giovedì 29 settembre 2011

Alma Mater, il rettore Dionigi: “Nel 2012 mancheranno anche i soldi per gli stipendi”




Secondo Dionigi verrebbero a mancare, in tutta Italia, qualcosa come 300 milioni di euro: "A quel punto l'intero sistema è a grave rischio. Anche per quello che riguarda i salari"
Anche l’Università italiana fa i conti con i tagli decisi dal governo. E le prospettive, calcolatrice alla mano, sono nere. Anzi nerissime. Perché nel 2012 potrebbero mancare addirittura i soldi per coprire i costi degli stipendi. L’allarme è stato lanciato dal rettore Ivano Dionigi e riportato dall’agenzia di stampa Dire: “Siamo all’insostenibilità del sistema. Nel 2012 il totale del Fondo di finanziamento ordinario sarà inferiore alla somma degli stipendi”.

Nel 2011 il Fondo di finanziamento ordinario, la principale fonte di finanziamento statale delle università, sarà tagliato a livello nazionale del 3,75%, e del 5,5% nell’anno successivo. In altre parole, il Fondo passerà da 6,9 a 6,5 miliardi, con il rischio di non riuscire a coprire il costo degli stipendi dei dipendenti.

Secondo i calcoli di Dionigi verranno a mancare in totale circa 300 milioni di euro. Una sforbiciata che mette a repentaglio il funzionamento dell’intera macchina accademica, con “danni incalcolabili” per gli studenti. “Il tema è radicale – ha spiegato il rettore di Bologna – perché se paghi solo gli stipendi, tagliando corsi e ricerca, allora diventi un ente inutile. Questo è il quadro, non su cui piangere ma da conoscere”. Dunque, le università si troverebbero di fronte a un’amara scelta: o gli stipendi o la ricerca. E il timore del rettore è che, optando per la prima, gli atenei perdano la loro ragione di esistere.

Nel 2011, ha specificato ancora Dionigi, la quota premiale destinata agli atenei virtuosi è aumentata, passando dal 10% al 12%. Mentre per le università con i conti in rosso il Ministero ha deciso di non tagliare oltre il 5%, per evitare di “metterle in crisi”.

Come da previsioni nel 2011, per l’Ateneo di Bologna, la riduzione del fondo di finanziamento ordinario dovrebbe aggirarsi intorno al 3,7%, ossia 15 milioni di euro in meno. Un taglio “già previsto”, ha assicurato però Dionigi, che per ora non dovrebbe minacciare gli stipendi del personale dell’Alma Mater.

g.z. 


mercoledì 28 settembre 2011

La rivincita di Luigi de Magistris. In Cassazione rivive l’inchiesta Why Not. - di Rita Di Giovacchino




Il presidente della Suprema Corte, Giovanni De Roberto, ha annullato la decisione del gup di Catanzaro e rinviato gli atti ad altro giudice per un nuovo giudizio. Riconosciuta l'esistenza dell'associazione per delinquere di cui facevano parte politici, amministratori e imprenditori.

Il sindaco di Napoli ed ex pm Luigi De Magistris
Il sindaco di Napoli ha altri problemi per la testa, ma può dirsi davvero soddisfatto perché sia pure con ritardo la giustizia gli ha dato ragione. Pochi giorni fa, il 21 settembre, è stata depositata presso la cancelleria della Cassazione una sentenza che annulla la decisione del gup di Catanzaro Abigail Mellace e rinvia gli atti ad altro giudice del tribunale di Catanzaro per un nuovo giudizio.

Non parliamo di una sentenza qualunque, madell’inchiesta Why Not, la madre di tutte le inchieste che a dire, non soltanto di de Magistris, aveva sollevato il velo sul “comitato di affari” che dominava la città. Ma soprattutto su un intreccio di politico-affaristico, con contorno di ambienti massonici e servizi deviati, che ha precorso inchieste come la P3 e P4 di Roma e Napoli. Basti dire che nella prima fase dell’indagine compariva anche Luigi Bisignani, quale rappresentante della Ilte spa. L’inchiesta culminò il 18 giugno 2007 con 26 perquisizioni. Anche nello studio di Pietro Scarpellini, consulente “non pagato” della Presidenza del Consiglio.

Un ruolo centrale nella vicenda lo svolgeva l’imprenditore Antonio Saladino, presidente della Compagnia delle Opere della Calabria, uno che telefonava molto. Dai tabulati, ricostruiti daGioacchino Genchi, risultò in contatto perfino con Romano Prodi (estraneo all’inchiesta). De Magistris fu accusato di aver speso 9 milioni in intercettazioni telefoniche, agli atti non ce n’era neppure una. Frequenti però i contatti tra il ministro della Giustizia Clemente Mastella e Saladino: il Guardasigilli reagì chiedendo il trasferimento del pm e del capo della ProcuraLombardi. Alla fine furono in due a doversi dimettere: De Magistris, costretto ad abbandonare l’indagine e poi la magistratura, ma anche Mastella, la cui decisione provocò la fine anticipata del governo Prodi.

