giovedì 28 luglio 2011

Menarini, l'inchiesta si allarga altra azienda truffava lo stato.


La procura di Firenze accusa la filiale italiana della multinazionale Bristol Myers Squibb.
Avrebbe aiutato Alberto Aleotti a frodare il servizio sanitario e aumentare i prezzi dei farmaci.


Avrebbero gonfiato notevolmente i prezzi di vendita dei farmaci commercializzati, ottenendo un indebito rimborso di oltre un miliardo di euro dal Servizio Sanitario Nazionale. E' l'accusa rivolta dalla Procura della Repubblica di Firenze alla multinazionale Bristol Myers Squibb Italia, che avrebbe messo in atto la truffa assieme al gruppo Menarini. Nei confronti della società sono state effettuate oggi delle perquisizioni dalla Gdf.

L'ipotesi degli inquirenti è che entrambi i gruppi industriali abbiano messo in atto comportamenti finalizzati ad ottenere, attraverso una serie di artifici e raggiri, l'inserimento nel Prontuario farmaceutico nazionale di farmaci commercializzati sia da Menarini che da Bristol Myers Squibb a prezzi notevolmente gonfiati rispetto al costo effettivamente sostenuto.

Unico indagato, per il momento, risulta l'ex amministratore delegato Guido Porporati, accusato di concorso in truffa con Alberto Aleotti, patron di Menarini.

La vicenda è collegata all'inchiesta che sempre la procura di Firenze sta conducendo sul gruppo Menarini, nella quale sono indagati i vertici dell'azienda. Secondo i magistrati, il gruppo, attraverso società 'cartiere' che avevano come compito quello di aumentare il costo dei principi attivi acquistati, era riuscito ad ottenere un prezzo di vendita dei farmaci più alto rispetto al prezzo reale, con notevole aggravio di spesa per il servizio sanitario nazionale che doveva rimborsarli.

In questo contesto la Bristol Myers Squibb, fin dal 1984, avrebbe concesso al gruppo Menarini la licenza non esclusiva per il confezionamento e la vendita in Italia di farmaci preparati sulla base proprio di quei principi attivi, essendo a conoscenza dell'esistenza delle cartiere per aumentare il prezzo. Ci avrebbe guadagnato adeguando il prezzo dei suoi farmaci, prodotti con lo stesso principio attivo di quelli di Menarini, a quelli della società toscana.

Oltre alle perquisizioni nelle sedi della multinazionale, gli uomini della Guardia di Finanza hanno notificato alla Bms il decreto di fissazione dell'udienza per l'applicazione di misure cautelari, prevista per il 19 settembre.

L'ipotesi di frode su cui lavorano gli inquirenti non riguarderebbe la qualità dei farmaci bensì l'illecita sovrafatturazione dei costi sostenuti dalla Bms Italia per l'acquisto dei principi attivi (Pravastatina, Fosinopril, Captopril, Aztreonam) utilizzati per la produzione e la vendita di farmaci impiegati nella cura di malattie cardiache e di battericidi (anch'essi impiegati per il trattamento di particolari patologie cardiache), per i quali è previsto il rimborso da parte del Servizio sanitario nazionale.

http://firenze.repubblica.it/cronaca/2011/07/28/news/prezzi_dei_farmaci_gonfiati_truffa_da_1_miliardo_al_servizio_sanitario-19733317/?ref=HREC2-6

Sfrattati, soli e senza soldi la parabola discendente dei pentiti.


Oltre 90 hanno perso la casa e vivono in conventi o sistemazioni di fortuna. E mancano anche i fondi per farli deporre ai processi. "Prima ci hanno spremuti poi buttati".

