venerdì 15 luglio 2011

'Corruzione, B. è un bluff.' - di Stefania Maurizi




Un nuovo file di WikiLeaks rivela che nel 2008 il governo Usa cercò di capire cosa stesse facendo il premier italiano per combattere le tangenti. E la risposta fu: niente, anzi ha smantellato l'unico organismo che c'era.

La lotta alla corruzione? Silvio Berlusconi non ha deluso soltanto gli italiani, ma anche il suo migliore alleato: l'America di George W. Bush. Che esamina con sgomento come sia stato smantellato persino il timido tentativo di un organismo anti-mazzette.

Al posto dell'Alto Commissario il Cavaliere ha improvvisato un ufficio senza arte ne parte: meno efficace della struttura già debole che ha rimpiazzato. Dipendente da un ministro dello stesso governo su cui deve sorvegliare. Con un mandato così ristretto da non potersi occupare nemmeno delle corruttele dei membri del parlamento italiano.

Una bocciatura netta, senza appello, che porta la firma di Ronald Spogli, l'ambasciatore romano di Bush.

Il file segreto ottenuto da WikiLeaks, che "l'Espresso" pubblica in esclusiva, mostra quanto sia bassa la credibilità dell'esecutivo sulle questioni morali.

L'argomento del rapporto mandato a Washington è il SaeT, acronimo che sta per "Servizio anticorruzione e Trasparenza". E' stato creato nel 2008 dal governo Berlusconi che, appena tornato al potere, aveva abolito l'Alto Commissariato anticorruzione, sostituendolo con il SaeT.

L'eliminazione del Commissariato era stata criticata da più parti in Italia e nel mondo. L'Ocse, che subito aveva chiesto chiarimenti a Roma. Ma gli americani non si fidano delle parole e per abitudine vanno a controllare di persona.

Così nel novembre 2008, l'ambasciatore Ronald Spogli visita gli uffici del nuovo ente e trasmette le sue conclusioni al Dipartimento di Stato: «Ci ha deluso. Crediamo probabile che il SaeT giocherà un ruolo meno efficace dell'organizzazione che ha rimpiazzato».

La critica si basa su un lungo elenco di dati. «Le attività del SaeT arrivano solo fino al governo», un mandato che quindi non gli consente di occuparsi della corruzione nelle aziende private, ma addirittura neppure di quella dei membri del parlamento, «a meno che questi ultimi sono svolgano un ruolo pubblico in istituzioni governative».

La nuova struttura anti-mazzette ha un staff «di appena 15 esperti e due direttori» mentre «l'Alto Commissariato aveva 60 persone». Inoltre il Saet non ha «alcun potere di supervisione: opererà come "hub di coordinamento" che spera di "delegare" molto del suo lavoro ad altre istituzioni (carabinieri, dogane, Banca d'Italia e altri)».

E anche se l'Alto Commissariato «non è mai stato veramente efficace, perlomeno sembrava avere un minimo di indipendenza», perché finanziato e dipendente dal Parlamento, «il SaeT, al contrario, è stato messo sotto un ministro del governo» e «non ha fondi indipendenti». Dipende, infatti, dal ministero della Pubblica amministrazione di Renato Brunetta.

Spogli chiude con un commento negativo. «Nel nostro lavoro con l'Alto Commissariato avevamo capito che si trattava era un'organizzazione piena di buone intenzioni, ma largamente inefficace. Siamo andati a visitare il SaeT sperando di vedere il debutto di un ente capace di affrontare seriamente il problema della corruzione dilagante in Italia».

E il diplomatico spiega che ad alimentare la speranza era anche la stima per Brunetta, ritenuto nel 2008 «il più energico dei riformatori del governo italiano». E invece no, il Saet si rivela un bluff: «La nostra visita ci ha deluso». E in Italia ne è stata dimenticata persino l'esistenza.



L’ultima del governo “affievolire il 41 bis” “Palazzo Chigi teme le parole dei Graviano”. - di Davide Milosa


La Corte europea bacchetta l'Italia sulla violazione dei diritti umani in fatto di carcere duro. Il Dipartimento degli affari giuridici risponde ventilando l'ipotesi di cancellare il 41 bis. "un fulmine a ciel sereno", commenta Giovanna Chelli dell'Associazione vittime di via dei Georgofili.

