Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
venerdì 30 marzo 2012
LA PISTA DEGLI UFO-Marco Travaglio-Il Fatto Q.-30/03/12
Le ultime autodifese di Lusi e Fede segnano una nuova svolta nell’inesauribile repertorio di alibi dei Vip coinvolti negli scandali. Fermo restando che a nessuno passa mai per la testa di dire “sono innocente, quella cosa non l’ho fatta, non è mai esistita”, ecco un breve prontuario di alibi prêt-à-por ter.
Così fan tutti. Un classico, già sperimentato con insuccesso da Craxi, Mastella e vari epigoni e i cascami di Prima Repubblica, ma anche da Moggi, ma ancora molto in voga per il suo innegabile fascino.
Funziona così: se ti accusano di un reato, tu non dire mai “non c’entro ”, tanto non ci crede nessuno: di’ che lo fanno anche gli altri. Dunque, se lo fanno in tanti, non è
reato .
A prescindere. È la linea B.. Mai entrare nel merito delle accuse né dei fatti accertati, ma spostare l’attenzione altrove: sull’orario dell’indagine, del processo, della requisitoria, della sentenza (sempre “a orologeria”); o sulle presunte idee o intenzioni o patologie del magistrato (comunista, giustizialista, matto, golpista). Alla peggio si rivendica il diritto di esser “giudicato dai miei pari” (che non esistono), o dopo la cessazione dalle cariche (campa cavallo), o
previa autorizzazione delle Camere (cioè mai), o meglio a non essere giudicati, punto. “Sono un cittadino più uguale degli altri perché ho avuto i voti” B.), “il premier non è primus inter pares, ma super pares ” (Pecorella), “le annotazioni del premier impongono l’immediata assoluzione” (Bonaiuti), “Io so’ io e voi nun siete un cazzo” (marchese Onofrio del Grillo).
Modica quantità. È la linea Romiti, che tentò di farsi assolvere perché i fondi neri sottratti ai bilanci della sua Fiat – 100 miliardi di lire o giù di lì – erano “irrilevanti” sui risultati di esercizio. Naturalmente fu condannato lo stesso, ma la sentenza fu poi revocata grazie alla legge B. che introdusse la modica quantità per i falsi in bilancio come per la droga: uso personale.
Eccessiva quantità. È la linea Bertolaso che, accusato di avere preso 50 mila euro da Anemone, dichiarò al Corriere: “Ma le pare che uno del mio livello si fa comprare per 50 mila euro?”. Non è sbagliata l’accusa, ma la tariffa.
Anche Pomicino, accusato per 3,5 miliardi di lire da Montedison, corresse Di Pietro, piccato: “Prego, dottore, i miliardi erano 5,5”. Guai a passare per un pezzente che si vende per un piatto di lenticchie.
Previti, beccato a inquinare le prove di Imi-Sir, si salvò dall’arresto alla Camera non per il fumus persecutionis, ma per l’arrostus delinquentonis: le prove a carico erano così tante e
gravi che lui, anche volendo, non poteva inquinarle tutte.
Stessa tecnica usa Dell’Utri, che fa amicizia con tutti i criminali che incontra, si fa intercettare, filmare e fotografare con loro, s’infila in ogni scandalo, compra all’asta i volantini Br, dice che la mafia non esiste. Tutto per poter poi dire, come l’avvocato interpretato da Alberto Sordi: “Il mio cliente ha la faccia da ladro. Ma nessuno, con la sua faccia da ladro, farebbe mai il ladro. Per rubare ci vuole la faccia onesta. Chiedo pertanto l’assoluzione perché la faccia non costituisce reato”. Nel film il cliente di Sordi finisce in galera. In Cassazione Dell’Utri trova un Pg e 5 giudici col “ragionevole dubbio”.
A mia insaputa. Inventato da Scajola per la casa pagatagli da Anemone senza dirgli niente, l’alibi è tosto dilagato da B. (credevo che Ruby fosse la nipote di Mubarak) a Malinconico (ferie pagate dalla cricca a sua insaputa), da Minzolini (usava la carta di credito Rai per cazzi suoi, ma pensava si potesse) a Rutelli (Lusi rubava all’insaputa della Margherita).
Cioè: non sono un delinquente, sono un idiota.
Al posto mio. Ed ecco l’ultima, decisiva svolta.
Lusi, beccato a spendere e spandere milioni tra hotel e ristoranti con la carta di credito della Margherita: “Qualcuno l’ha strisciata al posto mio”. Fede beccato in Svizzera mentre tenta di esportare 2,5 milioni in contanti in una valigetta: “Qualcuno è andato in Svizzera al posto mio per incastrarmi”.
