venerdì 7 ottobre 2011

Il San Raffaele degli Angelucci rischia di chiudere. Il lavoratori accusano i magistrati.




I proprietari della struttura hanno inviato una lettera di preannuncio licenziamento ai loro dipendenti che, però, in base a un accordo con la Regione Lazio dovevano essere reinseriti in altre strutture del gruppo.
L'imprenditore Giampaolo Angelucci
Paradossale e tragica la situazione per 257 lavoratori della clinica San Raffaele di Velletri, di proprietà della famiglia Angelucci. Hanno in tasca una lettera di preannuncio di licenziamento, un posto di lavoro preziosissimo che sta per svanire, con tutte le conseguenze del caso, in un territorio, quello della provincia di Roma, dove trovare una nuova occupazione è un’impresa disperata. E, paradossalmente, sul banco degli imputati dal neonato comitato sindacale “spontaneo” dei lavoratori sorto all’interno della struttura sanitaria – che ha escluso i sindacati confederali – sono finiti i magistrati autori di una complessa inchiesta giudiziaria sugli affari di famiglia di Giampaolo eAntonio Angelucci.

Nella città di Velletri, che da trent’anni ospita la principale struttura sanitaria del gruppo San Raffaele spa, da qualche giorno girano le automobili con gli altoparlanti annunciando un’assemblea pubblica alla presenza del sindaco. Poi centinaia di manifesti, un presidio – autorizzato dalla stessa società – che va avanti da diversi giorni con un unico obiettivo, fermare la chiusura della clinica. Una protesta che lo scorso luglio ha portato un gruppo di lavoratori sotto le finestre del Tribunale di Velletri, dove i magistrati stanno valutando la posizione del San Raffaele Spa. Il 23 giugno scorso la Regione Lazio ha revocato l’accreditamento, dopo il deposito degli atti di un’inchiesta che dura dal 2005, basata su un’ipotesi di truffa ai danni del sistema sanitario nazionale per una cifra di oltre 100 milioni di euro.

In un documento di sette pagine il dipartimento programmazione economica della Regione ha stilato il lungo elenco dei problemi riscontrati in diverse ispezioni della Asl e dei Nas nella clinica di Velletri della famiglia Angelucci. Nel 2009, ad esempio, gli ispettori hanno evidenziato diverse modifiche “difformi” in molti locali della struttura, mentre alla verifica – effettuata nel 2008 – delle cartelle cliniche, su 75 ricoveri ben 41 risultavano “incongrui per codifica e inappropriati per criteri di accesso”.

Ma forse la contestazione più grave arrivata dalla Regione riguarda proprio il personale: in una verifica dello scorso novembre “è stata constatata una carenza di personale infermieristico e ausiliario”. Anche la qualità del trattamento di riabilitazione è stata poi contestata agli Angelucci: nella palestra “risultavano presenti un numero di pazienti decisamente inferiore rispetto a quello che avrebbe dovuto essere presente in base ai degenti in carico alla struttura”

Accuse gravi, in parte poi finite nell’indagine dei magistrati. Paradossalmente l’inchiesta della Procura, quella della Corte dei Conti e il dossier delle strutture sanitarie incaricate della vigilanza non hanno comportato un danno economico evidente per la San Raffaele spa, fatto salvo il sequestro cautelativo per 134 milioni di euro disposto lo scorso anno. Soli pochi giorni dopo la revoca dell’autorizzazione per la clinica di Velletri – la più antica dell’impero della famiglia Angelucci – i vertici della società hanno firmato un accordo che ha sostanzialmente limitato il danno. La Regione ha garantito il mantenimento del numero di posti letto complessivo accreditato, spostando i quasi 300 pazienti di Velletri nelle altre cliniche del gruppo, mantenendo così inalterato il fatturato.