Un terremoto politico-giudiziario, che oggi il presidente della Suprema Corte Giovanni De Roberto, rilegge in maniera totalmente diversa, riconoscendo l’esistenza di quell’associazione per delinquere, fortemente sostenuta da de Magistris e negata dal gup Mellace, di cui facevano parte politici, amministratori e imprenditori. Tra questi gli assessori Ennio Morrione Nicola Adamodel Pd. Sosteneva il gup che le condotte illecite “sono state poste in essere con l’accordo di pubblici funzionari, ma in virtù di singole intese”.Una sentenza che fece gridare al “flop investigativo” di de Magistris. Il presidente De Roberto capovolge l’assunto:  ”La ritenuta mancanza di ogni accordo o vincolo tra gli imputati “soggetti pubblici” non può portare alla negazione dell’esistenza dell’associazione, il legame associativo non va ricercato solo tra tali soggetti, ma tra questi, singolarmente considerati, e i rappresentanti delle società facenti capo al Saladino o ai suoi collaboratori”.

Può sembrare strano che il terremoto di Why Not, con le laceranti guerre tra le procure di Potenza, Salerno, Catanzaro e le sofferte decisioni del Csm, sia dovuto a un’inchiesta che si è conclusa con sole otto condanne. In realtà gli indagati erano 150, i rinviati a giudizio 34. Fu il procuratore generale di Catanzaro, Dolcino Favi, a decapitare Why Not avocando a sé per presunta incompatibilità l’inchiesta. Il processo è ancora in corso. Dice oggi il sindaco di Napoli, raggiunto telefonicamente da Il Fatto Quotidiano: “La decisione della Cassazione ribalta la sentenza del gup sulla parte dell’inchiesta che ero riuscito a preservare dopo l’avocazione illegittima per la quale è ancora in corso un procedimento giudiziario”. Per De Magistris è stata una pagina amara: “La mia vita è cambiata, ma voglio ricordare il prezzo pagato dai colleghi di Salerno, i pm Gabriella Nuzzi,Dionigio Versani e dal procuratore Apicella“. E poi l’ultimo affondo: “Sarebbe bene che si levasse qualche voce di autocritica per quei comportamenti omissivi e censori del Csm, ma anche dall’Associazione nazionale magistrati”. Lui oggi non è più pm, ma il processo riparte.

da Il Fatto Quotidiano del 28 settembre 2011


Il latitante Lavitola in tv: “Ho anticipato per Berlusconi i 500mila euro a Tarantini”




“Sono innocente e lo si legge dalle carte del Riesame di Napoli”. “Non mi sono mai impossessato dei soldi che il presidente aveva dato a Tarantini”. “C’è una telefonata non intercettata o non trascritta che mi scagiona dall’accusa di aver ricattato il premier”. “Non ho dato nessuna scheda telefonica peruviana a Berlusconi”. Valter Lavitola non aveva mai parlato prima: silenzio e latitanza. Ora è uscito dall’ombra: è andato in tv e ha dato la sua versione dei fatti, collegandosi in diretta televisiva da Panama con Bersaglio Mobile, il nuovo talk show di Enrico Mentana. In studio e in collegamento, il vicedirettore del Fatto Marco Travaglio, il cronista giudiziario del quotidiano Marco LilloCarlo Bonini di Repubblica e Corrado Formigli, conduttore di Piazza Pulita. Da Panama (o da un’altra località sconosciuta), il latitante Valter Lavitola. Domande e risposte. Secche.

“UNA TELEFONATA MI SCAGIONA” – Il primo colpo lo ha battuto Mentana, che ha chiesto qual è la sua posizione sulla vicenda del presunto ricatto. Secondo il faccendiere ci sarebbe una telefonata con Silvio Berlusconi che lo scagionerebbe dall’accusa di essersi appropriato indebitamente di parte dei 500mila euro fatti avere dal premier perché li consegnasse a Tarantini. “La mia telefonata – ha detto l’ex direttore de L’Avanti! – è stata fatta dalla stessa utenza argentina usata con Tarantini ma non c’è traccia di questa intercettazione. Perchè?”.

