sabato 9 luglio 2011

Indebitamento imprese a 980 miliardi di euro.


L'aumento del tasso d'interesse porterà un incremento pari a circa 2,45 miliardi di euro. Le regioni col più alto tasso di esposizione verso le banche sono la Puglia e la Sicilia

MESTRE - L'indebitamento delle imprese italiane ha superato i 980 miliardi di euro e con l'aumento del tasso di interesse avvenuto nei giorni scorsi, il sistema delle imprese dovrà farsi carico di un costo aggiuntivo pari a 2,45 miliardi di euro.

A lanciare l'allarme è il segretario della Cgia di Mestre, Giuseppe Bortolussi, che ha analizzato la situazione debitoria delle imprese italiane (aumentata nell'ultimo anno del +6,1%) e gli effetti economici che le stesse subiranno nei prossimi mesi a fronte dell'aumento di un quarto di punto percentuale del tasso ufficiale di sconto (Tus) deciso nei giorni scorsi dalla bce.

Pertanto, a fronte di un livello di indebitamento delle nostre imprese nei confronti del sistema bancario italiano pari a 980,169 mld di euro (dato riferito al 30-04-2011), l'innalzamento del Tus all'1,50% (aumento +0,25%), comporterà un incremento degli interessi annui a carico del sistema imprenditoriale italiano, pari a 2,45 mld di euro. A livello di singola impresa, secondo le stime della Cgia, questo aumento del costo del denaro causerà una spesa media annua aggiuntiva di 464 euro.

"Intendiamoci - prosegue Giuseppe Bortolussi - la decisione della Bce di aumentare il tasso di interesse determinerà un incremento del costo del denaro a livello locale sicuramente superiore allo 0,25%. Pertanto, possiamo dire con certezza che il costo aggiuntivo di 2,4 miliardi di euro è sottostimato. Inoltre - prosegue Bortolussi - non è nemmeno da escludere che questa operazione penalizzerà in maniera più pesante le piccole imprese delle grandi. Infatti, per un piccolo imprenditore il potere contrattuale nei confronti del sistema bancario è spesso molto modesto. Cosa diversa è quando al tavolo della trattativa con un istituto bancario si siede una grande impresa: questa può contare su un peso politico molto diverso da quello esercitabile, ad esempio, da un artigiano o da un piccolo commerciante".

A livello regionale, invece, saranno gli imprenditori della Lombardia, del Trentino e dell' Emilia Romagna a pagare il conto più salato. Per i primi, a fronte di un indebitamento complessivo pari a 269,4 miliardi di euro, ciascuna impresa subirà un aumento medio dei costi, pari a 818 euro l'anno. Per i secondi, gli incrementi di spesa saranno altrettanto importanti. Per le aziende del Trentino (debito complessivo pari a 28,8 miliardi di euro), l'incremento medio annuo dei costi per impresa sarà di 706 euro; per gli emiliano-romagnoli (con una esposizione bancaria di 108,2 mld di euro), l'aumento di spesa pro-azienda sarà di 631 euro.

"Infine - conclude Bortolussi - l'incremento dei debiti registrati nell'ultimo anno (30 aprile 2011 su 30 aprile 2010) è stato molto forte soprattutto nelle regioni del sud. A fronte di un dato medio nazionale pari al +6,1%, in calabria è stato del +8,1%, in basilicata del +8,2% e in campania del + 8,3%. Le punte massime, invece, si sono toccate in Puglia (+9%) ed in Sicilia (+9,9%").



Tremonti, discussione con Berlusconi: «Non sarà vittima del metodo Boffo».



