martedì 17 gennaio 2012

La telefonata tra il comandante Schettino della Costa Concordia e la Capitaneria di Porto.




GROSSETO - Il comandante Francesco Schettino ha risposto alle domande del gip durante l'udienza di convalida del fermo in corso al Tribunale di Grosseto. La procura ha chiesto che la misura cautelare venga confermata. Secondo i pm, insomma, il comandante della Costa Concordia deve restare in carcere. La decisione ora spetta al giudice per le indagini preliminari Valeria Montesarchio.


«Ero io al comando della nave» al momento dell'impatto, ha dichiarato il comandante durante l'interrogatorio, durato circa tre ore. L'affermazione di Schettino coinciderebbe dunque con uno dei primi accertamenti investigativi, secondo i quali fu il comandante a decidere la rotta da seguire nei pressi dell'Isola del Giglio.


Indagato. «Per ora gli indagati sono due, il comandante della nave Francesco Schettino, che è in stato di fermo, e il primo ufficiale in plancia Ciro Ambrosio, denunciato in stato di libertà. Valuteremo eventualmente le posizioni di altre persone dopo l'udienza di convalida prevista per Schettino», ha dichiarato ieri il procuratore capo di Grosseto, Francesco Verusio. Schettino, ha aggiunto, «rischia fino a 15 anni di carcere», e «al momento le accuse sono omicidio colposo plurimo, naufragio e abbandono di nave».


Le guardie del carcere di Grosseto hanno l'ordine di controllare spesso come sta Schettino. Non ha manifestato intenzioni sucide, ma è considerato un detenuto a rischio. Il comandante della nave fa i conti con il carico di accuse che gli sono piovute addosso: la responsabilità della sciagura, di quei morti che con l'andare delle ore diventano sempre di più. Il suo avvocato lo ha visto «affranto, costernato, addolorato» e «fortemente turbato».


Schettino è in cella con altri due detenuti. Per lui non è stato disposto il massimo livello di sorveglianza - quello "a vista", con una guardia che 24 ore su 24 lo tiene sotto controllo - ma quello appena un gradino sotto. E ha già ricevuto le visite dello psicologo. Dal penitenziario spiegano che quel tipo di assistenza è una prassi per i neofiti del carcere. Per Schettino, però, «è necessaria una particolare attenzione - ha sottolineato il provveditore toscano all'Amministrazione carceraria, Maria Pia Giuffrida - perchè sta ovviamente attraversando un periodo delicatissimo».


«Tranquillo». Chi ha avuto modo di vedere in carcere il comandante - che ancora non ha avuto colloqui con i familiari - dice che all'apparenza è tranquillo, che non si lascia andare alla disperazione, alle imprecazioni, al pianto. Secondo il suo legale, l'avvocato Bruno Leporatti, «è confortato dalla consapevolezza di aver mantenuto, in quei frangenti, la lucidità necessaria per attuare una difficile manovra di emergenza che, conducendo la nave su un basso fondale, ha di fatto salvato la vita di tante persone». Manovra che in base alle indagini della Capitaneria di porto sarebbe stata invece frutto del caso. Secondo gli investigatori, infatti, la nave, una volta speronato lo scoglio, ha imbarcato acqua diventando ingovernabile. 


«Cosa vuole fare, vuole andare a casa?». Lo domanda con voce alterata l'ufficiale della Guardia costiera di Livorno Gregorio De Falco, al telefono con il comandante Francesco Schettino. La chiamata, il cui audio è stato diffuso dal Corriere Fiorentino, è dell'1,46 di sabato mattina ed è una delle chiamate sequestrate dalla Procura, con il comandante che si lascia scappare anche un «abbiamo abbandonato la nave», prima di ritrattare. E quando la Capitaneria dice che ci sono «già dei cadaveri» Schettino a quel punto chiede «Quanti?». E l'ufficiale: «Deve dirmelo lei!». 


«Sono stato catapultato in acqua». In un altro passaggio dell'audio della conversazione registrata la sera del naufragio tra l'ufficiale della Guardia Costiera e Schettino, quest'ultimo risponde al primo che lo accusava di aver abbandonato la nave: «Non ho abbandonato nessuna nave, siamo stati catapultati in acqua». L'ufficiale risponde: «Va bene, verificheremo successivamente come sono andate le cose...».


Passera: clamoroso errore umano. Il naufragio della Costa Concordia è «un caso drammatico clamoroso errore umano o quantomeno di non rispetto di policy e regole», ha detto il ministro dello Sviluppo economico e delle Infrastrutture e Trasporti, Corrado Passera, in audizione del Senato, commentando la tragedia.