di ATTILIO BOLZONI
Coccolati alla bisogna, assecondati nelle loro bizze, per un bel po' qualcuno li ha creduti in tutto e per tutto. Erano le voci della verità. Quando non sono serviti più li hanno buttati via. Si sa, lo Stato italiano ha sempre avuto la memoria corta. Pentiti. A Palermo, quasi trent'anni fa era parola d'offesa. Come cornuto e sbirro. Se volevi insultare qualcuno dicevi: "Sei un Buscetta". O lo apostrofavi proprio in quel modo: pentito. Il capo dei capi di Cosa Nostra quando parlava di loro scandiva le sillabe - pen-ti-ti - e si difendeva raccontando che "quelli camminano mani per mani e sono tutta una bugiarderia". Giulio Andreotti - ce n'erano trentasette che lo accusavano - rispondeva a tutti loro così: "Vendono bufale a rate". Uno, Leonardo Messina, alla fine dell'estate del 1992 giurò che il divo Giulio era addirittura 'punciuto', cioè non un semplice simpatizzante ma un affiliato alle famiglie mafiose. Allora, se ne parlò tanto di quella rivelazione. Se Leonardo Messina la dovesse ripetere oggi, lo chiuderebbero in un manicomio giudiziario e getterebbero la chiave a mare.

In Italia, è andata come è andata anche con i pentiti. Osannati prima, "schifiati", disprezzati poi. Qualcuno di loro ha retto al cambio di passo dello Stato e qualcun altro s'è spezzato. In verità tutti, venendo da dove venivano, lo immaginavano che sarebbe finita così. Nell'abbandono, nella solitudine di chi ha scelto di buttarsi dall'altra parte. Ripudiati da mogli e perfino da madri
("Io non li ho mai partoriti quegli infami", gridò nel quartiere palermitano dello Sperone Marianna, quando i suoi due figli Emanuele e Filippo Di Pasquale si consegnarono agli agenti della Dia), spremuti dallo Stato e poi lasciati al loro destino.

È capitato perfino a Francesco Marino Mannoia, il primo dei "corleonesi" a collaborare alla fine del 1989 con il giudice Falcone, uno che aveva raccontato come funzionava il traffico di droga fra la Sicilia e gli States (lui stesso aveva imparato a raffinare la morfina base da corsi e marsigliesi) e che poi era finito nelle mani degli americani e trattato con i guanti gialli per un ventennio. Figuriamoci la sorte degli altri. Quelli semi sconosciuti e usati per incastrare il boss di un paese, quelli che non si chiamano Giovanni Brusca o Nino Giuffrè, nomi del firmamento mafioso.
Per esempio è solo di qualche giorno fa la notizia che proprio uno dei collaboratori di giustizia più ignoti, un certo Roberto Spampinato di Catania, è stato sfrattato dall'abitazione dove era agli arresti domiciliari. Insomma non può scontare neanche la sua pena perché - come ha scritto il giudice di sorveglianza del Tribunale di Roma, "non ha più una fissa dimora". Non ha più casa perché lo Stato non paga il suo affitto. Sono in tutto 90 i pentiti sfrattati nell'ultimo anno. Le casse del Servizio centrale di protezione sono vuote. È il crac. Alcuni sono stati dirottati in comunità religiose - conventi di suore - che li hanno accolti, altri hanno raggiunto senza auto blindata (non c'erano soldi per la benzina) la Calabria, altri ancora hanno perso l'assistenza sanitaria. E poi i loro avvocati, da un anno lavorano gratis: non ricevono più gli onorari. Lo Stato non paga nemmeno loro. Lo Stato non è più in grado di rispettare il patto che aveva fatto con quei mafiosi che avevano deciso di stare con la giustizia.

I fondi per i collaboratori erano 70 milioni di euro nel 2006 e 52 milioni nel 2008, 49 milioni nel 2010 e 34 in questo 2011. Un taglio del cinquanta per cento in cinque anni che di fatto sta mettendo in pericolo molti processi di mafia, 'ndrangheta e camorra. "Anticipiamo soldi di viaggi e alberghi, i collaboratori non vanno a colloquio nemmeno con i loro familiari perché al servizio di protezione non hanno il denaro per i trasferimenti", racconta Mariella Di Cesare, un avvocato che assiste i napoletani Giuseppe Sarno e Paolo Di Grazia e il casalese Luigi Guida.

