 23 persone, tutti rispettabilissimi professionisti che garantivano a Spadaccini l’aiuto per creare società fittizie all’estero, nel paradiso fiscale di Madeira in particolare, dove venivano accumulati i fondi neri. Ventiquattro le persone finite sotto inchiesta, di loro tredici sono agli arresti. Spadaccini non ha perso tempo: attraverso il suo avvocato, Sebastiano Ciprietti, ha già presentato ricorso al tribunale del riesame contro l’ordinanza del gip del tribunale di Pescara Guido Campli.

La storia di Spadaccini e della Sorem non nasce in questi mesi. Già nel 1997 la società che oggi è finita nella bufera giudiziaria, iniziò ad avere i primi problemi, proprio quando strappò l’appalto alla Sisam, società che all’epoca era controllata dall’Alitalia. Spadaccini, che insieme a Bud Spencer, all’anagrafe Carlo Pedersoli, controllava la società di Aerotaxi Air Columbia e che ancora prima aveva gettato le basi per la nascita di AirOne, presentò l’offerta nove minuti dopo la chiusura della gara d’appalto indetta dalla Protezione civile, guidata allora da Franco Barberi. Ma la Sorem ottenne tuttavia l’appalto attraverso una trattativa privata, nonostante la società non avesse piloti, esperienza né strutture per la manutenzione degli aerei.

Sulla scia di troppe difficoltà la Protezione Civile decide che a fine 2003, quando scadrà il contratto, l’ appalto alla Sorem non sarà rinnovato. Il direttore della Protezione Civile, Guido Bertolaso, fa trapelare l’ intenzione di indire una gara europea. E la battaglia riprende. Su due fronti, quello operativo e quello politico. La Sorem ha ormai 66 piloti, tra cui 8 canadesi, due francesi e un greco, gestisce 14 Canadair, e il servizio comincia a funzionare. Nel frattempo ben 130 parlamentari di Forza Italia e An, primo firmatario Fabrizio Cicchitto, scrivono a Berlusconi, denunciando le intenzioni discriminatorie contro la Sorem. Che diventa, sempre nel frattempo, uno dei principali inserzionisti pubblicitari dell’ Avanti, l’ organo dei socialisti confluiti in Forza Italia.

Così Spadaccini e la Sorem vanno avanti. Nel frattempo l’ingegnere abruzzese costruisce un piccolo impero dell’aviazione. La società oggi gestisce 19 Canadair della Protezione civile ed è proprietaria di altri 8 velivoli che vengono usati di supporto a terzi. Nell’azienda capogruppo, la Aeroservices Group, ci sono una serie di società per la manutenzione per grandi e piccoli aerei (la società San), una compagnia di voli di linea, executive e charter (ItAli) e addirittura una società pèer la formazione di piloti e tecnici aeronautici, la AirColumbia. Un gruppo da 90 milioni di euro all’anno di fatturato (solo casualmente la cifra coincide con quella evasa) e 500 dipendenti, molti dei quali senza stipendio da mesi, anche se questa volta Cicchitto non si è fatto portatore di nessuna lettera al premier Berlusconi.

Oltre a Spadaccini, gli ordini di custodia cautelare in carcere riguardano Francesco Valentini, avvocato, 44 anni, due cittadini portoghesi e un canadese ancora ricercato. Ai domiciliari sono stati posti, invece, il notaio pescarese Massimo D’Ambrosio, ritenuto “complice a tutti gli effetti di Spadaccini», colui che stipulava tutti i rogiti e «si prestava a riciclaggio di denaro”. Tra i nomi noti anche quelli di Leonardo Valenti, consulente pescarese, ex amministratore delegato del pastificio Delverde, e il commercialista di Chieti, Giacomo Obletter. Tra gli altri arrestati: Arcangela Savino, moglie di Valentini, e quattro collaboratori di Spadaccini: Gianfranco Bucci, Dante Silvi, Angela Fabrizio e Giordano Senesi.