Il ministro nell'interrogatorio del 17 giugno ai pm di Napoli Leggi l'interrogatorio
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NAPOLI - Ci fu una discussione animata ai primi di giugno con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi sulla «politica in generale e sulla manovra di pareggio economico da fare», nel corso della quale «manifestai la mia refrattarietà ad essere oggetto di campagne stampa tipo quella Boffo». È quanto riferito dal ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, ai pm di Napoli che lo hanno ascoltato lo scorso 17 giugno nell'ambito dell'inchiesta sulla P4. L'Ansa ha potuto prendere visione del verbale dell'interrogatorio, durante il quale i magistrati hanno fatto ascoltare a Tremonti la registrazione di una telefonata avvenuta il 7 giugno scorso tra il presidente del Consiglio e il capo di stato maggiore della Guardia di Finanza, generale Michele Adinolfi. «Avevo già voci del rapporto di amicizia o comunque di conoscenza di Adinolfi con il presidente Berlusconi, attesa la comune passione per il Milan». E ai pm che gli chiedono se rientra nella «fisiologia istituzionale» un rapporto diretto tra il premier ed il capo di stato maggiore della Gdf, Tremonti risponde: «Mi attengo a criteri istituzionali diversi e cioè mi relaziono solo con il comandante generale del corpo che, sia detto per inciso, è persona che stimo particolarmente».

LA DISCUSSIONE - Con Berlusconi, spiega Tremonti ai magistrati, «ebbi una discussione (...), seguito di precedenti discorsi sulla politica in generale, sulla manovra di pareggio economica da fare, eccetera», nella quale «io e il presidente del Consiglio manifestammo posizioni diverse sulla politica di bilancio». Ad un certo punto della discussione, prosegue il ministro, Berlusconi espresse «posizioni fortemente critiche in ordine alla mia attività di ministro. Per inciso e in parallelo su alcuni settori della stampa si manifestava una tendenza, una spinta, alle mie dimissioni se non avessi modificato le mie posizioni. A questo punto, se non ricordo male, manifestai la mia refrattarietà ad essere oggetto di campagne stampa tipo quella «Boffo». Ciò trovava riscontro in voci di Parlamento che mi sono permesso di segnalare al presidente». «Quando parlo di metodo Boffo - precisa poi Tremonti - mi riferisco alla propalazione sui mass-media di notizie riservate e/o infondate atte a screditare chi viene preso di mira. Non alludevo dunque, come voi mi chiedete, all'utilizzazione di notizie di carattere giudiziarie e riservate per fini strumentali. Con riferimento alla vostra indagine, ne ho appreso dell'esistenza solo dai giornali».

ALLA FINANZA - Capitolo Guardia di Finanza. Il ministro dell'Economia Giulio Tremonti disse al comandante generale della Guardia di Finanza «meno salotti, meno palazzi, consegne in caserme». Anche questa espressione è contenuta nel verbale di interrogatorio in qualità di persona informata dei fatti che Tremonti ha reso il 17 giugno scorso ai pm di Napoli Curcio e Woodcock nell'ambito dell'inchiesta sulla P4 e che è stato allegato all'indagine su tangenti in cui è coinvolto l'ex consulente di Tremonti, Marco Milanese.

LE CORDATE - I pm chiedono a Tremonti delle eventuale esistenza di cordate contrapposte all'interno della Guardia di Finanza. «A distanza di qualche tempo mi vado più sempre convincendo - risponde il ministro, nel verbale di interrogatorio come persona informata dei fatti di cui l'Ansa conosce il contenuto - del fatto che la rimozione dell'impedimento di legge a che gli alti ufficiali della Gdf potessero ricoprire l'incarico di comandante generale è stata, per un verso, positiva, perché al vertice del Corpo viene nominata persona che conosce le problematiche dello stesso e ha le necessarie competenze, ma ha portato anche conseguenze negative, nel senso che si sono creati meccanismi di competizione tra possibili candidati, meccanismi potenzialmente negativi».

INDIRIZZO - «Voglio essere chiaro - ha spiegato il ministro - gli alti ufficiali nella prospettiva di diventare comandanti generali hanno preso a coltivare relazioni esterne al Corpo che non trovo opportune: più esattamente c'è il rischio, la tendenza di eccesso di competizione». «Mi sono permesso nella mia qualità di ministro, qualche tempo dopo la nomina del primo comandante generale appartenente al Corpo, avendo verificato o avendo avuto voce di un certo attivismo relazionale di alcuni generali in servizio a Roma di suggerire al Comandante generale di dare alcune direttive nel senso di avere un tipo di vita più sobria. Gli dissi: «meno salotti, meno palazzi, consegne in caserma». «Ribadisco che nella mia funzione, anche memore di alcune polemiche passate, ho sempre evitato di avere rapporti diretti di tipo operativo con alti ufficiali della Gdf. Applicando correttamente la legge ho ritenuto giusto limitare la mia funzione a quella di indirizzo esercitando la stessa direttamente ed esclusivamente verso il comandante generale».