In quello stesso accordo la San Raffaele Spa garantiva ovviamente di non licenziare nessuno. Tutto, dunque, sembrava risolto: la società non avrebbe perso un solo euro della ricca convenzione con la Regione Lazio e i lavoratori potevano mantenere il loro posto, anche se trasferiti in altre strutture. L’invio delle lettere di licenziamento è avvenuto in una fase delicata. La Procura ha chiuso il primo troncone delle indagini iniziate nel 2005 e deve ora decidere se presentare la richiesta di rinvio a giudizio. L’ultimo atto istruttorio, avvenuto nel dicembre dello scorso anno, è stato l’interrogatorio, come persona informata sui fatti e quindi non indagato, dell’ex presidente della Regione Lazio Piero Marrazzo. Una deposizione fiume, durata circa sei ore.

Quelle lettere che minacciano di mandare tutti a casa alla fine di questo mese stanno chiaramente surriscaldando il clima, soprattutto nei rapporti tra i lavoratori: “Qualche giorno fa – denunciaPaolo Calvano della Cgil funzione pubblica – una nostra delegata è stata bloccata da un gruppo di lavoratori all’interno della struttura alla fine del turno e, quando ha raggiunto il cancello, è stata pesantemente insultata”. Un episodio significativo, visto che, secondo i sindacati, “hanno assistito all’aggressione verbale anche due dirigenti della società, senza intervenire”.

di Raffaele Gardel


Napolitano può dire basta. - di Michele Ainis






Ormai l'esecutivo è un'accozzaglia di zombi: né vivi né morti. Una situazione in cui il Qurinale potrebbe decidere da solo di sciogliere le Camere, anche contro il parere del governo. E non sarebbe una novità costituzionale.


In un romanzo di José Saramago ("Le intermittenze della morte", 2005) le agenzie di pompe funebri vanno in fallimento: da un giorno all'altro la gente smette di morire. I moribondi aprono un occhio, ma restano in sospeso fra la vita e la morte. I loro familiari reagiscono dapprima con sollievo, poi a lungo andare con fastidio, con insofferenza, con un moto d'esasperazione. Per forza: come fai a tirare avanti, quando hai uno zombie dentro casa?

Ecco, è esattamente questa la condizione del governo Berlusconi: non campa e non crepa. Esala sempre il penultimo respiro. Nel frattempo l'economia va a scatafascio, l'immagine internazionale del Paese idem, sul fronte interno monta un sentimento di sfiducia popolare che s'allarga a ogni altra istituzione. Ma in Parlamento la fiducia c'è, persino troppa: 50 voti su altrettante questioni di fiducia per il IV gabinetto Berlusconi, un record. Insomma lui non si dimette, la maggioranza brontola ma non ha fegato per un'eutanasia, l'opposizione è a sua volta in coma. Più che un medico, servirebbe un esorcista.

Chi? Napolitano. E infatti sul Quirinale fioccano appelli, imbeccate, esortazioni. Errore: altro è accompagnare gli atti del presidente con un applauso o con una nota di dissenso, altro è aspettarsi che li compia sotto dettatura. In quest'ultimo caso apparirebbe come un attore alla mercè di un suggeritore: prospettiva non entusiasmante. Da qui il difetto - di metodo, per così dire - della proposta avanzata da Eugenio Scalfari il 18 settembre. Ossia un messaggio solenne al Parlamento, per accendere i riflettori sulla credibilità dell'esecutivo. Anche sul merito, però, c'è qualche controindicazione. A parte il fatto che Napolitano non ha mai usato il potere di messaggio (Ciampi, d'altronde, lo usò una volta sola), quali sarebbero mai i suoi contenuti? O un richiamo alle assemblee legislative affinché si sbarazzino al più presto del governo: una forzatura senza precedenti. O un avviso di sfratto per le stesse Camere: ma lo scioglimento anticipato non si minaccia, si decreta. Sempre che, beninteso, ve ne siano i presupposti. 

E allora sbuca fuori la domanda: ma Napolitano può licenziare il Parlamento, anche contro l'avviso del governo? I costituzionalisti, tanto per cambiare, si dividono in tre schiere. C'è chi interpreta lo scioglimento anticipato come una decisione solitaria dell'esecutivo; chi lo consegna interamente nelle mani del capo dello Stato; chi lo ricostruisce come un potere in condominio. Sennonché la prima soluzione venne esclusa dai costituenti quando respinsero l'emendamento Nobile, che vincolava ogni scioglimento a una proposta del Consiglio dei ministri. Ma fu respinto anche l'emendamento Dominedò, che intendeva viceversa escludere la controfirma del presidente del Consiglio. Se c'è la controfirma, significa che l'omicidio è in realtà un suicidio, un harakiri della maggioranza; Napolitano può solo firmare il certificato di decesso.