Nell’ambito dell’operazione, che conta in totale 24 indagati, sono stati effettuati sequestri per quasi 12 milioni di euro. Sono stati posti sotto sequestro in particolare immobili per circa 6 milioni 800 mila euro di cui 5 a Pescara, 2 a Milano, 2 a Roma, 32 in un residence di Porto Rotondo, 2 a Gissi (Chieti); diritti d’uso su beni immobili pari a circa 250 mila euro; titoli societari per circa 3 milioni 700 mila euro delle società Sorem Srl, San Srl, e Air Columbia srl, detenute da Spadaccini direttamente e tramite la società Bytols; conti correnti bancari attivi riconducibili a Spadaccini per un valore superiore a 408 mila euro; uno yacht di 21 metri del valore di circa 516 mila euro, sempre in uso a Spadaccini.

di Emiliano Liuzzi



Don Vito e il prestito per l'azienda di Berlusconi


CORRELATO ALL'INTERNO: Trattativa mafia-Stato: il ''capitano'' indagato trasferito a Roma.


L’ex direttore della B. Popolare: “Nell’86 Ciancimino e Dell’Utri mi chiesero 20 miliardi”.


di Silvia Cordella - 23 ottobre 2010.


“Dell’Utri mi disse: ‘Abbiamo problemi al Nord con il sistema bancario’ e ‘con l’amico Ciancimino’ volevamo ‘sentire cosa si può ottenere dalle piccole banche siciliane’.

Così inizia l’intervista, pubblicata oggi su ‘Il Fatto Quotidiano’, a Giovanni Scilabra l’ex direttore generale della Banca Popolare di Palermo che nel 1986 si attivò, dopo una richiesta avanzata da Vito Ciancimino al conte Arturo Cassina, azionista di quell’istituto di credito, per fornire a Marcello Dell’Utri un finanziamento multimiliardario a favore delle aziende di Silvio Berlusconi.

Questa volta a parlare dei rapporti fra l’ex Sindaco di Palermo e le imprese di Berlusconi non è Massimo Ciancimino ma un manager settantaduenne, oramai in pensione che rievoca: “Nel 1985 era stata inaugurata la nuova sede della Banca Popolare di Palermo di fianco al Teatro Massimo, ricordo che l’incontro avvenne in quella sede”.

I tempi sono quelli della metà degli anni ’80, Vito Ciancimino era stato appena arrestato da Giovanni Falcone e un provvedimento del Tribunale di Palermo lo aveva costretto all’obbligo di soggiorno a Rotello, un piccolo comune del Molise.

Nonostante le misure restrittive, l’ex sindaco trovava sempre il modo di tornare in città e con la scusa di incontrarsi con i suoi legali si vedeva con Bernardo Provenzano. Fu probabilmente durante una di quelle trasferte che andò a trovare il direttore della Popolare di Palermo, Giovanni Scilabra per richiedere un prestito per Dell’Utri.

“Nei primi mesi del 1986 - racconta oggi Scilabra - il Cavaliere Arturo Cassina, mi disse: ‘Dottore Scilabra, vengo sollecitato da Vito Ciancimino per un finanziamento a un grande gruppo del Nord. Io vorrei che lei lo riceva e ascolti le sue richieste’. Dopo alcuni giorni - afferma l’ex manager - Vito Ciancimino è venuto insieme al signor Marcello Dell'Utri. Mentre Ciancimino lo conoscevo bene, era stato già assessore e sindaco, Dell’Utri per me era uno sconosciuto. Per accreditarsi mi disse che era palermitano, aggiunse che aveva un fratello gemello. Poi entrò nel vivo. Veniva a chiedere un finanziamento per il Cavaliere Berlusconi”.

La somma era di 20 miliardi di vecchie lire, una cifra enorme per quei tempi. “Dell’Utri mi disse: ‘Abbiamo problemi al Nord con il sistema bancario e allora abbiamo tentato con l’amico Ciancimino di sentire cosa si può ottenere dalle piccole banche siciliane’.

Così, continua Scilabra, “Marcello Dell'Utri disse che il gruppo Fininvest avrebbe ripagato con gli interessi l'operazione. Voleva restituire tutto dopo 3 anni, in un’unica soluzione.

Solo gli interessi sarebbero stati pagati durante i 36 mesi”. “Non capii – ammette l’ex direttore della banca - se dovevano servire per la Edilnord, per la Fininvest o per la Standa”.

“Comunque il gruppo Fininvest allora era indebitato per migliaia di miliardi”.

Così l’ex manager prima di esporsi decise di chiedere consiglio a tutti i direttori generali più anziani delle altre banche popolari della Regione.