Diritti e costi. Ufficialmente si gioca su questi due elementi l’ultimo tentativo del governo Berlusconi di ammorbidire il 41 bis. Il copyright è infatti, tutto di palazzo Chigi. Anzi del Dipartimento per gli affari giuridici della presidenza del Consiglio che l’11 luglio scorso risponde così all’Europa che ci bacchetta sul rispetto dei diritti umani nell’amministrazione carceraria. “Affievolire il 41 bis o non reiterarlo per quei detenuti i cui contatti con le organizzazioni mafiose sono venuti meno”. Motivo di tanta chiarezza? Le sentenze della Corte europea scaturite dai ricorsi dei detenuti al carcere duro. Le domande, sostiene il Dipartimento, pesano sulle “risorse lavorative” e invece potrebbero essere destinate ad altro se venisse annullata la reiterazione dei ricorsi. Dunque via libera a terroristi e soprattutto a mafiosi? Ancora no. Ma certo l’aria che tira non è delle migliori. “E’ stato un fulmine a ciel sereno, una grande fregatura che, a ripensarci, fosre ci aspettavamo anche”, dice Giovanna Chelli dell’associazione familiari delle vittime di via dei Georgofili. Per capirci: cinque morti, tra cui una bambina, e 48 feriti. Era il 27 maggio 1993. Pochi mesi dopo, il 27 luglio, altre cinque vittime. Questa volta in via Palestro a Milano. Cambiano i luoghi, ma la mano che guida le stragi è sempre quella di Cosa nostra.

Insomma, la sensazione non è delle migliori. Soprattutto se, in un momento di crisi come questo, il governo pensa a rivedere il 41 bis, il principale pallino dei boss. E del resto Giovanna Chelli non ha dubbi: “Oggi a Firenze si sta celebrando un processo decisivo, quello sulla trattativa tra Stato e mafia”. Di più: “Il Tar recentemente ha restituito a Gaspare Spatuzza la patente di collaboratore di giustizia”. Le parole del killer di Brancaccio hanno pesato e potranno farlo in futuro. La spada di damocle resta soprattutto su chi oggi sta al governo. Perché non c’è solo Spatuzza, ma anche i fratelli Graviano, veri depositari degli ultimi grandi misteri sulle stragi del 1993. I boss bravissimi a mandare segnali, per ora stanno in carcere non parlano. E questo, nonostante le parole di Spatuzza aggancino i loro destini passati a quelli di Silvio Berlusconi. “La lettura è giusta”, dice la Chelli. Quindi prosegue: “Questa uscita di palazzo Chigi sul 41 bis apre nuovi scenari. Forse siamo davanti a una nuova trattativa ancora in corso”.

Questo è il quadro. Sul quale, il Dipartimento degli affari giuridici, prendendo la palla lanciata dall’Europa, entra in scivolata. E lo fa, invadendo un campo quasi tutto politico e toccando un argomento delicatissimo in fatto di lotta alla mafia. Per capire basta leggere alcuni passaggi della relazione: “In prospettiva si potrebbe pensare di trasformare il 41 bis da regime speciale a regime ordinario di detenzione o addirittura a pena di specie diversa inflitta dal giudice con la sentenza di condanna e prevedere meccanismi di affievolimento o revoca nel corso dell’esecuzione alla stessa stregua di quanto accade attualmente per tutte le altre pene in genere”.

Insomma, il carcere duro parificato a una detenzione normale, dove a decidere della scarcerazione sarà un giudice e non, come accade ora, il ministero della Giustizia su indicazione delle procure. Il motivo di una tale scelta il governo, però, lo ha in tasca: “I primi 41 bis – si legge nella relazione che conta su una prefazione a firma di Gianni Letta – sono in proroga continua da 15 anni, per cui si percepisce nella magistratura di sorveglianza, un certo disagio nel motivare la perdurante sussistenza dopo tanto tempo di mancati contatti con le associazioni criminali di riferimento anche perché difficilmente la polizia svolge indagini sui condannati e dunque mancano relazioni di polizia giudiziaria effettivamente utilizzabili”. In realtà, diverse indagini giudiziarie, oltre alla commissione Parlamentare antimafia, hanno più volte registrato come i boss di Cosa nostra, ‘ndrangheta e camorra continuino a comandare e a dirigere i propri affari anche dal carcere duro. Eppure, la Corte europea ne fa una questione di diritti umani. “Evidentemente – dice la Chelli – l’Europa ha meno problemi di noi in fatto di mafia”. Di più: “Dove stava l’Europa negli anni delle stragi”.