Giusto? No, sbagliato. Intanto la controfirma non pregiudica la titolarità sostanziale del potere, come dimostra il caso della grazia ai detenuti, su cui la Consulta ha attestato il monopolio del capo dello Stato (sentenza n. 200 del 2006). In secondo luogo, fra gli 11 scioglimenti anticipati di cui abbiamo esperienza, c'è almeno un precedente deciso dal Quirinale in solitudine: quello di Scalfaro, gennaio 1994. Quando c'era una maggioranza attorno al governo Ciampi, eppure il presidente aprì le urne agli italiani. Per tre ragioni: era cambiata la legge elettorale; un voto amministrativo aveva appena dimostrato che la maggioranza parlamentare non rifletteva più la maggioranza popolare; le inchieste giudiziarie avevano tolto credibilità alle Camere.

Toh! La prima no, ma le altre due ragioni varrebbero anche adesso. E ce n'è poi una terza, che potrebbe diventare valida domani: se il Parlamento cade in stallo. Se non procede al rinnovo degli organi costituzionali (alla Consulta manca un giudice ormai da cinque mesi). Se boccia l'ennesima manovra, senza vararne un'altra. E se infine cade in stallo anche il governo. Scenari pessimi, ma forse il peggio è già qui e ora.



http://espresso.repubblica.it/dettaglio/napolitano-puo-dire-basta/2162366/8



Alemanno truffato da finti 007 trattava dossier contro la sinistra.


Nel 2007 offrirono all'allora esponente di An false informazioni per 70 milioni di dollari. Le notizie dovevano riguardare i leader dell'Unione e le vicende Parmalat, Unipol, Capitalia. Il sindaco ai pm: "Li ho incontrati". Ora dovrà testimoniare

di FEDERICA ANGELI e FRANCESCO VIVIANOROMA - Quando nel 2007 dei finti agenti dei servizi segreti proposero all'attuale sindaco Gianni Alemanno, all'epoca presidente della federazione di Roma di An, un dossier contro la sinistra italiana, lui si mostrò interessato. Invece di sbattere la porta in faccia a chi gli vendeva, per 70-80 milioni di dollari, informazioni che avrebbero gettato fango su Prodi, D'Alema, Fassino, il primo cittadino della Capitale e quella che era stata la sua segretaria quando era ministro dell'Agricoltura, Giovanna Romeo, "portarono avanti una trattativa, per verificare la rilevanza delle notizie e la convenienza dell'affare, anche nella prospettiva di utilizzare la documentazione nei confronti degli avversari politici", si legge nella richiesta di rinvio a giudizio dei truffatori firmata dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e dal sostituto Luca Tescaroli.

Poi però un giornalista di fiducia al quale Alemanno affidò la gestione della pratica scoprì che quelle 850 pagine che contenevano informazioni scottanti "sul coinvolgimento di alcune personalità politiche dell'allora maggioranza parlamentare e governativa nelle vicende Parmalat, Cirio, Bond-argentini, Unipol, Unicredit, Capitalia e Telecom-Serbia" non esistevano. Allora Alemanno decise di raccontare tutto alla polizia. Soltanto dopo aver capito che quel dossier era fasullo e che forse gli otto personaggi coi quali era, a vario titolo, venuto in contatto, erano degli impostori, mandò la Romeo dagli agenti della Digos a sporgere denuncia.