“Contattai Francesco Garsia, direttore della Banca Popolare di Augusta, il barone Carlo La Lumia e il direttore Giuseppe Di Fede della Banca di Canicattì, l’avvocato Gaetano Trigilia della Banca di Siracusa, il barone Gangitano della Banca dell’Agricoltura, sempre di Canicattì e Francesco Romano della Popolare di Carini”.

All’epoca “erano le banche più rappresentative della Sicilia, con tanti sportelli e attivi congrui”.

Dopo un consulto con ognuno di loro il giudizio però fu negativo, l’operazione era troppo rischiosa per le loro piccole banche e “la centrale rischi bancari indicava per il Gruppo Berlusconi un’esposizione per migliaia di miliardi di lire”, “avremmo rischiato di perdere tutti i soldi”, ammette l’alto funzionario.

Inutile dire che Vito Ciancimino ci rimase “molto male”. Secondo Scilabra anche lui si sarebbe ritagliato una fetta per la mediazione, come di sua consuetudine.

La sfuriata di don Vito “fu sgradevole ” racconta l’ex dirigente. “Mi disse che eravamo una bancarella, che eravamo tirchi, che avevamo fatto male e che dovevamo dare questi soldi a Berlusconi, un grosso imprenditore che avrebbe pagato congrui interessi”.

L’ex Sindaco in effetti non amava essere contrastato. D’altra parte è grazie a lui che il conte Cassina, (personaggio influente in città probabilmente per via della sua appartenenza all’Ordine dei Cavalieri del Santo Sepolcro), poteva contare su una pluridecennale gestione della manutenzione di strade e fogne.

Lecito pensare dunque che Don Vito fosse irritato da quel diniego, per il quale gli era stata sottratta soprattutto l’opportunità di concludere un affare.

Delusioni di don Vito a parte, con le dichiarazioni di Scilabra si aggiungono ulteriori indizi alla natura dei rapporti fra l’ex Sindaco di Palermo e l’entourage del Gruppo Berlusconi.

Così, mentre l’avvocato del Premier, Nicolò Ghedini, si appresta a smentire nuovamente tali relazioni “mai avvenute” sia a livello “diretto” che “indiretto”, l’ex direttore generale della Banca Popolare di Palermo, sempre nella sua intervista, offre il suo personalissimo parere e una riflessione finale: “Per me al 99 per cento Massimo Ciancimino dice la verità. Sono stufo delle bugie. Per capire l’Italia di oggi bisogna partire dalle storie come quella di Cassina e per costruire un Paese migliore bisogna cominciare a raccontare tutta la verità”.


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di Aaron Pettinari



sabato 23 ottobre 2010

DA DIFFONDERE ! ! ! !



Oggetto: I: 498 deputati contro l'eliminazione del vitalizio che a noi Contribuenti

costa 150 milioni l?anno (circa 291 miliardi di lire) FATELA GIRARE

Cosa ne dite ?

Il giorno 21 settembre 2010 il Deputato Antonio Borghesi dell'Italia dei Valori ha proposto l'abolizione del vitalizio che spetta ai parlamentari dopo solo 5 anni di legislatura in quanto affermava cha tale trattamento risultava iniquo rispetto a quello previsto dai lavoratori che devono versare 40 anni di contributi per avere diritto ad una pensione. Indovinate un po' come è andata a finire!

Presenti 525
Votanti 520
Astenuti 5
Maggioranza 261
Hanno votato sì 22

Hanno votato no 498.

Ecco un estratto del discorso presentato alla Camera :