Lo Stato non paga l'affitto ma se ne frega anche del resto. C'è un romeno, Alexandru Bodnariu - pentito di un'associazione mafiosa che regnava su Santa Maria Capua Vetere - che da mesi chiede le carte per iscriversi all'Università ma il Servizio di protezione neanche gli risponde. "Nel Servizio di protezione ci sono anche persone molto responsabili che cercano di risolvere i grandi problemi che ci sono ma è il sistema che è al collasso, lo Stato ignora le esigenze primarie di queste persone", denuncia Monica Genovese, avvocata palermitana che difende Santino Di Matteo - uno dei pentiti della strage di Capaci - e una dozzina di collaboratori di ultima generazione. Uomini che vivono con 1200 euro al mese insieme a moglie e due figli ma che ricevono lo stipendio con settimane di ritardo. O che si ritrovano con la luce tagliata a casa perché chi deve pagare non paga. O che sono costretti, per una testimonianza, a fare su e giù per l'Italia per 48 ore perché lo Stato non può permettersi un pernottamento in un albergo.

L'altro venerdì si è impiccato un esattore del "pizzo" della famiglia palermitana della Guadagna. Si chiamava Giuseppe Di Maio, la moglie l'aveva lasciato perché "spione". Non ce l'ha fatta e se n'è andato per sempre. Qualche giorno prima un altro pentito siciliano ha detto quello che pensava. Era in udienza, a Roma. Ha chiesto la parola e poi ha cominciato a parlare: "Se voi lasciate soli i collaboratori non date un buon esempio perché la mafia non li lascia mai soli i mafiosi. Cosa Nostra assicura uno stipendio ai carcerati e ai loro familiari, paga anche gli onorari agli avvocati. Io vengo qua perché sono pentito dentro, altrimenti dovrei solo scappare da questo Stato". Manuel Pasta, mafioso della famiglia di Resuttana Colli, Palermo.



Rai, Cda approva contratto della Gabanelli Accettata clausola temporanea 'manleva'.



Roma - (Adnkronos) - Sì di viale Mazzini alla prossima edizione di 'Report' con l'impegno di rispondere di eventuali cause per danni ma solo a certe condizioni.

Roma, 28 lug. (Adnkronos) - Il Cda della Rai ha approvato a maggioranza il contratto per la prossima edizione della trasmissione 'Report'. Questo - a quanto apprende l'ADNKRONOS - vuol dire che il consiglio ha accettato la clausola temporanea della 'manleva' proposta dalla Gabanelli, cioè con l'impegno da parte della Rai di rispondere di eventuali cause per danni ma solo a certe condizioni.

"In nome di un dovere cui la Rai è tenuta, quello di garantire la sopravvivenza e il rilancio del Servizio pubblico, è augurabile che la decisione di assicurare a Milena Gabanelli la tutela legale per la trasmissione da lei condotta sia un atto, non isolato né provvisorio, da iscriversi a una strategia rifondativa del valore civile e culturale che la Rai ha sempre rappresentato". Ad affermarlo il presidente della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, Sergio Zavoli.


Terremoto a L'Aquila, nove indagati per i lavori di ricostruzione della questura.


I soccorsi del dopo terremoto

L'Aquila - (Adnkronos) - Gli avvisi di garanzia nell'ambito dell'inchiesta supresunte irregolarità nell'affidamento delle opere di ripristino. Il reato ipotizzato è di abuso d'ufficio. A far nascere qualche sospetto sarebbe stato il rialzo dei prezzi passati da 3 a 18 milioni di euro.

L'Aquila, 28 lug. - (Adnkronos) - Nell'ambito dell'inchiesta su presunte irregolarità nell'affidamento dei lavori di ricostruzione della questura del capoluogo, la Procura della Repubblica dell'Aquila ha emesso nove avvisi di garanzia. Il reato ipotizzato è quello di abuso d'ufficio. A far scattare l'inchiesta sarebbe stata la forte lievitazione dei prezzi passati da 3 a 18 milioni di euro.

Destinatari del provvedimento sono Giuliano Genitti, Lorenzo De Feo, ingegnere, Carlo Clementi, dirigente attualmente in servizio all'Aquila; Giovanni Guglielmi, ex provveditore. Con loro quattro esponenti interni ed esterni del comitato tecnico amministrativo tutti provenienti da Roma. Indagato risulta anche il legale rappresentante della ditta Inteco Spa, che aveva ricevuto inizialmente l'affidamento diretto dei lavori, poi ritirato.