“TARANTINI? UN PO’ FESSO” – Travaglio ha chiesto perché, visto che si dichiara innocente, ha detto a Tarantini di “costringere con le spalle al muro” il presidente del Consiglio. Lavitola prima ha letto direttamente l’ordinanza del Riesame, ma poi, pressato da Travaglio, ha aggiunto: “Tarantini è uno scapestrato e non un criminale, anche un po’ fesso. I Tarantini non avevano il senso della realtà, erano solo ragazzi sperperoni. Erano pressanti in maniera esasperante verso di me, aveva tre ossessioni: vedere il premier quanto più possibile, riuscire a far sì che un loro amico, Pino Settanni, potesse concretizzare l’ottenimento di un lavoro con una delle società collegate all’Eni e la necessità di ottenere soldi per le loro esigenze più disparate. Io dicevo a Nicla Tarantini: questa storia finirà e lo metterò con le spalle al muro perché a me non conveniva. In ginocchio? Era rivolta agli avvocati, ed è l’unica frase in 1200 atti che mi vede coinvolto nel discorso del patteggiamento”.

LA SCHEDA TELEFONICA DATA A B. – Sulla scheda peruviana data al premier, Lavitola ha risposto: “Io non ho fornito nessuna scheda telefonica peruviana, ho dato una scheda italiana al Presidente Berlusconi, comprata da un mio collaboratore peruviano. Ho dato la scheda per timore di essere intercettato non per i contenuti illegali della telefonata ma perchè parlavo di considerazioni riservate”. Rapporto stretto con Berlusconi si evince dalla telefonata con Berlusconi che fa parte dell’inchiesta di Pescara. Mentana la manda in onda e poi chiede: “Lei ha un rapporto quasi da consigliere con Berlusconi”? E Lavitola: “Ho poco da dire sulla telfonata. Sul ruolo, non sono mai riuscito dal ’94 ad ora a non avere mai un ruolo elettivo. sono riuscito, invece, dopo una gavetta lunghissima a far sì che il presidente mi concedesse di dire la mia su una serie di argomenti importanti, come si evince nella telefonata in questione. Sono un giornalista, gfaccio politica da 25 anni. Non sono un cretino: non vedo perché non avessi il diritto di dire la mia al presidente. Mi ero ritagliato un piccolo ruolo”.

“HO ANTICIPATO IO I 500MILA EURO PER TARANTINI” – Formigli chiede: “Perché soldi a Tarantini da lei tramite una banca uruguaiana?” E Lavitola: “Perché Berlusconi al momento non poteva per altri motivi e li ho dati io. Non ce la facevo più ad avere due, tre telefonate al giorno da Tarantini. Ecco perché il premier gli aveva dato questi soldi, solo per sviluppare una attività imprenditoriale. Per me era una liberazione quando Tarantini ha detto: ‘datemi questi soldi e non vi rompo più’. Ma come si fa a dare 500mila euro a Tarantini per far sviluppare un’attività all’estero? Io so cosa significa e i costi che comporta, perché in Sud America ho lavorato e lavoro bene. Ma lui consumava come una Ferrari”. Va in onda la telefonata con la segretaria del premier in cui si parla di soldi. Mentana chiede: “Di cosa si tratta?” E Lavitola: “Erano una parte del rimborso di una parte dei 500mila euro che avevo anticipato”. E Travaglio: “Qui c’è una cosa che fa passare Ghedini per uno sprovveduto, visto che si era attivato con B. per far riavere i soldi indietro da Tarantini. Possibile che Berlusconi si sia attivato per avere i soldi indietro da Tarantini se invece li aveva dati Lavitola?”. E Mentana: “E’strano che Lavitola dia 500mila tutti insieme e il premier in comode rate mensili?”. Lavitola risponde così: “Sono socialista, nel ’93-’94 ero nel partito, gran parte dei socialisti sono traghettati in Forza Italia, poi nel ’95 si iniziarono a fare una serie di riunioni e a Fiuggi l’ho incontrato la prima volta. Da allora in poi, in una srie di riunioni ho avuto modo di vederlo cercando di farmi apprezzare per fare il parlamentare. Non ci sono mai riuscito anche per colpa di Ghedini. E’ vero che ho minacciato di menarlo. Stasera ho fatto questa cosa perché non voglio fare un processo in tv, perché sia ben chiaro che ho un sacro terrore della magistratura e non voglio farli irritare in nessuna maniera. Ho una paura dannata. Sono latitante per alcuni errori, ma forse ho fatto been vedendo quello che è successo a Tarantini e alla moglie, che non doveva essere arrestata perché aveva dei bambini piccoli. Tutto contro la legge, nonostante la misura sia disposta da un gip donna. Io avrei fatto la stessa fine di Tarantini: due mesi di carcere e poi mi avrebbero rilasciato chiedendomi scusa perché non ho fatto nulla”.