Penso che nessun cittadino e nessun lavoratore al di fuori di qui possa accettare l'idea che gli si chieda, per poter percepire un vitalizio o una pensione, di versare contributi per quarant'anni, quando qui dentro sono sufficienti cinque anni per percepire un vitalizio. È una distanza tra il Paese reale e questa istituzione che deve essere ridotta ed evitata. Non sarà mai accettabile per nessuno che vi siano persone che hanno fatto il parlamentare per un giorno - ce ne sono tre - e percepiscono più di 3.000 euro al mese di vitalizio. Non si potrà mai accettare che ci siano altre persone rimaste qui per sessantotto giorni, dimessisi per incompatibilità, che percepiscono un assegno vitalizio di più di 3.000 euro al mese. C'è la vedova di un parlamentare che non ha mai messo piede materialmente in Parlamento, eppure percepisce un assegno di reversibilità.
Credo che questo sia un tema al quale bisogna porre rimedio e la nostra proposta, che stava in quel progetto di legge e che sta in questo ordine del giorno, è che si provveda alla soppressione degli assegni vitalizi, sia per i deputati in carica che per quelli cessati, chiedendo invece di versare i contributi che a noi sono stati trattenuti all'ente di previdenza, se il deputato svolgeva precedentemente un lavoro, oppure al fondo che l'INPS ha creato con gestione a tassazione separata.
Ciò permetterebbe ad ognuno di cumulare quei versamenti con gli altri nell'arco della sua vita e, secondo i criteri normali di ogni cittadino e di ogni lavoratore, percepirebbe poi una pensione conseguente ai versamenti realizzati.
Proprio la Corte costituzionale, con la sentenza richiamata dai colleghi questori, ha permesso invece di dire che non si tratta di una pensione, che non esistono dunque diritti quesiti e che, con una semplice delibera dell'Ufficio di Presidenza, si potrebbe procedere nel senso da noi prospettato, che consentirebbe di fare risparmiare al bilancio della Camera e anche a tutti i cittadini e ai contribuenti italiani circa 150 milioni di euro l'anno.

Per maggiori informazioni ecco il link al sito di Borghesi con il discorso:


http://www.antonioborghesi.it/index.php?option=com_content&task=view&id=314&Itemid=35

Non ne hanno datto notizia né radio, né giornali, né Tv OVVIAMENTE. Facciamola girare noi!



Se i minatori cileni fossero stati italiani sarebbe andata diversamente.


Circola in rete

Se i minatori cileni fossero stati italiani sarebbe andata diversamente.

Se i 33 minatori fossero rimasti intrappolati in una miniera italiana, le cose sarebbero andate così:

1° giorno: tutti uniti per salvare i minatori, diretta tv 24h, Bertolaso sul posto.

2° giorno: da Bruno Vespa plastico della miniera, con Barbara Palombelli, Belen e Lele Mora.

3° giorno: prime... difficoltà, ricerca dei colpevoli e delle responsabilità: BERLUSCONI: colpa dei comunisti; DI PIETRO: colpa del conflitto d'interessi; BERSANI: ... ma cosa ... è successo? BOSSI: sono tutti terroni, lasciateli la'; CAPEZZONE: non è una tragedia è una grande opportunità ed è merito di questo governo e di questo premier; FINI: mio cognato non c'entra.

4° giorno: TOTTI: dedicherò un gol a tutti i minatori.

5° giorno IL PAPA: "faciamo prekiera a i minatori ke in qvesti ciorni zono vicini al tiavolo!!"

6° giorno: cala l'audience, una finestra in Chi l'ha visto e da Barbara D'urso che intervista i figli dei minatori: "dimmi, ti manca papà?'" dal

7° all 30esimo giorno falliscono tutti i tentativi di Bertolaso, che viene nominato così capo mondiale della protezione civile.

Dopo un mese, i minatori escono per fatti loro dalla miniera, scavando con le mani.

Un anno dopo, i 33 minatori, già licenziati, vengono incriminati per danneggiamento del sito minerario.

Ma è successo in Cile.... ci siamo salvati!".

Luca E.

Dal blog di Beppe Grillo.

venerdì 22 ottobre 2010

Strage inceneritori: la soluzione tecnologica e' la DISSOCIAZIONE MOLECOLARE.



LA NOTIZIA E’ DA PRIMA PAGINA MA SUI QUOTIDIANI NON L’HAI TROVATA!!!