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Precisazioni.



Noi prostitute teniamo a precisare che i politici non sono figli nostri.


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Vignette.



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CLASS ACTION CONTRO BERLUSCONI, LUNGHE CODE PER FIRMARE.


Gli Italiani chiedono i danni all'ex Premier.



Milano – Alle 15 di oggi si sono aperti i banchetti per la raccolta di firme. Lo scopo di tale raccolta è una class action contro Silvio Berlusconi, ritenuto responsabile di aver danneggiato l’Italia. A lanciare l’iniziativa Radio popolare e la rivista Valori, con il sostegno di Federconsumatori. Le accuse mosse al Cavaliere sono: l’assenza di una politica economica, la mancanza di credibilità sulla scena internazionale e l’aver anteposto gli interessi personali a quelli della Nazione. Traffico bloccato dal Vigorelli, dalla Stazione Centrale e dall’universita’ Bocconi, lunghe code ai banchetti per apporre la propria firma. Gli Italiani hanno deciso di chiedere i danni all’ex Premier e con gli interessi.

Scalfarendum. - di Marco Travaglio







Noi stimiamo Eugenio Scalfari, anche quando ci chiama “editorialisti qualunquisti, demagoghi” con “un disperato bisogno di ‘audience’ e quindi di avere sempre e comunque un nemico sul quale sparare. Prima avevano Berlusconi, adesso Monti e Napolitano. E anche il Pd”. Gradiremmo sapere da Scalfari quando mai abbiamo “sparato su Monti”, ma lo stimiamo lo stesso. E, proprio perché lo stimiamo, ci ha meravigliato leggere domenica su Repubblica queste sue parole: “I referendum elettorali andrebbero esclusi come lo sono quelli relativi ai trattati internazionali e alle leggi di imposta”. Ohibò, ci siamo detti: vuoi vedere che Scalfari la pensava così già vent’anni fa per gli altri due referendum elettorali, quelli promossi e vinti da Mario Segni il 9 giugno 1991 per la preferenza unica e il 18 aprile 1993 per l’uninominale al Senato? E invece, doppio ohibò: lo Scalfari di allora non andava proprio d’accordo con lo Scalfari di oggi. Anzi li sponsorizzò entrambi con gran trasporto contro l’odiato Caf (Craxi-Andreotti-Forlani). Nel ’91 cominciò attaccando (anzi, sparando su) Craxi che voleva il referendum per il presidenzialismo e sabotava quello elettorale: “Proprio quella parte che reclama a gran voce un referendum non previsto dalla Costituzione fa vibrata campagna contro la celebrazione di un referendum che la Costituzione invece prevede e che la Corte costituzionale ha dichiarato legittimo e ammissibile… Di una cosa c’è urgente bisogno in questo paese: di una nuova legge elettorale che dia alla maggioranza il diritto di governare e all’opposizione la possibilità di subentrarle… Questa è la Riforma. Il resto si chiama demagogia… Per bloccarla si ricorre alla gazzarra, al veto e alla minaccia di elezioni anticipate. E si usano le istituzioni contro le istituzioni” (la Repubblica, 26-5-‘91). Poi il referendum fu vinto e Scalfari, invece di proporne l’abolizione, esultò: “Questo 10 giugno è un giorno di festa della democrazia repubblicana. Il risultato… è stato ottenuto dal popolo, non porta l’etichetta di nessun partito, non è stato fiancheggiato da nessuna delle grandi reti televisive anzi è stato ignorato e trattato come una fastidiosa perdita di tempo. È un grande fatto di democrazia… Il popolo si è riappropriato della politica… Questo è il fatto nuovo, al quale siamo lieti d’aver contribuito… 30 milioni di elettori… e 27 milioni di sì… Non saranno gli Azzeccagarbugli insediati nei vari palazzi a poterne diminuire la valenza politica. C’era un quesito referendario cui rispondere: riguardava la riforma della legge elettorale della quale i partiti discettano da anni senza cavare un ragno dal buco, paralizzandosi con continui veti incrociati. I promotori dei referendum ne avevano presentati tre, ben altrimenti efficaci se fossero stati messi in votazione. Essi avrebbero dato, se approvati, una spinta robusta verso una legge maggioritaria fondata su collegi uninominali, dove è più stretto il rapporto tra elettori ed eletti… La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili due di quei tre referendum e ne ha lasciato in piedi uno solo; ma il popolo ha molta più intelligenza e saggezza di quanto i finti democratici non gli attribuiscano: ha capito la posta in gioco e ha deciso di conseguenza… La grande maggioranza dei cittadini vuole cambiare la legge elettorale in senso maggioritario e uninominale… vuole decidere questi problemi da sola, visto che il Parlamento è paralizzato dalla partitocrazia. Questo è il voto che sale dal popolo sovrano” (11-6-‘91). Ahiahiahi, avete capito bene: Scalfari criticava la Consulta che aveva bocciato due referendum elettorali su tre e diceva che, in materia elettorale, deve decidere il popolo e non il Parlamento. Infatti passava subito a sponsorizzare il referendum fissato per il ‘93. E auspicava che i partiti promotori dessero vita a una Lega Nazionale (“il partito che non c’è”) alle elezioni politiche del ’92.