LA MASSONERIA – Travaglio ha chiesto al faccendiere del suo rapporto con la massoneria. Lavitola ha risposto: “Mi sono iscritto alla massoneria quando avevo 18 anni in una loggia di Roma perchè mi sembrò, leggendo un libro, che fosse il miglior apprendimento per imparare a stare zitti. Non so se Berlusconi sia iscritto”.

QUAL E’ IL LAVORO DI LAVITOLA? – Bonini, poi, chiede nuovamente a Lavitola qual è il suo mestiere e perché il premier perde tempo con lui, che sta sempre in mezzo a tante, troppe storie, da Saint Lucia al caso Tarantini. Lavitola ha detto: “Sono qui stasera per non irritare i magistrati e voglio dimostrare di non essere l’uomo nero nè il faccendiere che mi dicono di essere. Voglio dimostrare chi sono, cosa faccio e perché risulto un personaggio scomodo. Sono determinato e non soffro di timori reverenziali nei confronti di nessuno, ecco perché sono inviso a molti collaboratori del premier. Sono un giornalista, facevo le riunioni di redazione al telefono. Mi prendete in giro dicendo che sono un filantropo? Non c’è nulla da scherzare. Ho aiutato i Tarantini perché me lo ha chiesto il presidente. Lo incontrai, parlammo di loro, dissi ‘perché non li aiutiamo’ e lui mi disse: ‘aiutali perché questi sono dei ragazzini’. Per quanto riguarda il fatto di essere un imprenditore ittico, è una sottolineatura strana, perché è il mio lavoro e basta.

I CORTIGIANI DI B. – Cosa so dei cortigiani del presidente a cui avrei dovuto fare il culo? Ricordo di cosa stiamo parlando. Vennero da me D’Avanzo e un altro di Repubblica e mi sfogai: c’è una querela che feci a Repubblica perché quelli erano solo sfoghi. Io non so nulla che possa consentire di far male a nessuno. Molti dei collaboratori del premier mi stanno antipatici, ma se sapessi qualcosa di compromettente su di loro non lo verrei certo a dire in tv”.

I RAPPORTI CON RAI, ENI, FINMECCANICA – Viene mandato in onda un servizio sulle tante attività imprenditoriali di Lavitola e sui suoi rapporti con le società di Stato. “Molte cose non vere. I soldi de L’Avanti! dirottati alla mia società brasiliana? Qualcuno dopo stasera mi può dire che sono completamente scemo? E allora come avrei potuto: se qualcuno di voi è in grado di dimostrare queste cessioni a società che non si occupano di stampa, beh, allora denunciatemi e querelatemi come ho già fatto io. Sarei un pazzo a fare una cosa del genere. Su Rai Trade? Chiesi un appuntamento un anno e mezzo fa per verificare se era possibile acquistare diritti tv da vendere nel mercato centro e su americano. Non ne valeva la pena e non si è fatto nulla. Finmeccanica? Ho conosciuto Pozzessere il 2,3 dicembre 2009. C’erano molte multinazionali, tra cui Finmeccanica. Ho subito una serie di ingiuste delusioni da Berlusconi, non sono mai stato eletto né mai nominato e sappiamo la lite con Ghedini. Lo scoop è che non essendo mai riuscito, nel 2010 chiesi di essere responsabile personale di Silvio in America Latina. Lui non mi disse né sì né no. Io dissi di essere messo alla prova durante un viaggio in america latina e lui mi disse sì per togliermi dalle scatole. Poi ci fu la storia delle ballerine di San Paolo e fu deciso che io non dovessi avere nessun incarico. Io qui non mi sto divertendo, non vedo mio figlio da tanto tempo né faccio il latitante per divertimento. Non voglio fare gossip con il discorso delle ballerine. Quando siamo arrivati a Panama, arrivo lì e mi rendo conto che non c’era nessuna chanche per le mie attività politiche. E mi resi conto che con Finmeccanica potevo trovare un lavoro.Ero in difficoltà e credevo che potesse essere un lavoro, Pozzessere stesso mi ha proposto una consulenza, per me una grande opportunità. Lui stesso ha detto di avermi fregato con un contratto di 30mila euro, cifra che gli proposi io perché credevo che fosse uno scherzo. Poi mi sono reso conto di quanti soldi potevo chiedere, viste le consulenze. C’è un’altra indagine in corso e non posso dire nulla. Il mio contratto stava scadendo e avevo chiesto un aumento a 70mila euro, ma mi hanno detto che non era possibile. Avevo scoperto un mondo in cui potevo mettere a frutto le mie competenze create negli anni grazie alle mie capacità. In molti anni sono entrato in contatto con imprenditori, politici e quant’altro”.