Hai invece trovato chilotoni di inchiostro sulle supposte trombate di un milanese trapiantato a Roma. Che palle! La notizia e' presto detta: a Peccioli, in provincia di Pisa hanno inaugurato il primo dissociatore molecolare, un aggeggio in grado di trattare i rifiuti in modo pulito. INCREDIBILE! Parrebbe proprio una bufala, l’ennesima trovata degli ecomostri, ma i promotori dell’iniziativa sono persone degne di fiducia. L’iniziativa e' partita tre anni fa per merito del gruppo di Fabio Roggiolani, dei verdi toscani, gli stessi che hanno fatto la scelta controcorrente di candidare Cimini alle europee per il centro Italia (http://www.jacopofo.com/elezioni-giovanni-cimini-verdi-ambiente-ecotecnologie-politica). Questo impianto sperimentale e' stato costruito a Peccioli, il famoso comune toscano dove esiste una discarica gestita con tecnologie all’avanguardia, dove tutto il gas prodotto dai rifiuti in putrefazione viene raccolto, filtrato e usato poi per produrre elettricita' attraverso un generatore alimentato dal gas stesso. Si tratta di una discarica che non puzza, sopra la quale sono stati anche organizzati concerti. Silvano Crecchi, sindaco di Peccioli e promotore di questo impianto, e' lo stesso che ha organizzato la prima formula italiana di impianti fotovoltaici (sopra la discarica) come forma di risparmio per i cittadini.

COME FUNZIONA: si tratta di un’evoluzione della tecnologia della pirolisi. Sostanzialmente l’immondizia non viene bruciata con una fiamma viva. Si ha una combustione a bassa temperatura, 400 gradi, in un contenitore nel quale c’e' pochissimo ossigeno. Una combustione lenta, i rifiuti impiegano 24 ore a carbonizzarsi. A bassa temperatura i metalli non fondono, non c’e' dispersione nei fumi e quindi i metalli restano nella cenere prodotta e sono successivamente recuperabili e riutilizzabili come materia prima. In questo modo si azzerano le micro polveri e le nano polveri e diminuiscono drasticamente le emissioni nocive che successivamente vengono abbattute completamente nel processo di depurazione del gas emesso. Alla fine del processo di lavaggio otteniamo gas combustibile che viene bruciato in un generatore di elettricita'. Il gas di combustione viene poi ulteriormente filtrato in uscita. Una differenza assoluta rispetto agli inceneritori tradizionali (pietosamente ribattezzati termovalorizzatori). Li' c’e' una combustione con la formazione di composti chimici altamente tossici come le diossine e solo dopo si interviene con la depurazione dei fumi, con enormi problemi di efficienza reale del processo (e possibilita' di fare i furbi buttando nell’atmosfera i fumi senza averli filtrati a dovere). Nella dissociazione molecolare si ha un processo di per se' molto meno inquinante e il lavaggio del gas prodotto e' interno al processo in quanto se il gas non viene completamente depurato da impurita' danneggia il generatore a turbina di elettricita'.

Questo vuol dire che abbiamo in mano qualche cosa di concreto per bloccare l’installazione di nuovi inceneritori di vecchio tipo e per pretendere la conversione di quelli gia' installati.

Non nascondo che dietro questa questione c’e' un grosso problema strategico. Il motivo per il quale questa notizia ha avuto un’eco nulla e' che perfino il movimento ecologista non ha voluto sostenerla. La questione e' infatti delicata. Da decenni siamo tutti d’accordo sul fatto che la soluzione principale della questione dei rifiuti e' l’idea di RIFIUTI ZERO. Abbattimento del volume degli imballaggi, riutilizzo dei contenitori, vendita di latte e detersivi alla spina, riciclaggio eccetera. Ma io credo che sia necessario ragionare sui rapporti di forza e non farsi prendere dal fondamentalismo ecologista. “O tutto o niente” non e' una soluzione. Oggi Berlusconi sta indiscutibilmente dando il via a decine di inceneritori di vecchio tipo. Non e' realistico pensare di fermarlo con le forze ridicole che abbiamo. E’ invece realistico spiegare alla gente di destra che questi impianti sono estremamente piu' sicuri, molto piu' convenienti economicamente, di dimensioni piccole. E’ una cosa che anche una persona di destra puo' capire e perfino uno della direzione nazionale del Partito Democratico puo' arrivarci. Quindi e' una soluzione fattibile. Non un’opposizione di principio: abbiamo un’alternativa sensata! Praticabile. E’ comprensibile che i comitati locali abbiano paura di trovarsi di fronte a un’altra fregatura, e' comprensibile che alcuni ecologisti temano di trovarsi invischiati in quisquilie tecniche che portino a deviare l’attenzione dal vero problema (RIFIUTI ZERO). Ma questo modo di ragionare ci porta a una sconfitta certa. IL PURISMO UCCIDE LE POSSIBILITA’.