E così, se pur in via di principio le sentenze europee sollevano un problema presente nelle nostre carceri (al di là del 41 bis), dall’altro l’indicazione rischia di dare fuoco alle polveri di un caso che oggi resta al centro delle inchiesta più importanti su Cosa nostra. Dopodiché, si sa, il carcere duro per i boss siciliani resta il vero cruccio. Lo abbiamo capito già nel 202 quando Leoluca Bagarellaintervenne in aula per lanciare messaggi ai politici. “Le promesse – disse nel suo italiano stentato – non sono state mantenute”. In quello stesso anno, pochi giorni dopo l’approvazione della legge sul carcere duro dagli spalti dello stadio La Favorita di Palermo comparve un ormai storico striscione che recitava: “Uniti contro il 41 bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. E così, quasi dieci anni dopo, il presidente del Consiglio sembra aver ritrovato la memoria, complice, forse, il terrore di una collaborazione da parte dei Graviano. Giovanna Chelli si domanda: “Perché tanta solerzia nell’abolire il 41 bis da parte della presidenza del Consiglio? Perché proprio ora? E comunque per me il 41 bis non viola i diritti umani”. Quegli stessi diritti umani “che Salvatore Riina e i fratelli Graviano si sono messi sotto i piedi la notte dei Georgofili”. Un fatto è certo, oggi a Palermo si sta celebrando un processo sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Un complicato accordo che tra i suoi vari punti prevedeva l’uscita dal carcere di centinaia di mafiosi.




Luigi XVI è seduto a Palazzo Chigi. - di Peter Gomez




Il 19 febbraio del 1781 il ministro delle finanze francese, l’economista di origini svizzere Jacques Necker, rese noti i conti dello Stato. I sudditi di re Luigi XVI scoprirono così che il regno ogni anno spendeva 629 milioni e incassava dalle tasse – pagate quasi esclusivamente dal popolo e dalla borghesia – 503 milioni. Il debito pubblico aveva per questo raggiunto i 318 milioni, mentre la corte ogni 12 mesi continuava a costare 38 milioni. Tutti soldi che se ne andavano in spese personali, vitalizi e pensioni.

Questo dato, otto anni dopo, fu una delle cause che portò alla rivoluzione e alla successiva decapitazione del re e di sua moglie Maria Antonietta.

Oggi, pur essendo felicemente certi che le teste dei nostri parlamentari (sempre che qualcuno sia in grado di trovarle) resteranno in eterno attaccate ai loro pregevoli colli, è impossibile fare a meno di sottolineare il parallelismo tra quella lontana epoca storica transalpina e quanto sta accadendo in Italia.

Mentre il premier, Silvio Berlusconi, come Luigi XVI, resta asserragliato nelle sue regge e, secondo i giornali, dorme di giorno, si consulta con i fedelissimi e organizza a sera “cene eleganti”, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, prima (il 24 giugno) tenta timidamente di dare un taglio ai costi della politica. Poi, quando gli fanno capire che non è aria, rimanda tutto al 2013. E alla fine, ringraziando apertamente la gentile collaborazione delle opposizioni, far approvare in tempo record una manovra che forse servirà per allontanare per qualche giorno il Paese dal naufragio delle borse, ma che certamente non eviterà il crescere dell’ira degli italiani, fino a livelli di guardia.

Un osservatore distratto potrebbe chiedersi il perché di questa follia. Normalmente in democrazia quando una classe dirigente chiede ai cittadini di stringere la cinghia fa qualche gesto per dimostrare (magari per finta) di partecipare al sacrificio comune.

Negli Stati Uniti, per esempio, dove i 475 componenti dello staff della Casa Bianca guadagnanocifre risibili rispetto a quelli di Palazzo Chigi (gli stipendi più alti sono di circa 120mila euro, mentre quello del presidente non arriva a 300mila), Obama ha congelato i salari dei suoi collaboratori superiori ai 100mila dollari e ha annunciato la necessità di ridurre il suo. Ha fatto cioè una mossa che punta a ottenere il consenso degli elettori, in vista delle presidenziali del novembre 2012.