“IL SEGRETO DEL MIO SUCCESSO” – “Ma non tutti hanno le sue entrature” ha chiesto Mentana, che poi ha mandato in onda un servizio sugli stretti rapporti con i potenti sudamericani di Lavitola. “E’ difficile avere brutti rapporti con chi dona sei navi…Qual è il segreto del suo successo?” è stata la domanda di Marco Lillo, che poi ha citato un’intercettazione in cui parlano la moglie di Tarantini e Lavitola. La signora è arrabbiata perché il premier non si fa ricevere e Lavitola spiega che Gianpi non può avere più rapporti con il presidente perché a lui interessa solo la figa. Lillo ha chiesto se c’è una relazione tra queste frasi e il suo rapporto con il presidente del Consiglio. Lavitola ha risposto così: “Ci sono troppi omissis e bisogna contestualizzare le intercettazioni: le trascrizioni non sono attendibili perché sono parziali. Per la questione della figa, invece, qualcuno può pensare che a Berlusconi non piacciano? Per quanto riguarda il Castello di Tor Crescenza, fui io a suggerire al presidente di affittarlo, visto che doveva passare le vacanze estive e di passare l’estate lì. Mi chiese di andare con lui e mi chiese il mio parere sulla questione. Per quanto riguarda la questione delle navi, invece, bisogna finirla di dire cose inesatte: non ho regalato né fatto regalare nessuna nave. Era il frutto di un accordo bilaterale con l’Italia, Panama si impegnava nella lotta al narcotraffico in cambio di sei pattugliatori che stavano andando in disuso. Basta verificare: dai porti panamensi parte tantissima droga”.

I RAPPORTI CON PANAMA – Bonini torna sulla questione degli affari: “Come nascono i suoi rapporti col presidente panamense? Quali sono i suoi rapporti con Eni? Che ci faceva a Sofia il 24 agosto?” Lavitola ha risposto così: “A Sofia avevo appuntamento con dei fornitori di pesce, può testimoniarlo. Con eni nessun tipo di contatto e in alcune occasioni ho bluffato con i Tarantini perché ero ossessionato dalle loro richieste. Con Martinelli nessun rapporto speciale. E’ un signore con radici italiane ed è un magnate dell’industria agroalimentare che ho conosciuto per motivi lavorativi nell’ambito delle comunità italiane del sud e centro America”.



http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/09/28/la-verita-di-lavitola-dalla-latitanza-di-panama-in-diretta-televisiva/160653/comment-page-3/#comment-2463442

Respinta la sfiducia a Romano con 315 voti Di Pietro: “Voto di scambio, come tra mafiosi”




Il ministro delle politiche agricole: ''Quello che un tempo era l'ordine giudiziario ormai ha soverchiato il Parlamento e ne vuole condizionare le scelte”
Il ministro dell'Agricoltura Saverio Romano
“Non ci saranno sorprese”. Umberto Bossi lo aveva garantito: il voto su Saverio Romano è certo, sicura la “salvezza” per il ministro delle politiche agricole accusato di associazione esterna di stampo mafioso. E così è stato: la mozione di sfiducia è stata respinta con 315 voti, favorevoli 294. Polemiche sull’astensione dei Radicali, inattesa. Comunque il risultato era annunciato.

E bastava ascoltare l’intervento in aula di Romano per capire quanta il ministro era certo del risultato a suo favore. Quasi una sfida. Tanto da attaccare la magistratura, sostenendo che “vuole sostituirsi al Parlamento”, e da definire “odiosa” la mozione di sfiducia nei suoi confronti. Ma l’autodifesa è arrivata soltanto dopo i messaggi di solidarietà ricevuti dalla maggioranza. In particolar modo della Lega. Bossi, entrando a Montecitorio, ha sostenuto che Romano “bisogna giudicarlo come ministro. Un magistrato voleva assolverlo – conclude – poi è stato rinviato a giudizio, sono beghe tra magistrati”. La posizione della Lega era già stata annunciata dal ministro dell’Interno giorni fa, suscitando numerose polemiche. Ma Roberto Maroni era stato chiarissimo: “No alla sfiducia”. Tutt’altra linea dunque rispetto al voto espresso su Alfonso Papa, quando il Carroccio votò per aprire al deputato le porte di Poggio Reale. La posizione è dunque cambiata. E Romano ha apprezzato il gesto, tanto da ringraziare Roberto Calderoli in aula, poco prima del voto. I due hanno avuto un breve colloquio, tra sorrisi e cordiali strette di mano. Ma se di sorprese non ne arriveranno dalla Lega, potrebbero regalarle i cattolici della maggioranza, capitanati dall’ormai frondista Beppe Pisanu, presidente della commissione antimafia, fortemente critico con l’esecutivo.