Due giorni fa, alla seconda udienza del processo per tentata truffa contro i finti 007, Alemanno avrebbe dovuto presentarsi per testimoniare come parte lesa. Invece il sindaco ha mancato l'appuntamento in procura per un "impegno improrogabile all'Anci". L'audizione è così rimandata al prossimo 28 novembre. Ma la testimonianza del primo cittadino sarà decisiva. Quando fu ascoltato dal pubblico ministero Luca Tescaroli, il 12 novembre del 2007, Alemanno così raccontò l'episodio. "Ho appreso dalla mia ex collaboratrice Giovanna Romeo che vi erano delle persone in possesso di importanti informazioni su uomini politici. Tali persone mi volevano incontrare. Ho incontrato queste persone nel mio ufficio ubicato in via Lucina e mi sono reso conto che c'era qualcosa che non andava. Per questo ho informato la questura di Roma". In realtà però Alemanno non avvertì immediatamente, subito dopo il primo incontro, la polizia. Malgrado i suoi dubbi e il sentore che qualcosa non andasse, incaricò il giornalista Gianpaolo Pellizzaro - "redattore della rivista "Area", una persona nei cui confronti ho fiducia", disse Alemanno ai giudici - di "rendersi conto meglio della situazione". E di verificare, come hanno accertato i magistrati romani - "se vi fossero notizie pregiudizievoli anche nei suoi confronti e di appartenenti alla sua coalizione".

L'incontro per fissare i termini dello scambio fu in un bar del quartiere Salario, a Roma. I finti agenti, con tesserini e placche metalliche del Ministero della Difesa e dell'Interno al seguito, il giornalista e l'ex segretaria di Alemanno definirono i termini degli accordi: 70 milioni di euro o dollari in cambio del dossier, costituito da documenti originali provenienti dai servizi segreti stranieri e da istituti bancari. Poi però "in ragione della mancata esibizione della documentazione da acquistare", l'affare saltò. E il giorno dopo la segretaria si presentò in questura.



http://www.repubblica.it/politica/2011/10/07/news/alemanno_dossier-22832724/

Bossi: “Legge elettorale e voto”. Da Napolitano ai frondisti, prove tecniche del dopo B.





Si moltiplicano i segnali di una fine anticipata del governo presieduto dal Cavaliere. Il leader leghista teme gli elettori "spennati", i dissidenti del Pdl avrebbero già messo giù un documento anti-Silvio. E il presidente della Repubblica evoca il precedente di un esecutivo "di tregua". Frattini: dobbiamo aiutare il premier "a comprendere qual è il momento per fare una battuta e quale no".
E’ sempre più in ribasso il borsino del governo Berlusconi e si moltiplicano i segnali di una fine prematura. Oggi la Padania sintetizza nel titolo di prima pagina la road map di Umberto Bossi: “Riforme, legge elettorale e voto”. Perché, ribadisce il segretario della Lega, “il 2013 è troppo lontano per andare le urne”. Poi ci sono i frondisti interni al Pdl, raccolti intorno agli ex democristiani Caudio Scajola e Beppe Pisanu, che non si limitano a pranzi e cene in buoni ristoranti rimani, ma avrebbero già preparato una bozza di documento che chiede a Berlusconi di farsi da parte per il bene del Paese. Tutto questo dopo che ieri il presidente della Repubblica ha fatto un riferimento trasparente all’ipotesi di un governo di transizione, anzi di “tregua”, come quello presieduto da Giuseppe Pella nel 1953.

E certo anche i fedelissimi di Berlusconi qualche problema cominciano a porselo. Basta ascoltare le parole del ministero degli Esteri Franco Frattini, intervenuto a Radioanch’io, a proposito del “caso” Forza Gnocca: “Il presidente del consiglio ha una tendenza irrestibile a fare battute. Molti di noi dovrebbero cercare di aiutarlo a comprendere quale è il momento per fare una battuta e quale no”. Una tutela di cui di solito i capi di governo non hanno bisogno.

Neppure l’altro fedelissimo – sia pur per convenienza – Umberto Bossi è disposto a dare ulteriore credito al Cavaliere. Per il senatùr è “meglio votare prima”, riporta oggi la Padania. “E’ obiettivamente complicato arrivare al 2013. E’ difficile spennare la gente e poi farsi votare: meglio votare prima. Io l’ho detto a Berlusconi”. Prima di sciogliere la compagine, però, Bossi vorrebbe vedere approvato un piano per lo sviluppo e la legge elettorale voluta dai referendari.