Per via dell'urgenza i lavori erano stati assegnati dal provveditorato interregionale alle opere pubbliche Lazio-Abruzzo-Sardegna con affidamento diretto alla ditta Inteco spa, ma dopo i rilievi della Corte dei conti il nuovo provveditore alle opere pubbliche, Donato Carlea, ha ritirato l'affidamento per indire una nuova gara d'appalto vinta dall'associazione temporanea d'imprese (Ati) Nidaco-Califel.


La “cassaforte” di Filippo Penati. - di Davide Vecchi


L'associazione Fare Metropoli, fondata dall'ex capo della segreteria politica di Pierluigi Bersani, ha raccolto finanziamenti per decine di migliaia di euro. E' gestita da un solo dipendente e in pochi nel partito la conoscono. Tra i finanziatori: Gavio, Sarno, Bmg comunicazione, Banca di Legnano.


A Milano tra gli iscritti e funzionari del Partito democratico non la conosce quasi nessuno. Non è segreta, ma molto riservata. Nessun sito web, nessun numero sull’elenco telefonico, un ufficio di appena quattro stanze sempre vuote. Eppure Fare Metropoli è la cartina di tornasole per capire la storia dei rapporti, incestuosi secondo la magistratura, tra Filippo Penati e il sistema delle imprese. Si, perché questa associazione culturale senza scopo di lucro, nata nel dicembre del 2008 a ridosso delle elezioni provinciali, è uno dei canali attraverso cui l’ex capo della segreteria politica diPier Luigi Bersani ha ricevuto, in gran segreto, finanziamenti per decine e decine di migliaia di euro. Soldi regolarmente registrati nei bilanci dell’associazione (non pubblici) che venivano versati anche da imprese e professionisti ai quali la Provincia aveva concesso appalti, incarichi, consulenze. I fondi raccolti venivano poi anche girati al comitato elettorale di Penati. Quindi registrandoli nei rendiconti ufficiali come provenienti dall’associazione. Rendendo così impossibile sapere da dove realmente arrivavano i finanziamenti.

L’elenco è custodito nella sede di Fare Metropoli, al terzo piano di via Galileo Galilei 14. I movimenti maggiori, come ilfattoquotidiano.it può documentare, sono concentrati nei mesi tra febbraio e maggio 2009. Le elezioni si sono tenute il primo fine settimana di giugno.

L’associazione viene creata il 30 dicembre 2008. Presidente è Pietro Rossi. Già designato daMilano Serravalle (quindi Penati) come consigliere d’amministrazione della società Tangenziali Esterne di Milano Spa. Dove siede anche Bruno Binasco, l’imprenditore arrestato nel 1993 per aver finanziato illecitamente il Pci tramite il “compagno G”, Primo Greganti, e oggi indagato dalla Procura di Monza che ritiene abbia finanziato illecitamente con 2 milioni di euro Penati nel 2010. Binasco, storico braccio destro di Marcellino Gavio, è amministratore delegato della cassaforte del gruppo dell’imprenditore scomparso del 2009: gestisce oltre mille chilometri di autostrade, fattura 6 miliardi di euro ed è primo azionista di Impregilo.

Alla campagna elettorale di Penati contribuisce anche Renato Sarno, tra i perquisiti mercoledì scorso per l’inchiesta della procura di Monza. Nel maggio 2009 stanzia a favore dell’allora candidato presidente un importo superiore a 40mila euro. Nel collegio dei revisori dell’associazione, tra gli altri, viene nominato Antonio Franchitti, con incarichi anche in diverse società in cui la Provincia è tra gli azionisti di riferimento: Autostrada Pedemontana, Milano Serravalle, Agenzia Sviluppo Milano Metropoli e altre.