Come l’opposizione, ovviamente. Secondo Antonio Di Pietro “alla Camera, su Romano, ci si sta preparando ad un voto di scambio, così come si fa tra i mafiosi. Lui resta al governo e loro in cambio restano attaccati alle loro poltrone. Questa la chiamo collusione”, ha detto il leader dell’Idv. “Evidentemente – aggiunge – i consigli comunali o regionali si possono sciogliere per mafia, il consiglio dei ministri, no”. E durante il suo intervento Di Pietro definisce “codardo” il ministro Maroni perché assente in aula. Per il Partito Democratico è intervenuto Antonello Soro. “Oggi chiediamo di allontanare l’ombra della mafia dal governo della nostra Repubblica. Per questo voteremo a favore della mozione di sfiducia sul ministro Romano”, ha detto.

Futuro e Libertà ha attaccato in aula a Montecitorio il governo con la satira. Non sua, però, dal momento che il copyright è del vignettista Vauro che oggi su Il Fatto Quotidiano ha prodotto una mega vignetta, una parodia del Quarto Stato del pittore Pellizza da Volpedo, adattandone, per così dire, il nome all’attualità politico-scandalistica di queste settimane, in Patonza da Volpedo. Titolo della vignetta: “Il porno stato”. E i deputati di Fli si fanno sentire quando in aula intervieneSilvano Moffa, ex futurista passato ai Responsabili, a cui gridano “venduto”. Ma i momenti di tensione, le grida, i cori sono stati numerosi.
A difesa della maggioranza è intervenuto Sandro Bondi. L’ex ministro alla Cultura, da tempo in silenzio, ha ritrovato il verbo per difendere il collega Romano. “Sono solidale con il ministro Saverio Romano che soffre le conseguenze di una giustizia malata e di una politica che ha completamente smarrito quel confronto duro ma rispettoso della dignita’ delle persone che in passato aveva mantenuto. Solo chi ha subito questo trattamento può comprendere l’amarezza e la delusione verso questa degradazione della politica”, ha detto Bondi.

Romano è poi intervenuto in aula. “L’ordine giudiziario ha soverchiato il Parlamento e ne vuole condizionare le scelte”, ha detto il ministro delle politiche agricole tentando di sminuire le inchieste a suo carico come “le storie dei soliti pentiti”. Il Parlamento, ha aggiunto, ha perso la sua centralità a vantaggio di altri poteri, come quello mediatico. “Io infatti sono stato oggetto di una campagna di aggressione che non auguro a nessuno. Piena, oltretutto, di grossolane inesattezze. In questi mesi mi è stato tolto l’onore, perché i processi sono stati trasferiti in aule improprie, nelle piazze e in Parlamento”, ha detto. “Può un provvedimento giudiziario istruttorio, quale che sia, incidere sulla tenuta di un governo senza che di quel provvedimento nessuno debba rispondere?”. Romano ha lamentato di essere stato tenuto “per anni sulla graticola” da un organo, la magistratura “che non ha nessuna responsabilità”. E comunque, ha aggiunto, la mozione di sfiducia chiesta nei suoi confronti è “odiosa”, ha detto. “Mi sarei aspettato un atto ispettivo”, per capire “come mai un uomo che svolge una funzione pubblica possa essere stato tenuto otto anni sulla graticola”.

Intanto all’esterno di Montecitorio una manifestazione del Popolo Viola e Articolo 21 invoca “Fuori la mafia dallo Stato”.  Alle 15.30 era prevista una catena umana, al momento posticipata. “La gente è a lavoro – Gianfranco Mascia, volto storico del Popolo Viola – e poi, diciamocelo chiaramente, è anche un po’ stufa di sbattere contro un muro di gomma eretto da istituzioni che non ascoltano i cittadini. Non ci sentiamo affatto rappresentati da un parlamento e da parlamentari – incalza Mascia, megafono alla mano – che difendono le poltrone piuttosto che gli interessi degli italiani”. Intanto i manifestanti sventolano cartelli di protesta: “Italiani ostaggio del Parlamento”, “Napolitano pensaci tu…”, “Ieri Milanese oggi Romano…” “superlavoro per i servi di Berlusconi”. Ma il più “bacchettato” nel sit-in davanti a Montecitorio appare il Carroccio: “Lega Nord mafia doc”, “Carroccio colluso”, si legge su alcuni dei tanti cartelli anti-Lega. “Se confermeranno la fiducia a Romano – annuncia Mascia – acquisteremo cannoli siciliani da offrire ai parlamentari che passeranno di qua”.


La via è la moral suasion. - di Valerio Onida.