«MAI AVUTO DA LUI OROLOGI IN REGALO» - «Per quanto riguarda il dono di un orologio da parte di Milanese alla mia persona, escludo di aver mai ricevuto il dono in oggetto» dice il ministro dell'Economia Giulio Tremonti al pm di Napoli Vincenzo Piscitelli. Nell'interrogatorio, di una pagina, il ministro sottolinea che Milanese, in qualità di consigliere politico del ministero, «svolge un ruolo di raccordo con il Parlamento, essendo egli stesso parlamentare». Tremonti racconta inoltre di aver conosciuto Milanese «intorno al 2001, in occasione della sua applicazione quale aiutante di campo presso il ministero dell'Economia». E infine risponde ad una domanda degli inquirenti: «non c'è mai stata una collaborazione professionale del Milanese nello studio professionale di cui sono stato socio». (fonte Ansa)

http://www.corriere.it/politica/11_luglio_08/tremonti-pm-gdf_91e6d190-a980-11e0-b750-7ee4c4a90c33.shtml


La spartizione dei posti in Finmeccanica. - di Fiorenza Sarzanini


Finmeccanica, la spartizione dei postiListe con nomi di politici e manager


Ecco le liste con i nomi di politici e manager.

NAPOLI - Manager sponsorizzati dai politici che così si spartiscono i posti nei consigli di amministrazione delle aziende di Stato. Foglietti con le indicazioni da eseguire consegnati, alla vigilia delle nomine, da ministri e parlamentari per accaparrarsi almeno una poltrona nelle società controllate da Finmeccanica. Sono le carte dell'inchiesta condotta dal pubblico ministero Vincenzo Piscitelli sulla presunta corruzione di Marco Milanese - deputato pdl ed ex consigliere del ministro Giulio Tremonti - a svelare i retroscena della divisione tra partiti che consente anche il controllo degli appalti. E a rivelare quanto forte fosse l'influenza dello stesso Milanese e cospicua la contropartita che sarebbe riuscito a ottenere dai suoi «protetti»: auto di lusso, gioielli, soldi in contanti, ma anche splendide ville in Costa Azzurra. Un «tesoro» che comprende pure conti all'estero.

I «consiglieri» della Lega e di La Russa
È l'esame dei computer del responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica Lorenzo Borgogni - indagato per corruzione in un'altra indagine - a far emergere le trattative per la designazione di alcuni consiglieri. Ci sono schemi, appunti, anche alcune mail ritenute «interessanti» dagli investigatori. Durante la perquisizione nel suo ufficio è stato trovato un foglietto con una lista di politici scritti a penna: «Giorgetti, Milanese, Romani (Guerrera), Fortunato (Mef), Galli, Squillace x La Russa». Per saperne di più Piscitelli convoca Barbara Corbo, la segretaria di Borgogni. E l'11 marzo scorso la donna chiarisce: «Il file trovato nel mio computer denominato "Membri esterni controllate giu10 x Milanese.doc" tratto dalla cartella C:Borgogni 2010 e 2011, è un documento che ho redatto io recependo le indicazioni e le informazioni del dottor Borgogni... La denominazione "Lega" che compare accanto ai nomi Maffini, Ghilardelli, Belli e Vescovi, presenti nello stesso file, presumo sia riferibile al partito politico. Il nominativo La Russa che compare accanto ai nomi di Plinio, Politi e Gatti presumo sia quello dell'attuale ministro della Difesa ma tali circostanze potranno essere confermate solo da Borgogni».

Il giorno dopo l'alto dirigente di Finmeccanica viene interrogato. E conferma: «Per le nomine di terzo livello dove gli emolumenti sono molto bassi, concordo con l'ad delle società controllanti quelle dove effettuare le nomine all'interno dei curricula che arrivano o dal mondo della politica soprattutto del territorio dove sono insediate le società o dai consiglieri di amministrazione di Finmeccanica. Naturalmente le nomine di questi sette consiglieri, benché provengano formalmente dal ministero del Tesoro, sono il prodotto di una mediazione politica all'interno delle componenti della maggioranza di governo, dove il tavolo di compensazione è a Palazzo Chigi e dove confluiscono le richieste dei ministeri di riferimenti come Difesa e Sviluppo Economico con i quali Finmeccanica ha rapporti. Per le nomine di primo livello in previsione della scadenza io preparo un prospetto e lo mando ai tre ministeri, a Palazzo Chigi e ai consiglieri espressione della politica».