I nostri politici, invece, questa necessità oggi non la sentono. Anzi non la hanno. Per loro le priorità sono altre. Berlusconi, per esempio, ormai vuole solo che il suo governo arrivi al 2013 perché spera di poter continuare a preservare la sua roba e a condizionare i suoi processi. I ministri puntano poi a stargli al fianco il più a lungo possibile perchè, in caso di elezioni anticipate ben difficilmente si ritroveranno (subito) al potere. Per loro il problema non è più avere il consenso degli elettori, ma di conservare quello dei loro parlamentari. Sono i peones alla Scilipoti, infatti, che sorreggono l’esecutivo. Quindi il primo obbiettivo è non farli arrabbiare.

Anche per questo non si interviene sui costi della politica. E non lo si fa a nessun livello, visto che nel nostro Paese, in maniera assolutamente bipartisan, ci sono un milione e 300mila personeche vivono, direttamente o indirettamente, di politica. Amici, parenti, ex camerati ed ex compagni. Gente che grazie all’attività di partito (magari condotta nell’onestà e buona fede più assolute) ha pianificato la propria esistenza presente, passata e futura. Gente che se fosse costretta ad andare a casa non saprebbe proprio cosa fare. Vi dice niente, a questo proposito, l’astensione di parte dell’opposizione sull’abolizione (mancata) delle province?

È ovvio e giusto che la democrazia abbia un prezzo. Ma non c’è nulla né di sensato, né di giusto in una gigantesca e inefficiente macchina che, secondo molte analisi, costa (a partire dalla Presidenza del consiglio, per arrivare all’ultima delle società private a capitale pubblico) circa 24 miliardi di euro. Possibile che non sia il modo di essere democratici spendendo quanto si spende in Gran Bretagna o in Francia?

Domanda retorica. Questa, con il suo Luigi XVI in testa, è la vera aristocrazia dei nostri tempi. Un’aristocrazia che in questi giorni, con gli interventi draconiani della finanziaria, sta lottando per salvare il Paese. Ma che è anche in lotta per preservare se stessa.

Ce la farà a sopravvivere? Noi pensiamo di no. Ma, paradossalmente, diciamo purtroppo. Perché, seppure all’orizzonte non si scorgono sanguinose rivoluzioni di popolo (e questo è un bene), non bisogna essere Nostradamus per capire quanto resti alta la probabilità che la manovra finanziaria appena approvato dal senato si riveli durissima, ma insufficiente.

A non considerare credibile la nostra Casta, non sono più solo gli italiani. La finanza mondiale, i mercati, la stampa internazionale e i governi degli altri Stati, tutti hanno dei nostri eroi questa opinione. E le classi dirigenti del Belpaese sono ormai viste come un virus che mette a rischio la fragile stabilità dell’intera Europa. Arriveranno, insomma, altre sberle. Serviranno altri interventi. Altre tasse, altri tagli e, forse, persino una patrimoniale.

Solo allora, e non ieri come ha precipitosamente detto il presidente Napolitano, i tempi saranno maturi per il “vero miracolo”: la fine di questa sfortunata e martoriata seconda Repubblica. Ma saranno tempi duri. E, purtroppo, più per i cittadini che per loro.


Crisi, Ft: “Per essere credibile l’Italia deve rimuovere B”. - di Davide Vecchi


Il Financial Time torna a parlare del nostro Paese: "Per convincere i mercati che è credibile c'è bisogno di più che di un pacchetto di austerità. Roma deve mandare un chiaro messaggio di intenti. Idealmente, questo potrebbe essere la rimozione di Silvio Berlusconi"

”Per convincere i mercati che l’Italia è credibile c’è bisogno di più che di un pacchetto di austerità. Roma deve mandare un chiaro messaggio di intenti. Idealmente, questo potrebbe essere la rimozione di Silvio Berlusconi, primo ministro, e la sostituzione del suo esecutivo con un governo di tecnocrati”. E’ quanto scrive oggi il Financial Times in una editoriale, non firmato, contenuto nella rubrica “Senza paura e senza favori” della pagina dei commenti che curiosamente ha lo stesso titolo di una settimana fa: “Preservare la credibilità di bilancio dell’Italia”.