È comprensibile che, di fronte al continuo processo di degrado della situazione politico-istituzionale del paese, e al pervicace rifiuto del Presidente del Consiglio di prenderne atto assumendo un’iniziativa risolutiva (le sue dimissioni), vi sia chi torna a invocare l’intervento del Presidente della Repubblica, diretto a sciogliere le Camere.
Tuttavia, occorre ancora una volta ricordare ai lettori che l’ordine costituzionale ha i suoi principi e le sue regole, che nessuno può pensare di violare.
Questi principi e queste regole ci dicono: primo, che lo scioglimento anticipato delle Camere non è un atto che rientri nel potere assolutamente discrezionale del capo dello Stato, ma è un provvedimento che questi può adottare solo con la controfirma (e quindi con l’assenso) del presidente del Consiglio; secondo, che il presupposto il quale legittima lo scioglimento è l’impossibilità di funzionamento del sistema perché non c’è più in Parlamento una maggioranza che sostenga con la sua fiducia il governo o sia in grado di esprimerne uno nuovo.
La necessità del primo presupposto, cioè dell’assenso sostanziale del presidente del Consiglio in carica, potrebbe essere superata solo nell’ipotesi estrema in cui quest’ultimo, di fronte a un voto parlamentare di sfiducia, rifiutasse di dimettersi, violando così la Costituzione. In mancanza di un voto di sfiducia, cosa potrebbe fare il capo dello Stato (intendo, più di quanto ha già fatto e sta facendo)? Solo esercitare una volta di più il suo “magistero di persuasione e di influenza”, invitando esplicitamente e motivatamente il Parlamento a verificare la permanenza o il venir meno del rapporto fiduciario nei confronti del governo in carica, tenuto conto di ciò che emerge nel paese: ma rischiando così, com’è evidente, di aprire un conflitto politico e istituzionale gravissimo e insanabile nel caso in cui la maggioranza , invece, confermasse la fiducia.
Non c’è, in democrazia, un “demiurgo” onnipotente: c’è un sistema che risponde a una logica precisa e che ha in sé, nonostante tutto, anticorpi anche contro le malattie più gravi: nella specie, questi anticorpi stanno oggi, soprattutto, nel residuo di consapevolezza, di autonomia e di ragionevolezza che non può non albergare nelle menti e nei cuori di molti, se non di tutti, i deputati e i senatori di quella che fino a ora è stata la maggioranza di governo.

Situazione senza precedenti




LORENZA CARLASSARE
Da molto tempo si avverte l’urgenza di porre termine alla scandalosa permanenza in carica di questo screditato governo; e di fronte alla sua pervicace volontà di resistere agli appelli pressanti si parla sempre meno sommessamente della necessità di arrivare allo scioglimento anticipato delle Camere.
Io stessa nel febbraio scorso, sottolineando l’eccezionalità di una situazione senza precedenti, invitavo da queste pagine, a una riflessione approfondita sullo scioglimento e sulle condizioni che lo legittimano in un contesto inedito che, come studiosi, mai avevamo considerato.
Per questo mi pareva necessario, da parte dei costituzionalisti, ripensare ai presupposti di esercizio di quel potere alla luce delle squallide novità. Il discorso, ripreso subito da Gianni Ferrara (su costituzionalismo.it), torna con forza nelle parole di Gustavo Zagrebelsky a Libertà e Giustizia: “Siamo consapevoli della gravità di ciò che diciamo e mai avremmo immaginato di doverlo dire, ma è in gioco la qualità della nostra democrazia e sono convinto che ci sia bisogno di reagire” e ridare la parola ai cittadini: “Non esiste altra via” quando il governo ha la fiducia di una maggioranza parlamentare, ma è la maggioranza a non avere la fiducia dei cittadini. Le anomalie del nostro presente non si limitano a questa frattura. Pesa il ‘blocco’ della nostra democrazia, i cui meccanismi sono paralizzati da una legge elettorale incostituzionale. Inutile però forzare la Costituzione: il decreto presidenziale di scioglimento richiede, a pena d’invalidità, la controfirma del presidente del Consiglio: “Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato” (art. 89).
Si può ritenere tuttavia, di fronte al rifiuto di controfirma, che il capo dello Stato possa rivolgersi alla Corte per denunziare che in tal modo gli viene impedito l’esercizio delle sue funzioni pur in presenza dei presupposti.
Presupposti indiscutibili: il venir meno della corrispondenza tra maggioranza parlamentare e popolo è considerato motivo di scioglimento e rimettere in moto le istituzioni inceppate si considera primo compito del capo dello Stato.
Aggiungendo lo scandalo perdurante, il decoro delle istituzioni violato, la fedeltà infranta, il danno all’economia, non è azzardato pensare che il capo dello Stato, nel conflitto di attribuzioni, veda accolte dalla Corte le proprie ragioni.

Napolitano può mandarlo a casa. - di Massimo Fini.