Le indicazioni di Scajola e Giovanardi
Borgogni si sofferma poi su chi è ancora in carica. E afferma: «Per quanto riguarda gli ultimi tre anni, Squillace è espressione del ministro La Russa, il consigliere Galli della Lega, mentre per lo Sviluppo Economico (Scajola) il riferimento è stato il consigliere Alberti, anche se formalmente espressione dell'azionista Mediobanca. Per quanto riguarda il Tesoro la lista la consegnavo a Milanese. Naturalmente da ciascuna parte ci sono state richieste per il maggior numero di persone e per il 2010 c'è stato un tavolo di compensazione e di coordinamento dove erano presenti Letta, Milanese, Giorgetti per la Lega e io che avevo ricevuto due, tre nomi da La Russa che non poteva partecipare. In questa riunione si decise poi quale parte politica doveva presentare i curricula e per quale società (per esempio la Lega a mezzo Giorgetti chiese che un posto fosse senz'altro riservato a quel partito in Ansaldo Energia riservandosi di farmi avere un curriculum forse già datomi nell'occasione) e così via... Ricordo per esempio che il nominativo di Adolfo Vittorio per Elsag Datamat me lo diede Letta per conto di Giovanardi che poi mi chiamò in prima persona... Ricordo che il nominativo di Marchese (Guido, arrestato due giorni fa, ndr ) fu proposto da Milanese nelle caselle che spettavano al Tesoro, per la presidenza del Cs di Oto Melara e per il cda di Ansaldo Energia dove fu registrata l'incompatibilità ai sensi del codice civile. Quando sorse il problema rilevammo che era stato nominato anche l'anno precedente, sempre su indicazione del Tesoro, nel Cs di Ansaldo Breda».

Tra le nomine finite nell'indagine anche quella di Giovanni Alpeggiani in rappresentanza del ministro della Salute Ferruccio Fazio nel cda del policlinico San Matteo di Pavia. Si tratta di uno dei soci di Milanese in alcuni investimenti immobiliari in Costa Azzurra, ma nel suo interrogatorio nega che a proporlo sia stato il parlamentare. «Sono stato designato - afferma - dopo che in prima battuta era stato designato Paolo Cirino Pomicino, ma poiché quella prima scelta sollevò un vespaio di critiche, il ministro designò me. Non ne ho mai parlato con Milanese e credo che neanche lo sappia».

Le ville in Francia, i conti esteri, le carte «gold»
È Sergio Fracchia a rivelare al pm Piscitelli gli affari immobiliari del parlamentare sui quali si concentra adesso l'indagine soprattutto per accertare l'origine del denaro utilizzato per gli acquisti: «Ho lavorato come venditore di immobili su "Antenna3", una Tv libera lombarda, e il legale di questa società era l'avvocato Maria Taddeo. Diventammo amici anche con il marito di allora Marco Milanese. Divennero anche miei clienti comprando una casa a Cap Martin nel 96/97. Questa casa è stata poi venduta, sempre attraverso di me, e ne hanno comprata un'altra più grande con una camera in più, sempre a Cap Martin. Anche questa seconda casa è stata poi venduta, sempre mio tramite. Qualche anno dopo mi hanno chiesto un investimento più consistente e hanno comprato, nell'anno 2006/2007, una villetta a Cannes, ricorrendo ad un mutuo, pagandola poco sopra il milione di euro. Inoltre, devo precisare che nella mia attività ci sono molte persone che vogliono investire nel settore immobiliare ma non hanno la disponibilità sufficiente per comprare un intero immobile. Per venire incontro a questa esigenza, si costituiscono delle società immobiliari, sempre di diritto francese, e si vendono le quote di partecipazione per importi che possono oscillare da 50.000 a 150.000 euro massimo. Milanese, oltre le villette di cui ho parlato, nel 2007/2008, se ben ricordo, in occasione dell'acquisto dell'ultima villetta, aveva comprato quote in due di queste società, una era "Rivarma Srl" e l'altra "Castello Srl". Se ben ricordo per quanto riguarda la prima Milanese aveva pagato tra 135.000/160.000 euro circa, per la seconda tra i 40.000/50.000 euro. Per quello che è noto a me, Milanese conserva ancora una partecipazione in una terza società francese per 15.000 euro».