”In un mondo ideale – spiega il Financial Times – un primo ministro dai comportamenti imprevedibili come Berlusconi andrebbe a casa”, sottolineando “che il tentativo del Premier di inserire nella manovra la cosiddetta norma salva-Fininvest, mettendo a repentaglio la credibilità di bilancio del Paese pur di proteggere il proprio patrimonio, è stata una cosa ignobile, inqualificabile”.

Nell’editoriale il quotidiano scrive che “da quando è iniziata la crisi dei debiti sovrani in Europa, l’incubo più ricorrente tra i leader Ue è che il contagio possa avvolgere anche l’Italia. Nelle ultime settimane la possibilità che ciò avvenga è aumentata drammaticamente. Quindi che se Roma vuole salvarsi deve agire con decisione e tempestività”.

Negli ultimi giorni i costi per finanziarsi sono lievitati notevolmente, prosegue il quotidiano, l’Italia potrà sopportare tali costi solo per un breve periodo di tempo. Infatti, qualsiasi dubbio sulla sostenibilità del debito italiano potrebbe pesare sulla raccolta dei finanziamenti da parte delle banche italiane. Una eventualità del genere potrebbe materializzarsi prima di quanto si pensi, scrive l’Ft, e come dimostra l’esempio dell’Irlanda, una volta persa la fiducia dei mercati, diventa quasi impossibile per un Paese riguadagnarsela. Per evitare tutto questo “urgono misure drastiche, audaci” e che vanno oltre l’austerità.



Berlusconi su Papa: “No all’arresto”. Ma la Lega annuncia il sì anche in aula.


Il deputato del Pdl incassa la solidarietà del premier, dopo che la Giunta per le autorizzazioni ha dato parere favorevole alla richiesta dei pm napoletani.

“Non si vota sì a una richiesta di arresto preventivo”. E’ la linea di Silvio Berlusconi sul caso Papa, secondo l’agenzia Agi. Che la giunta per le autorizzazioni spiani la strada alla magistratura, secondo il presidente del consiglio, è addirittura una cosa “assurda”. Arrivato a Montecitorio in tarda mattinata, Berlusconi ha incontrato il deputato del Pdl messo sotto inchiesta dalla Procura di Napoli per il caso P4. E gli avrebbe in questo modo manifestato tutta la sua solidarietà dopo il voto della giunta che, con la determinante astensione leghista, stamattina ha dato parere favorevole al suo arresto. Parere non vincolante, ma significativo, per la votazione definitiva che si svolgerà alla Camera.

“Sul voto in aula mi appello alla coscienza dei parlamentari e preciso che il carcere non mi fa paura”, ha commentato Alfonso Papa, ex magistrato, “se dovrà servire a veder trionfare la verità e la mia innocenza, di cui sono certo”. Gli alleati leghist rivendicano la scelta di stamattina e rincarano la dose: “La prossima settimana darò indicazioni per un voto favorevole della Lega in aula all’arresto di Papa”, ha annunciato il capogruppo del Carroccio Marco Reguzzoni.

In giunta, hanno votato a favore del provvedimento chiesto dalla Procura di Napoli che indaga sulloscandalo P4 tutte le opposizioni, dal Pd all’Idv all’Udc. I rappresentanti del Pdl hanno abbandonato l’aula per protesta, contro la decisione del presidente Pier Luigi Castagnetti di mettere ai voti la relazione di minoranza presentata dall’Idv.

Dopo giorni di polemiche e tentennamenti interni al fronte berlusconiano, i sì sono stati 10 (tra i quali lo stesso Castagnetti) e gli astenuti 3: i due leghisti Luca Paolini e Fulvio Follegot, il ResponsabileElio Belcastro. I rappresentanti del Pdl hanno lamentato la “violazione del regolamento”. Un caso originato dalla rinuncia del relatore Francesco Paolo Sisto, che aveva affermato di aver bisogno di più tempo per leggere le carte.

Ma più della mole di documenti arrivati dal tribunale di Napoli, ha pesato la certezza di andare incontro a una sconfitta, dopo che Umberto Bossi aveva annunciato l’astensione della Lega. Il presidente Castagnetti ha dato allora la parola al relatore di minoranza, Federico Palomba dell’Idv, scatenando la reazione dei berlusconiani. “Non ho fatto nessuna forzatura”, ha replicato Castagnetti. Che anzi ha fatto sapere di aver concordato la procedura con il presidente della Camera Gianfranco Fini, il quale di rimando ha definito lo svolgimento della seduta “ineccepibile”.