Secondo me dobbiamo ragionare in un’altra maniera: oggi gli inceneritori stanno provocando migliaia di casi di tumori a causa delle diossine e delle nanopolveri emesse. Parliamo di un numero impressionante di morti. Questa tecnologia e' stellarmene migliore, ha alle spalle ormai parecchi anni di sperimentazione, e a breve l’esperimento di Peccioli ci dara' i dati di efficienza su un prototipo di grandi dimensioni (che sono comunque piccolissime rispetto agli inceneritori tradizionali). Ho parlato con una serie di specialisti che mi hanno confermato senza dubbio che questa tecnologia e' decisamente migliore. Ovviamente anche in questo caso e' fondamentale il controllo delle associazioni sull’efficienza dei processi di lavorazione del gas e su tutti i tipi di emissioni. Ma rinunciare a questa possibilita' dal mio punto di vista sarebbe immorale. Una colpa verso le persone che ora sono condannate al rischio di sofferenze indicibili perche' stanno per costruirgli sotto casa un mostro che sputa veleno. Questo possiamo ora realisticamente impedirlo. E vorrei aggiungere che proprio per questo e' sperabile che si crei un coordinamento nazionale dei comitati locali contro gli inceneritori tradizionali, che lancino una campagna di discussione sulla dissociazione molecolare come alternativa praticabile. Ed e' importante anche che Giovanni Cimini sia eletto e possa condurre al Parlamento europeo questa battaglia contro i termovalorizzatori, una tecnologia obsoleta e criminale.

Ma le buone notizie non vengono mai da sole Sempre grazie al lavoro del gruppo dei verdi di Roggiolani e Cimini e' stato installato a Massa la prima macchina in grado di trattare i rifiuti ospedalieri, considerati rifiuti speciali in quanto contengono materiale organico potenzialmente infetto. Si tratta di un apparecchio che puo' stare in una stanza che polverizza e sterilizza i rifiuti ospedalieri e che puo' diventare dotazione di ogni ospedale abbattendo il costo dello smaltimento dei rifiuti con un risparmio enorme, 90%, per le Asl. Il Converter dei rifiuti ospedalieri e' stato installato per sei mesi all'ospedale pediatrico di Massa e i risultati sono stati certificati dal CNR di Pisa. I rifiuti passano da un costo di smaltimento di 1,30 euro/kg a 30 cent per kg! L'impianto si ripaga investendo il 70% del risparmio. La Toscana, che ha deciso di passare a questo sistema, risparmiera' dieci milioni di euro all'anno sui 15 previsti. Ma la cosa fondamentale e' che i rifiuti ospedalieri smettono di andare in mano alle ecomafie a spasso e smettono di arricchire gli inceneritoristi.

Se vuoi sapere di piu' sul dissociatore:

Visita all'impianto di dissociazione molecolare dei rifiuti di Husavik, Islanda http://www.ecquologia.it/cms/content/view/1530/28/

La brochure e gli atti del Convegno sulla dissociazione molecolare (Lucca 21/10/2006) http://www.ecquologia.it/cms/content/view/1531/38/

La Scheda tecnico-economica dell'impianto di dissociazione molecolare (pdf 2,5 Mb) http://www.ecquologia.it/sito/rifiuti/energo-dissmol.pdf

Rapporto conclusivo della Commissione Interministeriale per le migliori tecnologie di gestione e smaltimento dei rifiuti (pdf 65 Kb) http://www.ecquologia.it/sito/rifiuti/commissione-tecnologie-gestione-smaltimento.pdf

Rifiuti. Enea: possibile smaltimento in modo pulito http://www2.ecquologia.it/cms/content/view/506/28/

Link sul Converter per i rifiuti ospedalieri: http://www2.ecquologia.it/cms/content/view/2294/28/


http://www.jacopofo.com/dissociazione-molecolare-peccioli-ecologia-pirolisi-ambiente


mercoledì 20 ottobre 2010

Il business delle armi non conosce crisi.