La perizia contabile svela invece la movimentazione bancaria del Milanese e della sua fidanzata Manuela Bravi, portavoce del ministro Giulio Tremonti. E nelle conclusioni il consulente Luigi Mancini scrive: "Milanese, oltre ad avere avuto vari "corrispondenti" esteri, è sicuramente titolare di un conto bancario estero presso il Crédit Agricole, agenzia di Drauguignan. Sarebbe necessario acquisire la relativa docunmentazione essendovi transitati moltissimi bonifici disposti sia dal conto di accesso presso il banco di Napoli, sia dal conto presso il Credito Artigiano.

Un ulteriore approfondimento meriterebbe il rapporto di debito intercorso con American Express sul conto accesso presso il banco di Napoli. Nei 57 mesi esaminati la somma complessiva è ammontata a 448.637 euro con una media mensile di circa 8.000 euro e con una punta di spesa di circa 23.000 euro in un solo mese!».


LODO MONDADORI: STORIA DI UNA GUERRA GIUDIZIARIA LUNGA 20 ANNI (IL PUNTO).


(ASCA) - Milano, 9 lug - La sentenza d'appello della causa civile sulLodo Mondadori e' solo l'ultimo tassello di una guerra giudiziaria cominciata piu' di 20 anni fa. E' la storia di uno scontro economico-giudiziario che Silvio Berlusconi e Carlo De Benedetti hanno combattutto prima a suon di carte bollate in quella passata alla storia come 'battaglia di Segrate'' per il controllo della Mondadori, poi in un processo penale e, soltanto negli ultimi 4 anni, in un processo civile.

Una storia che comincia nel 1987, con la morte di Mario Formenton, marito di Cristina Mondadori e presidente dell'omonimo gruppo editoriale. I suoi eredi, che inizialmente firmano un contratto con De benedetti per vendere il loro pacchetto azioniario alla Cir, si rendono poi protagonisti di un improvviso voltafaccia e cedono le loro azioni alla Fininvest di Silvio Berlusconi. Per dirimere la questione, viene cosi' organizzato un lodo arbitrale che nel 1990 da ragione De Benedetti: le azioni Mondadori ex Formenton passate alla Finivest devono ora tornare alla Cir.

Berlusconi pero' non si arrende e impugna il lodo arbitrale davanti alla Corte di Appello di Roma. Giudice relatore e' Vittorio Metta. La sentenza definitiva, che arriva nel gennaio 1991, ribalta il verdetto precedente e consegna nuovamente le azioni della Mondadori in mano alla Fininvest.

Quando tutto sembra ormai finito, nel 1995 la Procura di Milano avvia un'inchiesta sulla base delle rivelazioni di Stefania Ariosto, passata alla storia come teste Omega, su un giro di maxi-tangenti che coinvolge tutta una serie di personaggi eccellenti: Silvio Berlusconi, diversi avvocati di Finivest tra cui Cesare Previti e il giudice Metta. Il pool di magistrati di Milano si mette a indagare e scopre uno complesso giro di bonifici, tutti estero su estero, che partono da Fininvest, transitano sul conto Mercier aperto a Lugano da Previti per poi arrivare, attraverso Giovanni Acampora e Attilio Pacifico (altri avvocati di Fininvest) a un misterioso destinatario: secondo l'ipotesi accusatoria formualta dal pm Ilda Boccassini, e' il giudice Metta, corrotto per emettere una sentenza favorevole al Biscione.