All’interno del Pdl, i parlamentari i dissidenti sono diverse decine: le stime arrivano a circa 45. L’area coaugulata intorno a Scajola e Pisanu, scrive oggi l’Unità, avrebbe già messo nero su bianco la bozza di un appello “al senso di responsabilità”, con l’obiettivo di “una transizione guidata”. Insomma, un governo alternativo da far nascere dentro il Palazzo, perché “una campagna elettorale in questo momento sarebbe un disastro per l’Italia” , e quindi “bisogna scongiurare le elezioni antricipate”.

Su questi sommovimenti cala la benedizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che parlando ieri a Biella ha ripescato la storia di Giuseppe Pella: “Nel 1953 fu incaricato di formare il governo dal presidente Einaudi. C’era bisogno di un governo di tregua e il suo fu un tentativo importante e positivo, non durò molto ma servì”. Pella divenne premier dopo il fallimento dell’ultimo esecutivo De Gasperi, che non ottenne la fiducia. Il suo “governo d’affari” o “amministrativo”, messo in campo soltanto per approvare il bilancio, fu a tutti gli effetti l’antenato di quello che oggi si chiama “governo tecnico”.

E il diretto interssato? Silvio Berlusconi non pare intenzionato a farsi da parte di sua spontanea volontà. Lo ribadisce in un messaggio ai promotori della Libertà, nel quale rispolvera il refrain secondo il quale per lui restare al governo è “un sacrificio”, ma lo fa perché una crisi sarebbe “l’ultima cosa di cui l’Italia in questo momento ha bisogno”. Le elezioni anticipate -aggiunge- “non servirebbero a nulla”.

Stamattina Berlusconi ha lasciato Roma per andare a Mosca: è il compleanno di Vladimir Putin.


La democrazia un tanto al chilo e il dopo B.