Fare Metropoli, ufficialmente, chiede, ricevendoli, contributi per “l’attività culturale” che svolge. Anche se, in realtà, non ha mai organizzato alcun tipo di evento. In compenso i fondi arrivano. Da numerose società e da diverse enti. La Banca di Legnano, ad esempio, nel giugno 2009 stanziadiecimila euro. Alla guida del Cda dell’istituto di credito siede Enrico Corali. Lo stesso Corali nominato pochi mesi prima da Penati nel consiglio di amministrazione di Expo 2015 come rappresentante della Provincia. Contributi arrivano anche dalla Bmg comunicazione. La società che nel novembre 2007 ha ottenuto dalla Provincia un appalto da 95 mila euro. Gara in cui figurava come unica concorrente. L’elenco è lungo. E per ogni singolo nome è stato registrato il motivo del finanziamento. Dalla semplice donazione alla quota versata per l’iscrizione. E poi: campagna elettorale, elezioni Filippo Penati, contributi volontari, finanziamento eventi culturali e altro. Documenti custoditi in via Galileo Galilei. Dove è registrato il comitato elettorale “Lista Penati Presidente” ma dove mai nessun incontro pubblico è avvenuto. Né la sede è stata utilizzata per incontri con la stampa durante le due campagne elettorali che hanno impegnato negli ultimi anni l’ex capo della segreteria politica di Bersani: le provinciali 2009 e le regionali contro Roberto Formigoni nel 2010.

Su Internet si trova solamente una traccia di vita relativa all’associazione: la deputata democraticaLucia Codurelli appunta sul calendario del suo blog un “incontro Mauri” il 28 febbraio 2011 alle ore 14.30 in via Galilei. Un incontro politico. Ma non pubblico. Tra la deputata eletta in Lombardia eMatteo Mauri. Un fedelissimo dell’ex presidente della Provincia di Milano, tra i più fidati assessori dell’era penatiana a Palazzo Isimbardi. Mauri, dopo la vittoria di Bersani alle primarie, viene portato da Penati nella segreteria politica nazionale. Dove ancora siede. Anche dopo le dimissioni di Penati del novembre 2010, rassegnate dopo la sconfitta di Stefano Boeri (candidato del Pd fortemente voluto e sponsorizzato da Penati) alle primarie di Milano contro Giuliano Pisapia.

In pochi hanno avuto modo di entrare nella sede dell’associazione. Molti esponenti locali del Partito democratico non ne conoscono neanche l’esistenza. Pochi hanno avuto il privilegio di visitare l’ufficio che affaccia su Porta Nuova. Pochissimi hanno libero accesso, solo i collaboratori più stretti dell’ex presidente.

Ma di tutto questo Penati, cui abbiamo chiesto un incontro, non ha voluto rilasciare dichiarazioni ufficiali. L’ex vicepresidente del consiglio regionale anche ieri ha ribadito la sua totale estraneità dai fatti che gli sono addebitati dalla Procura di Monza. Insiste nel bollare le accuse degli imprenditori Pasini e Di Caterina come pure invenzioni. Soprattutto, confermano i pochi fedelissimi rimasti al suo fianco, Penati si sentirebbe una sorta di “agnello sacrificale”, una semplice pedina usata per colpire il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, di cui ha guidato la segreteria politica fino al novembre 2010. Ora però c’è anche l’associazione Fare Metropoli.




Emilio Fede indagato per il crac di Lele Mora.


Al centro della vicenda il prestito da 2 milioni 850 mila euro concesso da Silvio Berlusconi (non indagato) all'agente dei vip, emerso nelle indagini su Ruby. Il direttore del Tg4 avrebbe trattenuto parte dei soldi destinati alla Lm Management.


Emilio Fede è indagato per concorso in bancarotta fraudolenta nell’inchiesta sull’agente televisivo Lele Mora. Si tratta della stessa indagine sul crac da 8 miloni di euro della Lm Management, coordinata dai pm milanesi Eugenio Fusco e Massimiliano Carducci, che il 20 giugno scorso ha portato all’arresto di Mora, che si trova tuttora detenuto nel carcere di Opera.

Nei giorni scorsi il direttore del Tg4 è stato interrogato negli uffici della Guardia di Finanza, dopo aver ricevuto un invito a comparire, mentre gli inquirenti oggi hanno risentito Mora. La vicenda oggetto di indagine è venuta alla luce durante le indagini sul caso Ruby e sulle notti a luci rosse di Arcore. Dalle intercettazioni era emersa l’intercessione di Fede presso Silvio Berlusconi per far avere un prestito di due milioni 850 mila euro a Mora, che lamentava difficoltà econoniche.