Berlusconi e' salvo prima dell'inizio del processo: l'accusa per lui e' di corruzione semplice, e grazie alle attenuanti generiche concesse dal gup Rosario Lupo in sede di udienza preliminare, nel 2001 il reato risulta ormai prescritto. Vani i tentativi dei suoi legali di trasformare la prescrizione in assoluzione con formula piena. Previti, Metta e altri personaggi vanno invece a processo. La sentenza di primo grado arriva ad aprile 2003, e le condanne sono pesantissime: 11 anni per Previti, 13 per il giudice Metta.

Tutti accusati di corruzione in atti giudiziari, chi per aver pagato, chi per aver intascato tangenti in cambio di una sentenza ''aggiustata'' grazie a 400 milioni di vecchie lire provenienti da conti esteri riconducibili alla Finivest. Un impianto accusatorio via via confermato in tutti i gradi di giudizio fino al verdetto definitivo che arriva nel 2007 dalla Cassazione.

La logica conseguenza e' l'avvio di un causa civile sul danno economico arrecato alla Cir da un lodo arbitrale viziato - come stabilito da tre diversi Tribunali in tre diversi gradi di giudizio - da un giro di corruzione e tangenti. E' l'ottobre 2009 quando esce il verdetto di primo grado: la sentenza del 1991 della Corte d'appello di Roma che ha assegnato alla Fininvest il controllo della Mondadori, scrive il giudice Raimondo Mesiano, e' stata una sentenza ''ingiusta'' e percio' il Biscione deve risarcire 749,9 milioni di euro la Cir di De Benedetti. Tutto confermato anche in appello, ad eccezione del quantum che scende 560 milioni.


Ghedini: “Nessuna perquisizione in via Rovani”. La replica: “Confermiamo tutto”.


L’avvocato del premier e deputato Niccolò Ghedini ha diffuso questa mattina alle agenzie una nota in cui smentisce la notizia data dal Fatto Quotidiano di una richiesta di perquisizione negli uffici della Fondazione della Libertà a Milano.

Pubblichiamo il testo integrale diffuso dall’onorevole Ghedini e la replica diffusa dalla direzione del giornale.

“La notizia apparsa su Il Fatto Quotidiano che la Polizia si sarebbe recata in un’abitazione in Via Rovani a Milano del Presidente Berlusconi per eseguire una perquisizione che non sarebbe stata attuata, trattandosi del domicilio di un parlamentare, è palesemente falsa. Mai nessuno si è recato in Via Rovani né tantomeno ci sono stati tentativi di accesso”.

“La Fondazione che vi avrebbe avuto sede in realtà si trova a Mestre (Venezia). Tale Fondazione era stata creata nel 2000 con la presidenza dell’avvocato Trevisanato nell’ambito del centrodestra per contribuire alla preparazione del progetto di Governo 2001-2006 ed è stata gratuitamente ospitata per alcune riunioni anche in Via Rovani fino al 2003. Nella carta intestata utilizzata all’inizio dell’operatività della Fondazione si indicava appunto Via Rovani come sede secondaria unitamente ad altro ufficio in Roma. Successivamente sia l’ufficio di Roma sia la sede di Via Rovani non venivano più utilizzate”. Quindi – aggiunge – “dal 2003 non vi è stata più alcuna disponibilità degli ambienti in Via Rovani e non vi è alcun collegamento fra tale Fondazione e il Presidente Berlusconi”. Da informazione assunta – conclude- “risulta altresì che il decreto di perquisizione presso la sede di Mestre riportava l’indicazione anche di Via Rovani. Ma risulta che i verbalizzanti recatisi presso la sede principale hanno immediatamente accertato l’insussistenza di qualsiasi collegamento con il sito di Via Rovani e non hanno ritenuto necessario nessun ulteriore accertamento”.

La replica del Fatto Quotidiano.

Il Fatto Quotidiano conferma che ieri la Procura di Napoli ha ordinato alla polizia giudiziaria di perquisire le tre sedi della Fondazione Casa delle Libertà indicate nel nostro articolo compresa quella di via Rovani, 2 a Milano oltre a quella di via Miranese, 3 a Venezia e a quella di Roma.

La Polizia non ha eseguito l’atto nella villa milanese perché l’indirizzo risulta tra le residenze del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che come afferma l’avvocato Ghedini ha ospitato la sede della Fondazione oggi oggetto di investigazione.