Mala tempora currunt. Verso una nuova diaspora? A destra non si è al “si salvi chi può”, non ancora almeno, ma, da tempo, è tutto un contarsi, un valutare chi sta con chi, un rimescolamento di correnti, fondazioni, uno schierarsi di cordate che fanno capo a questo o a quel maggiorente del PDL.
Si fa fatica a leggere, interpretare e persino seguire tutti gli spostamenti di truppe parlamentari. Ovunque regna la confusione: saltano antichi sodalizi, consorterie che parevano consolidate e se ne creano di nuove. Qualcunoinevitabilmente, guarda anche fuori dal perimetro del centrodestra, all’UDC o al FLI, ma magari anche a Montezemolo. Altri paventano il rischio balcanizzazione del partitoIn attesa del "liberi tutti" dell’eventuale caduta anticipata del Governo. Caduta che, peraltro, stando ai più recenti sondaggi, è auspicata, ormai, dalla stragrande maggioranza degli italiani. Gli stessi sondaggi attribuiscono al “partito degli onesti” di Alfano e alla Lega meno dei voti raccolti dal solo PDL nel 2008 al centrosinistra un vantaggio tra i 10 e i 13 punti. Il Movimento 5 Stelle di Grillo è poi stimato attorno al 4% e, verosimilmente, toglierà ai Verdi il voto di protesta che non andrà ad ingrossare le fila crescenti dell’astensionismo mentre l’ormai certa discesa di Montezemolo drenerà molte consensi tra le partite Iva.
Molti sono gli asti e i risentimenti, specie tra i fedelissimi, i forzitalioti della prima ora, che vedono gli ultimi arrivati, quell’accozzaglia di partitini a carattere familiare, trattare il loro sostegno all’esecutivo in cambio poltrone d’oro. Ma chi passa dal governo, quale che sia, all’opposizione fa comunque una figura decisamente migliore di chi fa il percorso inverso. E per perdere una reputazione, si sa, bisogna averla. Il tempismo però appare almeno dubbio: la salute della maggioranza non è infatti delle migliori e il Governo appare in affanno, a fine corsa. Chi staccherà la spina, ci si chiede, se, come pare, i leghisti, in puro stile democristiano, si accorderanno, al solito, a tavola? Da più parti si guarda a Pisanu, tra i pochi nel PDL ad avere quel tanto di autonomia sufficiente ad esser messo ai margini nel sistema di potere di B. Non si sa se il vecchio democristiano abbia i numeri per far cadere il Governo, ma è certo che una pattuglia di parlamentari della maggioranza guarda a lui per aprire la nuova fase di transizione. Un altro della vecchia guardia, Martino, berlusconiano della prima ora e liberale (una contraddizione in termini), è dato in rotta col partito. Altri parlamentari del Sud potrebbero ricollocarsi nei partiti autonomisti del Mezzogiorno, l’MPA diLombardo, a rischio rinvio a giudizio per reati associativi legati alla Mafia, o Forza del Sud, di quelMicciché già coinvolto in una brutta storia di cocaina. Entrambi hanno scoperto un po’ troppo tardi quanto il Governo penalizzi quotidianamente il Meridione per essere realmente credibili.
Tremonti, forte del sostegno leghista, trama per la successione da un pezzo, ma più Berlusconi e Bossi si parlano direttamente, più i suoi margini di manovra si restringono e le sue possibilità diminuiscono. Come se non bastasse, l’attivismo di Montezemolo aumenta la paranoia di B.almeno quanto il Ministro del Tesoro che, amato tra i leghisti, più che nel PDL per la sua politica violentemente antimeridionaleha unappeal nazionale piuttosto debole. E si rassegni il borioso fiscalista di Sondrio: sarà ricordato dai posteri esclusivamente per gli innumerevoli condoni, vera marca caratterizzante la sua azione in economia. Scajola poi, abbaia ma non può mordere, compromesso com’è per via di quella vera e propria carognata di cui è stato vittima. Mi riferisco chiaramente alla casa compratagli a sua insaputa. Ma all’immagine del reuccio di Imperia ha nuociuto persino di più il frullatore di cui gli si è fatto omaggio. A volte uno si immagina chissà che cosa succeda nelle alte sfere e la pochezza che emerge dalla cronaca giudiziaria può essere una vera delusione. Chi, per puntellare una maggioranza che traballa vistosamente, aveva puntato sul mancato raggiungimento del numero delle firme richiesto per il referendum abrogativo del Porcellum, è rimasto deluso. Anzi, sorpreso dalla mobilitazione che ha portato a più del doppio del numero di firme necessarie.