L'Italia è al quarto posto nella classifica degli esportatori di armi convenzionali alle nazioni del Sud del Mondo. Nel pacchetto clienti figurano anche quei paesi che non rispettano i diritti umani

Con una mano spediamo aiuti umanitari, con l’altra vendiamo mitra e carri armati. La grande ipocrisia della politica estera italiana (e di tutto l’Occidente) nei confronti del Terzo mondo è stata impietosamente messa a nudo da un rapporto destinato ai membri del Congresso americano, intitolato “Conventional Arms transfers to developing world, 2002-2009”, che analizza trend e numeri delle forniture di armamenti ai paesi in via di sviluppo.

L’anno scorso il nostro Paese ha firmato
contratti militari per 2,4 miliardi di dollari, cifra che lo pone al 4° posto nella classifica degli esportatori di armi convenzionali alle nazioni povere. Davanti ci sono solo Usa, Russia e Francia. Il business per le fabbriche tricolori è in netta crescita, se si considera che nel 2008 l’export era stato di “appena” 1,3 miliardi. L’Italia produce il 9,16% delle armi esportate nel mondo: di queste più della metà (il 59,3%) finisce negli arsenali delle nazioni in via di sviluppo. Tra il 2006 e il 2009 il Belpaese ha consegnato agli eserciti africani armi per 500 milioni di dollari. Ma il mercato emergente è il Medio Oriente: negli ultimi tre anni sono stati firmati contratti per 3 miliardi e 700 milioni. Sbocchi importanti anche in Asia, dove gli ordinativi sono passati dai 300 milioni del 2002-2005 a 1 miliardo e 300 milioni nell’ultimo triennio.

L’Italia è in buona compagnia: nel solo 2009 le vendite di armamenti al terzo mondo ha fruttato all’Occidente 45 miliardi di dollari.
Usa e Russia, principali fornitori dai tempi della guerra fredda, continuano a dominare il mercato, ma i produttori europei sono ormai temibili concorrenti. Secondo il rapporto, Germania, Francia, Gran Bretagna e Italia sono in grado di fornire una “larga varietà di armi altamente sofisticate”. Per convincere i compratori scendono in campo premier e ministri. I Paesi europei, insiste il dossier, “hanno aumentato la loro competitività attraverso un forte supporto di marketing da parte dei governi”. Un esempio? La visita compiuta da SilvioBerlusconi in Kazakistan l’anno scorso. Poco tempo dopo, la Selex Galileo (gruppo Finmeccanica) concluse un importante contratto per equipaggiare i vecchi tank sovietici T-72 con avanzati sistemi ottici. Un accordo di cui la stessa azienda si vanta sul suo sito. Ma l’affare sembra in contrasto con il Codice di condotta adottato dall’Ue nel 2005, che pone rigide condizioni per l’export di armi. Tra queste, al punto 2, c’è il rispetto dei diritti umani da parte del compratore. Non sembra che ciò accada in Kazakistan, dove Nazarbaev è al potere da 20 anni e nel cui parlamento siedono solo esponenti del partito del presidente-padrone.

Il codice d’altronde resta spesso lettera morta, oscurato dalle ragioni economiche. Nessuno si fa troppi scrupoli nel vendere aerei, navi e cannoni ai Paesi del Golfo, che non brillano per libertà civili. Tra il 2002 e il 2009 l’
Arabia Saudita ha speso più di tutti: 40 miliardi di petrodollari. Le tensioni mediorientali sono il volano principale di un mercato in cui a fare affari d’oro sono soprattutto gli Usa, che vendono i caccia F16 sia a Israele che all’Egitto, mentre gli elicotteri Black Hawk vanno a ruba negli Emirati Arabi. La Russia invece guarda all’Asia: nel 2009 ha venduto al Vietnam sei sottomarini classe Kilo per 1 miliardo e 800 milioni. La Cina è l’esportatore emergente in Africa, dove sono richieste soprattutto armi leggere e caccia meno sofisticati di quelli occidentali. In questo modo Pechino accresce il suo status di potenza nell’area e si avvantaggia nella corsa alle risorse naturali del Continente nero.

La torta è ricchissima e tutte le potenze partecipano al banchetto: nel terzo mondo vengono spedite armi di terra, di acqua e di mare. Un dato su tutti: nell’ultimo triennio gli Usa hanno venduto al terzo mondo 446 tank, la Russia 420, i “grandi” europei 230. La domanda non si ferma mai, nonostante la crisi economica. E l’Occidente è sempre pronto a soddisfarla.