Polignano, Sgarbi e il pubblico di "drogati spacciatori"



Il critico Vittorio Sgarbi interviene al festival di Polignano a mare. Tutto va bene finché Sgarbi non si mette ad accostare energia eolica e mafia. A quel punto il pubblico comincia a rumoreggiare. E lui ad insultarli a suon di "drogato", "spacciatore" e altro ancora. di Roberto Rotunno.




Expo e ‘ndrangheta, la sicurezza il vero affare “Qui minimo minimo ci vogliono 500 uomini”. - di Davide Milosa



Il particolare emerge dalla requisitoria del pm Alessandra Dolci che ieri ha chiesto mille anni di condanne per 118 imputati nel processo Infinito sull'infiltrazione delle cosche in Lombardia. Dalle pieghe dell informative emerge così il nuovo progetto dei clan per spartirsi la torta dell'Esposizione universale

Ma quale edilizia. Per Expo 2015 la ‘ndrangheta punta sul comparto della sicurezza. Cinquecento uomini come minimo. Con appalti da frazionare. Cinque euro al giorno. “Sai quanto soldi sono”. La frase sta in calce al mai abortito progetto della mafia più potente del mondo di aggiudicarsi una fetta della torta più golosa che la Lombardia abbia mai visto.

Il dato, ad oggi rimasto tra le pieghe delle informative, emerge dalla requisitoria del pm Alessandro Dolci nel processo con rito abbreviato che vede imputati 119 presunti affiliati alle cosche calabresi. Proprio ieri il magistrato della Direzione distrettuale antimafia ha chiuso il suo intervento snocciolando richieste di condanna per mille anni di carcere. Tutto come da programma. Tranne per l’assoluzione (chiesta dall’accusa e sulla quale dovrà decidere il gup Roberto Arnaldi) a favore di Antonio Oliverio, ex assessore nella giunta provinciale di Filippo Penati e definito dal gip Giuseppe Gennari“il capitale sociale dei clan”.

La definizione, mutata dalla sociologia, è stato più volte ripreso dallo stesso magistrato, che nella seconda tranche della sua requisitoria, andata in scena il 28 giugno scorso nell’aula bunker di via Uccelli di Nemi a Ponte Lambro, ha compulsato le migliaia di pagine dell’inchiesta. “Cinquecento faldoni – ha esordito – per un procedimento obbiettivamente gigantesco”. Uno tsunami di carte dove “è difficile per me riuscire a raccapezzarmi e devo dire, giudice, che sinceramente non invidio il suo compito”.

Dopodiché ha tenuto la barra fissa sul cosiddetto “capitale sociale” dei clan. “Noi – ha spiegato la Dolci – dobbiamo vedere la ‘ndrangheta come una organizazione che ha una forte coesione interna, ma che vive anche di una rete relazionale verso l’esterno”. Eccolo qua, allora, il capitale sociale costituito da politici, faccendieri, imprenditori. Tradotto: la zona grgia che da sempre anima i rapporti tra la mafia e le istituzioni. E dunque “solo cogliendo questo aspetto noi riusciamo a capire cos’è la ‘ndrangheta piuttosto che Cosa nostra”.

Esempi? Il magistrato cita il nome di Pietro Pilello “noto commercialista, presidente del Collegio sindacale di varie società a partecipazione pubblica tra cui l’Ente Fiera”. Cosa fa dunque questo Piello che non risulterà però indagato? “Invita Cosimo Barranca (capo della locale di Milano) a una manifestazione elettorale”. Ma c’è anche la vicenda Bertè. “Vogliamo renderci conto – dice il pm – che c’è qualcosa di veramente singolare nel caso di un direttore sanitario di una casa di reclusione (…) che va da persona a lui nota come mafiosa perché si vuole buttare in politica”. Il boss in questione è Rocco Cristello, ucciso a Verano Brianza il 27 marzo 2008.