Ma l’asse B&B, nonostante le molte fibrillazioni, sembra tutto sommato ancora tenere. Quanto all’annunciata democratizzazione del PDL, con la nomina di Alfano, decisa con un motu proprio da B. e che il partito ha semplicemente ratificato, se queste sono le premesse, siamo alla farsa. Le primarie, i congressi, sembrano più funzionali a contare il peso delle correnti che a eleggere un leader. B. non vuole nessuno che possa metterlo in ombra, Formigoni se ne faccia una ragione. Da qui, credo, potrebbero venire sorprese per la maggioranza, dal presidente della Lombardia che, forte dell’appoggio di CL, da tempo non fa mistero delle sue ambizioni romane. La poltrona che occupa, per quanto valga anche più di un ministero di primo piano, è chiaro, ormai non gli basta più. E solo il veto di B. ne ha impedito la nomina a ministro. Se le sue ambizioni continueranno ad essere frustrate, lo strappo non è da escludersi. 
L'edificio del potere berlusconiano sembra poter crollare da un momento all'altro e ognuno cerca riparo come e dove può. Si ricordano i precedenti e non sono solo i transfughi, i pasdaran oggi in maggioranza, ad aver conosciuto la diaspora democristiana o socialista post Mani Pulite. Si pensi all’ex craxianoCicchitto. E’ naturale che siano terrorizzati dal post B. L’uomo da cui, fino a ieri aspettano una rielezione, vista l’aria che tira, appare sempre meno in grado di garantirla. Il capo poi, avendo, di suo, ben altro di cui preoccuparsi, non riesce a guardare oltre il piccolo cabotaggio quotidiano, la navigazione a vista. L’annunciata frustrata all’economia, il piano Sud o la riforma fiscale, per chi deve contrattare giorno per giorno il sostegno di questa specie di maggioranza, non sono che chiacchiere inutili; anzi utili ai famigli, alla stampa di regime, per distogliere l’attenzione su questo osceno mercato, sul borsino del parlamentare. Per non parlare dello stato penoso dell’economia.
Gli scomposti tentativi con cui questi atei devoti cercano di rispondere ai desiderata delle gerarchie ecclesiastiche, stante la freddezza di un Vaticano che non poteva più far finta di niente, non sono che l'ennesimo segnale di debolezza. Come mostrano le intercettazioni pubblicate sulla stampa, il clima è da Basso Impero, con favorite o lenoni che, in cambio di favori sessuali, ambiscono a posti in Parlamento o comparsate in televisione. Indifferentemente. O come nel caso Tarantini, appalti nel sottobosco della politica. Protezione civile, Finmeccanica e chi più ne ha più ne metta. Ma, al di là della giusta indignazione del contribuente costretto a pagare i vizi del Capo, quello che fa davvero tristezza non è nemmeno tanto l’uomo che non riesce ad avere una donna senza pagarla in qualche modo quanto l’immagine di un anziano, solo, che mostra a questo harem di giovani questuanti nientemeno che le immagini dei vertici internazionali. Alle quelle stesse donne che poi, in privato, se non ottengono quanto si aspettano, lo chiamano vecchio culo flaccido o peggio. In un paese normale, il Primo ministro si sarebbe dimesso da tempo. Ma, si sa, l’Italia non è un paese normale e B. deve la sua impunità all’immunità garantitagli dal suo status. Il grande incantatore tiene l’Italia in ostaggio da ormai quasi un ventennio e, avendo da tempo deciso di difendersi dalle accuse non in tribunale, ma in Parlamento, impone al nostro sciagurato paese la sua agenda, le sue priorità.
Ma, ci si chiede, chi raccoglierà l’eredità del nostro seducente e sedicente playboy? Chi sarà la zattera, la scialuppa di salvataggio che salverà i profughi del berlusconismo, i boat people alla deriva? Difficile pensare alla sopravvivenza del PDL tale quale oltre il suo fondatore. B. ha fatto il vuoto attorno a sé, uno statista prepara uomini validi che possano succedergli. Vanaglorioso all’ennesima potenza, B. si circonda di una claque plaudente di yesmen, meglio se non dotati di opinioni proprie, che alimenti ulteriormente l’ipertrofia del suo già smisurato ego. L’unanimità, quell’essere d’accordo con lui a prescindere, ancor prima di conoscerne l’opinione, da tempo, anche nell’esercito dei cloni, è un lontano ricordo. Inimmaginabile solo ieri per un partito verticistico, padronale e il più antidemocratico che si possa immaginare, con il Sultano che graziosamente concede potere, cariche e onori in base ai suoi umori. Quando va bene. Quando, in altri termini, non sono altri gli umori, corporali questa volta, alle base delle nomine.
Se il Governo dovesse sopravvivere alla buriana e le primarie davvero tenersi, già questa sarebbe una novità assoluta: la dimostrazione delle crescenti difficoltà di B. di tenere unita la sua creatura politica con la sua sola volontà. E nonostante le prebende che distribuisce a piene mani; una rivoluzione di per se stessa, che segnerebbe, anche plasticamente, la fine di un’epoca. Mentre l’Italia si appresta a voltare, finalmente, la più nera della nostra storia repubblicana, sarebbe meglio se i gattopardi e i collaborazionisti avessero almeno il buon gusto di stare fermi come minimo un giro, prima di rimettersi al giudizio degli elettori. Che ne valuteranno l’operato. Magari, questa volta, senza listini bloccati e con le preferenze.