Il prestito sarebbe documentato anche da una scrittura privata del gennaio 2010, siglata dal giornalista e dall’agente dello spettacolo. Dei 2 milioni e 850 mila euro, Fede afferma di averne trattenuti 400 mila, mentre la Lm era già in procedura concorsuale. Mora, invece, afferma di avergli dato poco meno della metà della somma ricevuta. Le versioni dei due divergono, e gli inuirenti stanno cercando di venirne a capo. E’ indagata anche una terza persona, un factotum di Lele Mora.

”Come ho già detto altre volte”, si è difeso Fede all’Ansa, “quei soldi sono un prestito che avevo fatto a Lele e che lui mi ha restituito. Sapevo che lui era in difficoltà ma non in bancarotta, credo di aver chiarito tutto ai magistrati”.



L’Alta corte Ue boccia il ricorso di Mediaset “Recuperare incentivi per i decoder digitali”. - di Alessio Pisanò


Doccia fredda per le reti del Biscione che si sono viste respingere il ricorso dalla Corte di Giustizia di Strasburgo. Ora l'azienda di Cologno monzese dovrà restituire gli "aiuti di Stato" stanziati dal governo per l'acquisto dei decoder per guardare il digitale terrestre.


La Corte di giustizia Ue ha condannato l’Italia al recupero immediato degli aiuti di stato stanziati per l’acquisto dei decoder per il digitale terrestre nel 2004-2005 rimandando al mittente il ricorso presentato da Mediaset. Secondo le toghe di Strasburgo, i fondi stanziati sono “incompatibili con il mercato comunitario” e soprattutto “contro la libera concorrenza”.

Grazie a quei soldi, molti italiani erano riusciti a comprare i decoder a un prezzo scontato in media di 150 euro continuando così a guardare sul digitale i loro canali preferiti, tra cui anche le reti del Biscione, dopo lo switch off della televisione analogica.

Già nel 2007 la Commissione aveva bocciato l’iniziativa del governo italiano (220 milioni di euro nel 2004-2005) perché costituiva un “aiuto di Stato” a favore di quelle emittenti che offrivano anche servizi televisivi a pagamento, come per esempio Mediaset Premium.

Ai tempi erano state proprio le televisioni del Cavaliere a fare ricorso contro la decisione di Bruxelles. La Commissione, infatti, pur ritenendo il passaggio dalla tv analogica a quella digitale un “obiettivo di interesse comune”, aveva rilevato che aiutare solo gli operatori analogici terrestri, come Mediaset, “non risultava un provvedimento proporzionato” e “produceva distorsioni della concorrenza”. In altre parole ci guadagnava solo Mediaset e per giunta con i soldi di tutti.

Oggi, dopo il fallimento del ricorso al Tribunale, l’altra doccia fredda. L’Alta Corte condivide infatti il ragionamento del Tribunale secondo cui “l’elemento di selettività basato sulle caratteristiche tecnologiche, che favorisce la tecnologia digitale terrestre rispetto a quella satellitare, ha comportato una distorsione della concorrenza, ragion per cui la misura di cui trattasi è incompatibile con il mercato comune”.

Adesso le autorità nazionali dovranno mettere mano al portafogli e calcolare loro stesse la cifra da recuperare, visto che “il diritto dell’Unione non impone alla Commissione di fissare l’importo esatto dell’aiuto da restituire”. E qui sorge un altro problema, visto che l’Italia non è esattamente uncampione di velocità nel recupero fondi. È recentemente successo con gli aiuti stanziati dall’Italia per le alluvioni e disastri naturali del 2002 che secondo l’Ue erano illegittimi e troppo alti. Condannato al recupero di tali aiuti, il governo nazionale si è fatta ulteriormente sanzionare dall’Alta Corte per il ritardo del recupero stesso, accumulando sanzioni su sanzioni.

“E’ stata bocciata una legge ad aziendam”, dice David Sassoli, presidente degli eurodeputati del Pd, che sottolinea come la decisione riaccenda i riflettori sul “confitto d’interesse del presidente del Consiglio”.