 L’articolo 88 della Costituzione recita: “Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere”. La Carta non pone alcun limite a questa facoltà del capo dello Stato salvo l'obbligo di sentire il parere, peraltro non vincolante, dei presidenti dei due rami del Parlamento e che non può esercitarla “negli ultimi sei mesi del suo mandato”. Il fatto che la Costituzione dedichi un preciso articolo sui 17 che lo riguardano, a questa facoltà del presidente della Repubblica, senza accompagnarla con alcuna specificazione, indica che i nostri Padri fondatori non la consideravano, come altre, puramente ornamentale, ma un potere concreto e fondamentale della massima carica dello Stato che la può esercitare in piena libertà quando a suo giudizio ne ricorrano le condizioni.
   L’articolo 88 fa quindi piazza pulita delle talmudiche asserzioni degli esponenti del centrodestra che a ogni piè sospinto, di fronte alle reiterate richieste di dimissioni del presidente del Consiglio, che provengono da varie parti e non solo dalle opposizioni, strillano che “nessuno può mandare a casa un governo che ha la maggioranza in Parlamento ed è stato voluto dal popolo sovrano” . Qualcuno c’è: è il capo dello Stato. Naturalmente, a lume di logica, e non perchè la Costituzione gli ponga alcun limite, il presidente della Repubblica eserciterà questa sua peculiarissima facoltà in casi eccezionali e di fronte a situazioni di emergenza.
   I costituzionalisti si sono esercitati e sbizzarriti, nell’elencare una serie di situazioni che costituirebbero un valido motivo per lo scioglimento anticipato delle Camere. Ne citiamo due che sembrano tagliati su misura per il caso nostro.
   1) “L’emergere di nuove questioni fondamentali su cui i candidati non avevano preso posizione al momento della campagna elettorale e che gli stessi elettori non potevano aver preso in considerazione al momento del voto”. Nel 2008, quando fu eletto il terzo governo Berlusconi, non esisteva il rischio di default dell’Italia.
   2) “Se sussiste un tentativo di sovvertimento legale della Costituzione”. Sono diciassette anni che Berlusconi sovverte, fra gli altri, uno degli articoli-cardine della Costituzione, l’articolo 3 che sancisce il principio basilare dell’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge.
   Ma non voglio girare intorno ai pareri dei costituzionalisti. Se c’è un momento per un capo dello Stato, di esercitare la facoltà di sciogliere anticipatamente le Camere e mandare a nuove elezioni, è questo. L’Italia vive una situazione economica gravissima di fronte alla quale c’è un governo indeciso a tutto che ha dovuto cambiare cinque volte la legge finanziaria. È più vicina alla Grecia che alla Spagna. Ma più del governo, dove ci sono anche ottimi ministri, il problema è proprio lui: Silvio Berlusconi. Con i suoi comportamenti, pubblici e privati, agiti anche all’estero, ci ha ridicolizzato di fronte all’opinione pubblica internazionale e ci ha tolto credibilità proprio nel momento in cui ne avremmo più bisogno. L’ “Express” in una sua copertina lo ha definito “il buffone d’Europa”. Ma critiche feroci e sbeffeggianti sono state mosse al premier italiano da vari giornali europei (inglesi, tedeschi, spagnoli e persino bulgari), americani, giapponesi, molto spesso di ispirazione liberale. Recentemente il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, si è detta stufa di vedere l’Italia considerata “uno zimbello”. Ma, soprattutto, Berlusconi è stato ed è un autocrate alla Putin che per diciassette anni, sotto mentite spoglie di democrazia, ha lato leggi, massacrato tutti i principi dello Stato liberale e democratico, promosso le sue favorite in Parlamento e nelle Istituzioni grazie al potere del suo denaro e avendo, per sopramercato, un’origine politica illegittima a causa di un colossale conflitto d’interessi mai risolto. Oggi ha una maggioranza, in parte prezzolata, in Parlamento, ma quasi tutto il Paese contro: al di là delle opposizioni politiche, la società civile, la Confindustria, la Chiesa, i leghisti di base non lo possono più sopportare. Ma lui suona il suo solito refrain: “Non mollo”. Invece è necessario liberarsene al più presto prima che il Paese precipiti nella catastrofe.
   Solo il presidente della Repubblica può farlo. Certo ci vuole del coraggio per mandare a casa un presidente del Consiglio in carica. Giorgio Napolitano è sempre stato un uomo in grigio, un politico mediocre di cui, prima che salisse al Colle, non si ricordava un discorso significativo, un atto di qualche valore, ma solo l’imbarazzante somiglianza con il re Umberto. E anche adesso si segnala solo per la sua inerzia, per moniti omnicomprensivi che, in quanto tali, non vogliono dire nulla. Giorgio Napolitano ha 85 anni. Trovi, per la prima volta nella sua lunga vita, il coraggio di fare un atto di coraggio.

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