Per non parlare di Giuseppe Romeo, colonnello dei carabinieri, all’epoca dei fatti in servizio presso il Comando provinciale di Vicenza. Sintetizza il pm: “Si incontra più volte con Strangio“. Perché? “Strangio ha un problema: i camion della Perego lungo la statale valtellinese vengono fermati troppo spesso dalla Stradale”. E favore per favore, Romeo confessa al boss una sua aspirazione: “Candidarsi alle elezioni europee del 2009″. Immediata la risposta: “Non ti preoccupare ti faccio conoscere una persona”. Di chi parla? “Di Massimo Ponzoni, all’epoca assessore regionale all’Ambiente”. Prosegue l’accusa: “Strangio e Romeo entrano negli uffici del Pirellone”.

E’, dunque, in questo quadro che emerge la nuova questione sugli affari di Expo 2015. E non solo. Si tratta di alcune intercettazioni contenute nell’inchiesta Bad Boys che nel 2009 ha dato scacco alle cosche di Cirò Marina, per anni egemoni nel Varesotto. Il 4 luglio scorso il tribunale di Busto Arsizio ha condannato 17 persone. Undici anni sono andati al boss Vincenzo Rispoli, coinvolto anche nell’indagine Infinito.

L’intercettazione, letta dal pm, è attribuita a Emanuele De Castro che per conto della ‘ndrine gestisce la cosiddetta bacinella. “Siamo interessati alla sicurezza – dice il luogotenente del boss – . Poco poco ci vorranno minimo 500 persone. Cinquecento uomini di sicurezza”. Risponde Rispoli: “Se tu su un appalto di questo ci guadagni 5 euro l’uno al giorno, vedi che cifre che si fanno”. Dopodiché discutono sul come ottenere appalti. “Un appalto diretto è impossibile che ce lo danno a noi. E quindi abbiamo bisogno di una serie di ditte tra virgolette pulite”. Nel discorso entra anche il nome di un industriale che ha promesso dei lavori alla ‘ndrangheta. “Qualche ditta grossa ce l’ha pure lui – dice Belcastro – . Questo addirittura ha detto che ci fa parlare con Ligresti“.

Insomma, i boss sanno perfettamente di non poter vincere direttamente i maxi-appalti di Expo. Ecco, allora, la sponda del capitale sociale. Un grande investimento. Tanto più che i politici si accontentano di molto poco. Diecimila euro di matite per la campagna elettorale bastano e avanzano. Il gioco è semplice. E lo è ancora di più per le società partecipate. Qui, addirittura, i boss fanno assumere propri uomini. “Questo fa sì – dice il pm – che una serie di commesse siano dirottate alle imprese legate alla ‘ndrangheta”. E’ il caso del boss di Bollate Vincenzo Mandalari e della Ianomi. Lo stesso boss, legato alla potente cosca di Guardavalle, arriverà addirittura a costruire una sua lista politica per condizionare le elezioni comunali del 2010. Un progetto che viene rubricato in un capo d’accusa: ostacolo del libero esercizio del diritto di voto. Reato non confermnato dal gip. Lo stesso progetto di Bollate lo ritroviamo a Seregno, quando il boss locale Pio Candeloro apparecchia la candidatura diEduardo Sgrò. Entrambi sono imputati nel processo Infinito. Nel marzo 2010, però, Candeloro si occupa di stretegie politiche. “Quando sono le elezioni fammi parlare a me”, spiega in un italiano improbabile. “Perché lui deve sfondare e deve essere lui a dirigere”. Poi precisa e svela: “Dobbiamo essere noi a dire chi va a fare cosa”. Quindi rassicura: “Parolo io con Mazzacuva (presidente del Consiglio comunale), parlo io con Pon…”.

Politica e ‘ndrangheta, dunque. In vista di Expo. Ma non solo. Lo scenario inquieta e le parole del pm aggiungono particolari decisivi a un quadro già in parte delineato dalle carte dell’inchiesta del 13 luglio scorso. Oggi, però, a un anno di distanza da quel blitz clamoroso, dentro a 500 faldoni, ritroviamo nuove spigolature. Sulle quali pesa la richiesta di archiviazione per uno dei tanti politici citati nelle informative della polizia giudiziaria. Una scelta inspiegabile alla luce soprattutto dell’ordinanza firmata dal gip. E, dunque, delle due l’una: o si tratta di una resa della magistratura davanti alla sentenza Mannino che ha svuotato quasi totalmente il reato di concorso esterno, oppure siamo davanti a una strategia in vista di possibili nuove inchieste.