Il caso si presentava particolarmente delicato. Gli elementi raccolti contro Papa dai magistrati napoletani erano particolarmente corposi, soprattutto riguardo alla raccolta di informazioni riservate attraverso una rete di uomini delle forze dell’ordine al suo servizio. Nel momento in cui si discute una Finanziaria “lacrime e sangue” e la casta torna sotto accusa per i suoi privilegi, il salvataggio del deputato Pdl sarebbe stato politicamente rischioso, soprattutto per la Lega. Meglio, per il centrodestra, cercare di saltare il passaggio in giunta e andare direttamente alla Camera, confidando magari nel “miracolo” del voto segreto. Ma il colpo non è riuscito.

La parabola di Papa ricorda quella di Alberto Tedesco, il senatore del Pd (oggi nel gruppo misto) inseguito da una richiesta di arresto per lo scandalo della sanità pugliese. Anche in quell’occasione, nonostante le parti invertite, il Pd ha sostenuto l’arresto, il Pdl si è pronunciato contro e la Lega si è astenuta. Risultato, via libera al provvedimento dei magistrati. Però era il 6 aprile, più di tre mesi fa. Poi più nulla è successo, e l’aula non si è ancora pronunciata.



Rai, Il Cda molla Minzolini. A casa entro settembre. - di Carlo Tecce



Tg1 mai così male. La pubblicità è in crisi con la Sipra che corregge le previsioni: 70 milioni di euro in meno. In uscita anche Mazza e Liofredi.


Scaricato. Nessuno l’ha difeso perché l’intoccabile, che fa scappare spettatori e milioni di euro, ormai è indifendibile. Il Consiglio di amministrazione Rai chiede provvedimenti per Augusto Minzolini, prepara una comoda e inevitabile uscita, evocata a sinistra e sopportata a destra.

Ecco perché Antonio Verro ha mollato l’elmetto che indossava ogni volta che il tema Minzolini planava in Cda: “La crisi aziendale è grave: conti e ascolti vanno male. Non solo per colpa sua, anche di altri”. Il consigliere più berlusconiano del gruppo, abituale ospite di B. a Palazzo Grazioli, parlava per aggiungere due nomi in lista: Mauro Mazza (Ra1), Massimo Liofredi (Rai2).
La Rai cambia tre poltrone per smontarne una. Proprio la sua. Quella del direttorissimo così caro alCavaliere che, fra esilaranti editoriali e servizi su cani e maggiordomi, ha distrutto il Tg1 in due anni. Nessuno poteva contestare i numeri sul primo telegiornale Rai. Qualcuno, forse, voleva fermare un elenco impietoso, ma soltanto per l’imbarazzo: il Tg1 che perde il confronto con il Tg5 all’ora di pranzo e spiana la strada al Tg2, il Tg1 che tra maggio e luglio arranca al 22 per cento di share, il Tg1 che s’insinua come un veleno nel palinsesto di Rai1 e provoca un buco di 10 milioni di euro. E ancora i soldi, scomparsi. I dirigenti di Sipra, la concessionaria pubblicitaria, correggono le previsioni di raccolta per il 2011: mancano 70 milioni di euro, il totale sarà inferiore al miliardo, il record negativo del decennio, e l’azienda ha già tagliato 60 milioni di euro per le reti.

Una Rai zoppa e imbruttita, l’unica in perdita tra i concorrenti (tranne una leggera flessione diMediaset), fatica a reggere il marchio di Minzolini, il direttore che censura le notizie e poi va in vacanza con i soldi pubblici. Per l’uso disinvolto della carta di credito di viale Mazzini, il direttorissimo è indagato a Roma per peculato, ieri l’ultimo interrogatorio davanti al pm Antonio Caperna in Procura: in caso di rinvio a giudizio, Minzolini sarebbe sospeso dall’azienda.

Viale Mazzini,infatti, preferisce evitare la cacciata dell’ex notista politico per guai giudiziaria e adesso, compreso (con ritardo) il fallimento del Tg1, nessuno può ignorare il virus Minzolini. Quando a settembre la Rai dovrà misurarsi con le rivali nel periodo di garanzia, i mesi che pesano per spartirsi la torta pubblicitaria, il servizio pubblico dovrà avere una faccia nuova.