Per l’Italia a bordo di una Cinquecento Obiettivo: capire se restare o fuggire. - di Eleonora Bianchini




Il documentario "Italy, love it or leave it" racconta il nostro paese. E si domanda se valga ancora la pena restare al di là del bersluconismo. Se il nostro paese produca ancora spinte vitali e di crescita
Un viaggio a bordo di una Fiat Cinquecento rosso fiammante per capire se è meglio andarsene o rimanere nel paese affetto da berlusconismo e carenza di lavoro. Gustav Hofer, altoatesino, eLuca Ragazzi, romano, si sono dati sei mesi di tempo per deciderlo e nel docu-trip “Italy, Love it or leave it” hanno attraversato l’Italia in macchina, per scoprire se valesse la pena lasciare Roma, dove vivono insieme da 12 anni, per trasferirsi a Berlino. Un film che nelle settimane scorse ha fatto incetta di riconoscimenti al Milano Film Festival e che la prossima settimana sarà al festival di Rio de Janeiro, mentre il trailer su YouTube e Vimeo in due settimane è stato visto oltre 25mila volte.
“Volevamo presentare un paese vivo e appassionato, diverso da quello dei farabutti che infestano la politica”, spiega Luca. “E’ importante dare un messaggio di positività e speranza ai giovani, visto che quelli della nostra età, sui quarant’anni, sono spacciati”. La loro generazione degli ‘anta’ infatti, secondo i due autori, è ormai fuori dai giochi: oppressa dai baroni che non lasciano la poltrona, non avranno mai accesso al potere e a un vero riscatto. “Questo paese è un gerontocomio”, prosegue il regista. “Negli ultimi tre anni abbiamo visto tanti nostri amici lasciare l’Italia. Alcuni sono andati a Londra, altri in Nuova Zelanda e Germania. Oggi però, Berlusconi è al tramonto e le cose stanno cambiando. Certo, questo non significa la fine del berlusconismo perché cambiare cultura e mentalità richiede tempo. Per questo abbiamo voluto raccontare l’Italia che normalmente non viene rappresentata. Né al Tg1 né nelle fiction”.

Luca e Gustav, già registi del documentario sui DICO “Improvvisamente l’inverno scorso”, iniziano il loro viaggio alla Fiat di Settimo Torinese, con gli operai che vivono con mille euro al mese e il mutuo da pagare. Poi incontrano gli ex dipendenti oggi disoccupati e in cassa integrazione della Bialetti, brand del ‘made in Italy’, che ha deciso di delocalizzare tutta la produzione in Romania. Con Carlo Petrini di SlowFood smontano il luogo comune della cucina italiana, che “non è la migliore del mondo”, e scendono fino a Rosarno per documentare le condizioni di sfruttamento in cui versano gli immigrati. Eppure a questi squarci drammatici drammi fanno da contraltare gli imprenditori che lottano in Calabria e sfidano la ‘ndrangheta, la società civile che denuncia l’abusivismo edilizio ed è impegnata nell’antimafia. E oltre a questi segnali di reazione, i due registi intravedono negli avvenimenti politici degli ultimi mesi la volontà degli italiani di voltar pagina.

“La vittoria di Pisapia e De Magistris è stata un segnale di forte cambiamento dal basso, insieme alla valanga di sì per il referendum e alla manifestazione di ‘Se non ora, quando?’”, osserva Luca. “Certo, ci sono problemi strutturali. L’affitto a Berlino costa un terzo rispetto a Roma, siamo il paese europeo con meno laureati e un italiano su quattro è a rischio povertà”, osserva. “Eppure tanti dei nostri amici che sono partiti, all’inizio erano entusiasti delle metro che circolavano di notte e dei sussidi statali. Poi hanno affievolito l’energia iniziale”. Complice un sentimento di malinconia legato al calore umano, agli amici e alla cultura che potevano ritrovare solo in Italia.

“Ho vissuto tra Roma e New York per cinque anni – conclude Luca – . Vivevo bene dal punto di vista economico, ma sentivo che mancava la convivialità italiana”. Per Gustav è stato lo stesso: ha trascorso gli anni dell’università tra Vienna e Londra, poi si è trasferito nella Capitale per scrivere la tesi ed è rimasto. Vivere in Italia oggi non è facile secondo i due registi, ma il cambiamento è alle porte. E per averlo bisogna reagire: “Quello che i giovani devono fare è smettere di sottostare alle cattive abitudini imposte da chi vuole ancora rimanere al comando. Bisogna dire no al lavoro gratuito, rifiutarsi di firmare a nome di un professore un articolo scritto di proprio pugno. Basta farsi fottere da questa classe di vecchi al potere”. Messaggio per i trentenni: visto che dal basso le cose stanno cambiando, “non lasciate il paese o il vostro posto ve lo occuperà chi volete combattere”.