Questa maggioranza è quella che pochi mesi fa votò il referendum di Segni contro l’espresso parere di Craxi e di Bossi… Ma bisogna che si manifesti e si faccia sentire, che si organizzi e si presenti al corpo elettorale. Bisogna insomma che nasca una Lega nazionale con un programma di riforme” (1-12-‘91). “Una grande forza trasversale, come quella che ha vinto il referendum del 9 giugno e ha già dato un milione di firme per i referendum del ’93” (5-1-‘92). Poi Scalfari avvertì la Consulta di guardarsi bene dal bocciare il referendum: “Può darsi che gli apparati riescano a bloccare la riforma… La scadenza referendaria è ormai alle porte, sempre che la Corte costituzionale non blocchi il referendum. Tutto è ancora possibile, ma sarebbe assai grave perché una dose supplementare di rabbia verrebbe inoculata nella cittadinanza. Speriamo vivamente che il Parlamento deliberi correttamente o che la Corte proclami il referendum. Se entrambe queste ipotesi fossero frustrate, la democrazia avrebbe perso una battaglia campale” (31-12-‘92). Ahiahiahi, par di leggere gli editorialisti demagoghi di oggi: se la Corte boccia il referendum è una sconfitta per la democrazia. “Il referendum del 18 aprile segnerà il punto di svolta e tanto più numerosi saranno i ‘sì’ tanto più netta sarà la condanna e il taglio nel passato. Bisognerà poi fare la legge elettorale per la Camera… ma avremo comunque profondamente riformato il metodo di elezione del Senato e reso manifesta la volontà popolare… Per questo bisogna smascherare le insidiose manovre in corso che tendono… all’affossamento del referendum e alle elezioni anticipate con la vecchia legge proporzionale” (14-3-‘93). Poi l’appello finale: ”Fate attenzione, cittadini elettori: dal referendum di domani nascerà direttamente, dal vostro ’sì’, la nuova legge elettorale per il Senato. Nascerà direttamente dalle urne così come il 2 giugno ‘46 nacque la Repubblica… Avete già delegato troppe volte il vostro potere sovrano, ma questa volta non fatelo poiché sarebbe fatale alle sorti di un paese già molto traballante… Qui non è in gioco la sorte dei partiti; qui è in gioco un sistema che sarà poi la regola dei nostri comportamenti politici per gli anni a venire. Perciò Repubblica raccomanda ai suoi lettori di votare ‘sì’” (17-4-‘93). Il 18 aprile fu un nuovo plebiscito e Scalfari giustamente lo cavalcò con un filino di enfasi, neppure sfiorato dall’idea di abolire i referendum elettorali: “È stata una marcia trionfale… Il paese ha ritrovato in un voto quasi plebiscitario le ragioni della sua unità; il ‘sì’ ha superato tutti gli steccati, geografici, sociali e di fedeltà ai partiti; esso è diventato da ieri l’elemento fondante d’una nuova nazione, la fonte di legittimità d’una democrazia che aveva visto crollare quasi tutti i suoi ancoraggi ideologici e politici. Il popolo è saggio, sa capire e decodificare anche problemi apparentemente astrusi, bada al sodo, semplifica non per superficialità ma per profondità di giudizio… Il popolo voleva voltare pagina sugli ultimi vent’anni di malcostume, degrado, inefficienza, ruberie… Esprimendo questo voto, che configura una vera e propria legge per il Senato e indica nettamente l’orientamento per la Camera, essi hanno votato ancora una volta, come già avevano fatto il 9 giugno ‘91, per la liquidazione della vecchia nomenklatura e del regime partitocratico. L’uninominale maggioritario imporrà nuovi soggetti politici… e un rapporto diretto tra elettori ed eletti. Indicazioni cogenti, che non potranno essere disattese dal Parlamento” (20-4-‘93). Chi l’avrebbe mai detto che 19 anni dopo lo stesso Scalfari avrebbe chiesto di abrogare i referendum elettorali, per appaltare la materia alle nomenklature del regime partitocratico. Qualche malpensante potrebbe insinuare che allora i referendum facessero comodo contro il Caf e Cossiga, mentre oggi disturberebbero Napolitano e Monti. Ma noi che stimiamo Scalfari non vogliamo nemmeno pensarci. Certo non vorremmo che Scalfari-2 sparasse su Scalfari-1 dandogli dell’“editorialista qualunquista e demagogo con un disperato bisogno di ‘audience’ e quindi di un nemico su cui sparare sempre e comunque”. Questo no, sarebbe troppo.
di Marco Travaglio,  IFQ