Via Mazza perché Rai1 ha collezionato una lunga serie di errori anche con i programmi di intrattenimento; via Liofredi perché Rai2, già spolpata con l’addio di Annozero, sarà orfana diSimona Ventura e le successioni sono diventate una barzelletta; via Minzolini perché il Tg1, nell’immaginario collettivo del centrodestra, può persino aiutare il governo, eppure il bilancio è sacro e la bancarotta fa sbiancare i consiglieri più duri e puri. Nessuno ha voglia di portare i libri contabili in Tribunale e immolarsi per un Tg1 che protegge goffamente il governo. Nessuno. (Ha collaborato Rita Di Giovacchino)




Chi uccise Borsellino. - di Lirio Abbate


Un immagine d archivio del boss mafioso Giuseppe Graviano

Il killer fu il boss Giuseppe Graviano. Il movente: il magistrato sapeva troppo sui colloqui tra mafia e Stato. A 19 anni dalla strage di via D'Amelio, le indagini della Dia di Caltanissetta sono arrivate a una svolta decisiva.

Il boia di Paolo Borsellino e dei suoi agenti di scorta si chiama Giuseppe Graviano, il boss di Brancaccio che secondo il collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza dopo l'attentato di via d'Amelio avrebbe trattato direttamente con Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri.

Il pool di magistrati di Caltanissetta, guidato da Sergio Lari, dopo tre anni di indagini ha chiuso l'inchiesta individuando l'uomo che ha premuto il telecomando dell'autobomba carica di tritolo. E oggi offre una nuova verità giudiziaria che porterà il prossimo mese alla revisione delle sentenze definitive: verranno riaperti quei processi basati sulle dichiarazioni di falsi pentiti, come Vincenzo Scarantino, che hanno fatto finire all'ergastolo anche cinque persone estranee ai fatti.

I magistrati, grazie alla collaborazione di Spatuzza (senza le cui dichiarazioni, riscontrate in tutti i punti, non sarebbe stato possibile avviare la nuova inchiesta) e Fabio Tranchina, un fedelissimo di Graviano arrestato nei mesi scorsi, sono riusciti a trovare le tessere del mosaico che per 19 anni avevano impedito di ricostruire la trama dell'attentato. Lo hanno fatto adesso Sergio Lari, Domenico Gozzo, Amedeo Bertone, Nicolò Marino, Stefano Luciani e Gabriele Paci.

Le indagini svolte dalla Dia di Caltanissetta sono riuscite a dare risposte ad alcuni interrogativi sempre rimasti irrisolti: dalla responsabilità di soggetti esterni a Cosa nostra, ai motivi per cui venne attuata la strage di via D'Amelio a soli 57 giorni di distanza da quella di Capaci in cui morirono Giovanni Falcone e la sua scorta. Un'accelerazione decisa per impedire che Borsellino ostacolasse la trattativa che era in corso tra corleonesi e uomini dello Stato.

Con l'istanza di revisione che i pm hanno consegnato al procuratore generale Roberto Scarpinato è stato accertato chi ha rubato l'auto, chi l'ha imbottita di tritolo e sistemata davanti al palazzo in cui abitava la mamma del magistrato. Graviano ha poi spinto il telecomando, appostato dietro un muro che separa via d'Amelio da un giardino.

E' stata così esclusa la pista del Castello Utveggio e di un coinvolgimento, in questa fase operativa, di apparati dei servizi segreti. Oggi invece emerge la ricostruzione di un'operazione voluta da Totò Riina ed eseguita da Graviano e suoi picciotti fidati. Ma i pm proseguono le indagini su altri versanti: sull'agenda sparita, sui "soggetti esterni" a Cosa nostra e del boss latitante Matteo Messina Denaro. E allo sviluppo di una nuova dichiarazione fatta dal neo pentito palermitano Stefano Lo Verso, che per 12 anni curò la latitanza di Bernardo Provenzano.

"Solo cinque persone conoscono la vera storia delle stragi", gli avrebbe confidato il vecchio padrino. "Due sono morte. Gli altri tre siamo io, Riina e Giulio Andreotti". E nelle migliaia di atti dell'indagine ci sono anche le testimonianze delle figure istituzionali chiave di quel periodo.