L’unica cosa che aveva regalato finora agli italiani era una battuta o poco più. Un comunicato di poche righe nel giorno più difficile, e uno scherzoso «mi sono dimesso… da inquilino», con cui Giulio Tremonti aveva pensato di archiviare la vicenda della casa romana sbucata fra le pieghe del caso Milanese. C’è voluta la punzecchiatura del suo amato Corriere della Sera (il quotidiano con cui collaborava) e il richiamo di una firma illustre come quella dell’ambasciatore Sergio Romano che stigmatizzava quella casa pagata in nero dal ministro che insegue gli evasori per convincere Tremonti a qualche passettino in più.
Il ministro dell’Economia ieri ha scritto una breve lettera al quotidiano diretto da Ferruccio De Bortoli e l’ha accompagnata per non fare torto al rivale in edicola a una chiacchierata informale con il vicedirettore di Repubblica, Massimo Giannini. Al Corriere ha raccontato di essere un ricco professionista e rivelato di ricevere come tutti i ministri 2.390 euro al mese di stipendio in contanti. Quindi per uno come lui non è stato un problema dare 4 mila euro mensili in contanti a titolo di rimborso spese per la casa che gli aveva messo a disposizione il suo collaboratore Marco Milanese. Per Tremonti non si tratterebbe di nero perché «fra privati cittadini non era dovuta l’emissione di fattura o vietata la forma di pagamento». Il ministro spiega di avere raggiunto un accordo verbale con Milanese e di avere pensato all’inizio «a un diverso contratto, che ho poi subito escluso per ragioni personali». E sostiene di non avere fatto nulla di male. A Repubblica invece la versione fornita è assai diversa, e in qualche passaggio addirittura divergente. Per prima cosa Tremonti ammette: «Ho fatto una stupidata». Poi aggiunge una spiegazione choc (che peraltro era già stata rivelata da Libero qualche settimana fa): «In quella casa ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto è che prima ero in caserma, ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato».
Nel lungo colloquio Tremonti aggiunge di essersi sentito spiato perfino in hotel e che per questo dal febbraio 2009 ha deciso di «accettare l’offerta di Milanese. L’ospitalità di un amico, presso una abitazione che non riportava direttamente al mio nome, mi era sembrata la soluzione per me più sicura».
Basta tutto ciò a cancellare ombre? Francamente no. Anzi la duplice versione di Tremonti pare aggiungere ombra ad ombra. Per chiarire bisognerebbe andare avanti settimane con carteggi e colloqui confidenziali. E già in questo c’è la principale anomalia. Tremonti è il capo del fisco italiano. Negli ultimi due anni ha varato misure assai severe su evasione ed elusione fiscale. Il suo mandato all’Agenzia delle Entrate è stato recuperare ad ogni costo 10 miliardi di euro l’anno scorso (obiettivo raggiunto) e 20 miliardi nell’anno in corso. Non ci possono essere ombre sui comportamenti fiscali privati di chi obbliga tutti gli altri a una condotta rigorosa. Quando quelle ombre sono emerse sulla casa romana di Tremonti, il ministro non avrebbe dovuto attendere nemmeno un giorno. La soluzione più naturale sarebbe stata convocare una conferenza stampa ed accettare di rispondere a qualsiasi domanda fosse arrivata. In quel modo si sarebbe rivolto ai contribuenti italiani e non ai giornalisti di fiducia, che è ben altra cosa. Questa incapacità di parlare all’elettorato e a tutti gli italiani sta diventando un handicap grave nel centro-destra. Lo avesse fatto Tremonti avrebbe forse chiarito quel che al momento è ancora oscuro.
Che significa che fra privati può girare del nero? Non è forse privata la mia padrona di casa a cui pago l’affitto? Lo devo fare in contanti e lei semplicemente incassarlo nel disinteresse del fisco? Si poteva quindi non firmare un contratto con la mia padrona di casa per «ragioni personali» come quelle misteriosamente citate dal ministro dell’Economia? Se è così per Tremonti, deve essere così anche per tutti gli altri italiani.
Abbiamo letto su Repubblica qualche giorno fa Milanese negare qualsiasi rapporto di amicizia con il ministro: «Gli do del lei e lo chiamo professore». Due giorni dopo Tremonti spiega di essersi sentito più sicuro con «l’ospitalità di un amico». Le due versioni palesemente stridono. Quale è falsa?
Infine la domanda più rilevante: quanti anni ha passato il ministro a sentirsi spiato e perfino pedinato prima di riparare nel 2009 a casa Milanese? Quali sono le prove di un’accusa così grave? È stata denunciata alla magistratura? Ha chiesto di essere sentito dal Copasir? Ha dovuto prendere in questa situazione decisioni che altrimenti non avrebbe preso? Non sono domande inutili. Inutile è il rimpallo con i giornalisti amici. Che contano assai meno dei contribuenti italiani.