lunedì 16 gennaio 2012

Si è dimesso il sindaco Cammarata "L'ho fatto per amore della città". - di SARA SCARAFIA




Il sindaco di Palermo, Diego Cammarata, si è dimesso dalla carica di primo cittadino dopo dieci anni di governo. Adesso la Regione nominerà un commissario che amministrerà la città fino alle elezioni di primavera. "Lombardo è stato ostile a Palermo, adesso dovrà assumersene la responsabilità". Smentito un suo ingresso in Mediaset.


Diego Cammarata si è dimesso dalla carica di sindaco di Palermo. Lo ha annunciato lo stesso primo cittadino nel corso di una conferenza stampa a Villa Niscemi. Si chiude così, dopo dieci anni, l'avventura dell'esponente del Pdl a Palazzo delle Aquile: "Mi dimetto per amore della città - ha detto il sindaco - mi sarei dimesso il 2 gennaio ma non ho potuto per ragioni tecniche, volevo essere sicuro che il Comune non avesse sforato il patto di stabilità. Ho avuto tanti momenti di paura per l'Amia, per la Gesip".

Il commiato del sindaco più impopolare"Il mio ruolo, una missione"

Adesso si profila l'arrivo di un commissario nominato dal presidente della Regione che amministrerà la città fino alle elezioni di primavera. Intanto Cammarata è andato all'attacco proprio del presidente della Regione: "Mi sono dimesso perché siamo in campagna elettorale e Lombardo che non ha mai rispettato gli accordi con il Comune potrebbe essere ancora più ostile". 

Diego Cammarata ha spiegato che prima di presentare le  dimissioni da sindaco di Palermo si è "confrontato e confortato con i dirigenti del Pdl e primo fra tutti con Berlusconi". Come da regolamento, Cammarata adesso rassegnerà il mandato nella mani del segretario generale del comune di Palermo. Non si presenterà invece davanti al Consiglio comunale. "E perché dovrei farlo? Reputo vergognoso l'atteggiamento avuto negli ultimi tempi", ha affermato.

Lombardo: "Il peggiore sindaco della storia di Palermo"
Il sindaco ha parlato anche del suo futuro: "Non ho nessuna poltrona pronta, torno a fare l'avvocato e mi occuperò della mia famiglia". Cammarata ha smentito un suo ingresso in Mediaset, ventilato nei giorni scorsi: "Ipotesi di fantasia".

Uscendo di scena, Cammarata non ha risparmiato una stilettata a Lombardo: "Il presidente della Regione Lombardo in questi anni non ha avuto nessuna attenzione per Palermo, figuratevi che atteggiamento potrebbe tenere nei prossimi mesi. Non intendo dare alibi a nessuno. Credo che una gestione commissariale costringerà la Regione ad assumersi piena responsabilità nei confronti di Palermo. Lombardo non lo ha fatto nel passato e con me sindaco non lo farebbe di certo nei prossimi mesi di campagna elettorale. Con una gestione commissariale e una maggioranza in consiglio comunale omogenea al governo regionale Lombardo dovrà fare quello che non ha mai fatto in questi anni, almeno spero".

Non sono mancate battute polemiche nei confronti del Consiglio comunale: "Tra le ragioni delle mie dimissioni c'è anche l'immobilismo del Consiglio comunale che da due anni è in mano al centrosinistra e ha prodotto solo gettoni di presenza per i consiglieri. Il Consiglio è stato vergognoso e l'atteggiamento sciagurato mi ha indignato".

Vado via, dice Cammarata, con la coscienza a posto: "Passo la mano con l'orgoglio di lasciare i conti in ordine e un bilancio strutturalmente sano. Ho chiesto alla ragioneria generale di predisporre un bilancio di fine mandato accompagnato da una relazione sullo stato delle nostre finanze - ha aggiunto - e ciò a scanso di equivoci e per evitare che qualcuno parli, o meglio straparli, in maniera irresponsabile di comune di Palermo sull'orlo del dissesto o di grave situazione di indebitamento". 

E su eventuali nuove avventure politiche ha aggiunto: "Vedremo, anche se non credo che la politica sia a tempo indeterminato". "Non mi sono mai sentito abbandonato dal mio partito, il Pdl. Anzi ho avuto al mio fianco Schifani, Alfano che mi sono stati sempre vicini nelle decisioni che ho preso nei momenti piu" difficili. Ringrazio Gianni Letta che ho martirizzato al telefono tante volte e soprattutto il presidente Berlusconi nei cui confronti non ci sono parole per poterlo ringraziare". 

Le reazioni. "Quella delle dimissioni da sindaco di Diego Cammarata è una notizia purtroppo tardiva che noi palermitani auspicavamo da troppo tempo", ha detto la deputata palermitana del Pd, Alessandra Siragusa, dopo le dimissioni del sindaco. "Cammarata ci consegna una città segnata da una grave crisi politica, finanziaria e amministrativa - ha aggiunto - . In questi dieci anni la sua amministrazione ha bruciato in maniera impropria e improvvida le risorse pubbliche, come emerso anche da inchieste giornalistiche e giudiziarie che lo hanno visto coinvolto a vario titolo. Una situazione insostenibile pagata a caro prezzo dei palermitani".

Crisi, dalla Sicilia parte la protesta del movimento dei forconi.


Cinque giorni di mobilitazione. Tir e trattori fermi sulle strade dell'isola. Una settimana di mobilitazione del movimento, alleati con i trasportatori. Per la terra che non produce reddito ma solo debito.

Il movimento dei forconi
Gli “indignati” di Sicilia hanno rispolverato un’icona di chi lavora la terra: il forcone. In Trinacria è diventato il simbolo di un movimento di agricoltori che vuol far sentire la propria voce. Quelli dei forconi sono assolutamente determinati. Perché non hanno più nulla da perdere. Le loro aziende agricole sono in default. Quello che producono non genera più profitto, è solo un costo. Arance e pomodori, grano e zucchine non hanno più valore. I prezzi al mercato ortofrutticolo sono alterati dalla globalizzazione, dalla grande distribuzione, da prodotti importati spacciati per locali. Un chilo di limoni ormai si vende a meno di 30 centesimi di euro. Trasportarlo su un tir che va al Nord costa più del doppio.

L’economia agricola, che nell’isola coinvolge un milione di persone, è al tracollo. La domanda dei “forconi” è semplice: che succede se in Sicilia l’agricoltura si ferma? Se la rabbia degli agricoltori si unisce a quella dei trasportatori? L’alleanza tra i forconi, i trattori e i tir forse stavolta farà la differenza. Gli autotrasportatori dell’Aias hanno aderito alla protesta e si fermeranno. La scommessa è quella di riuscire a trasformarsi in “una forza d’urto”. Cinque giorni di mobilitazione a partire da domani, lunedì 16 gennaio. In strada agricoltori, pastori, autotrasportatori, commercianti, pescatori, commercianti. Tutti insieme per chiedere la defiscalizzazione dei carburanti e dell’energia elettrica, l’utilizzo dei fondi europei per lo sviluppo per risolvere la crisi dell’agricoltura e il blocco delle procedure esecutive della Serit, l’agenzia siciliana di riscossione dei tributi.

“Occuperemo luoghi strategici e simbolici in tutta la regione: snodi autostradali, porti, raffinerie, aeroporti, banche e sedi della Serit”, annuncia Mariano Ferro, 52 anni, che ha smesso di coltivare ortaggi in serra ed è uno dei leader della protesta dei forconi. “Vogliamo scrivere una pagina nella storia della Sicilia. Siamo stanchi di false promesse. Della politica che non dà risposte. Vogliamo che la gente torni a manifestare la sua indignazione e la sua voglia di cambiamento. E che il governo di Palermo ci ascolti”. Ferro è di Avola, fino a qualche anno fa uno dei centri agricoli più ricchi della provincia di Siracusa. Per chi ha memoria anche luogo di una pagina triste, passata alla storia come i “fatti di Avola”: era il 2 dicembre del ’68, la polizia sparò su un blocco stradale di braccianti agricoli in sciopero, 48 feriti e due morti.

di Renata Storaci