Prossima mossa: gli Ufo.
https://www.facebook.com/photo.php?fbid=356664044371800&set=a.139700576068149.13581.139696202735253&type=1
giovedì 29 marzo 2012
Vogliono peggiorare il Porcellum. - di Paolo Flores d'Arcais
Il diavolo sta nei dettagli, e dunque non è detto che una nuova legge elettorale veda la luce in tempo per le prossime politiche. Ma intanto si sono messi d’accordo sulle linee fondamentali, e chiamarlo “inciucio” è perfino riduttivo. Bersani, Casini e – absit iniura verbis – Alfano esibivano l’aria palesemente e giustamente soddisfatta del gatto col sorcio in bocca. Peccato che la loro preda siano in questo caso gli elettori, una volta di più “cornuti e mazziati”. Perché sembrava impossibile, dopo la “Porcata” di calderoliana memoria, confermare il detto popolare che “al peggio non c’è mai fine”, e invece la nostra “banda dei tre” sembra intenzionata a riuscirci. Il modello elettorale delineato riesce a mettere insieme, in fatto di scippo ed espropriazione della volontà dei cittadini, il meglio (cioè il peggio) dei diversi sistemi esistenti.
Non è chiaro se i collegi elettorali (di ridotte dimensioni) saranno uninominali o meno. Se sì, col turno unico si fanno fuori d’emblée tutti i partiti tranne i due (o tre) più forti, e si sopprime nella culla ogni possibilità di nascita per forze nuove che vengano dalla società civile. Se saranno collegi che eleggono con il metodo D’Hondt 5-7 deputati, il meccanismo cancellerà di fatto liste che non prendano il 10 per cento o anche più. Inoltre, l’obbligo di indicare un candidato premier manterrà la personalizzazione della campagna elettorale, ma la mancanza di ogni vincolo di coalizione consentirà ai gerarchi dei (tre) partiti maggiori di decidere le alleanze dopo le elezioni, secondo opportunità e alla faccia delle promesse agli elettori. Che ovviamente continueranno a contare zero nella scelta dei candidati, e avranno la solita libera alternativa: “O questa minestra o saltare dalla finestra”.
L’aspetto più nauseabondo di questo patto monopolistico della “banda dei tre” è che le formule per consentire insieme sia un’ampia scelta agli elettori (il famoso “riavvicinamento” tra elettori ed eletti, che a ciance tutti predicano e spergiurano) sia la stabilità di governo per l’intera legislatura, ci sono, sono più d’una (sia di stampo proporzionale che maggioritario), sono ben note e sono facili da introdurre. Hanno il solo difetto che toglierebbero agli attuali cacicchi delle tre forze principali l’abnorme potere del Minosse dantesco che “giudica e manda secondo ch’avvinghia”: fare e disfare a proprio piacimento e nella certezza dell’inamovibilità (che poi è anche garanzia di impunità).
Se si sceglie il versante proporzionale, per la stabilità dei governi non c’è necessità di sbarramenti, basta la sfiducia costruttiva e il rischio che in caso di dimissioni senza alternativa il Parlamento va a casa. Il difetto resta però la scarsa rappresentatività dei partiti-macchina, grandi o piccoli che siano. C’è allora un sistema maggioritario che consente di soddisfare a tutte le virtuose richieste sia di rappresentatività che di stabilità: il maggioritario a doppio turno con primarie vincolanti, cioè incorporate nel sistema stesso. Tecnicamente se ne possono dare alcune varianti, la sostanza non muta: fin dal primo turno il cittadino si trova a scegliere fra coalizioni (dunque nessun opportunismo post-elettorale con gran tripudio di voltagabbana), ma lo fa votando uno dei molteplici candidati della coalizione, che saranno i candidati dei singoli partiti, ma anche degli outsider senza partito che abbiano raccolto un numero sufficiente di firme (l’obbligo di raccogliere tot firme dovrebbe valere anche per i candidati sponsorizzati dai partiti, sia chiaro: niente privilegi).
Facciamo un esempio: nella mia circoscrizione per il centrosinistra il Pd candida Bersani, il Sel Vendola, l’Idv Di Pietro, ma per fortuna un gruppo di cittadini con una petizione di grande esito costringe a candidarsi anche Andrea Camilleri, mentre dei “fighetti” rampichini raccolgono firme per Renzi. Finalmente potrei votare senza turarmi il naso, e con me una parte cospicua di quel 45 per cento di elettori che oggi dichiarano esplicitamente che – sic stantibus rebus – a votare non ci andranno più. Al secondo turno passerebbero le due coalizioni più votate, e per ciascuna di esse il più votato all’interno della coalizione.
Dato il carattere uninominale del voto, sarebbe altissima la probabilità che in Parlamento una delle coalizioni abbia la maggioranza assoluta. La stabilità del governo potrebbe essere rafforzata dalla clausola della sfiducia costruttiva, ma tale stabilità avverrebbe restituendo potere ai cittadini, non concentrandolo nelle mani di tre leader e dei loro amici e amici degli amici. Sia chiaro, una legge elettorale non produce miracoli. Se non si combatte l’illegalità, la prevaricazione di classe, il crescere a dismisura della diseguaglianza, anche con le primarie a vincere potranno essere i Toni Mafioso e Toni Corrotto di Ascanio Celestini. Un rinnovamento radicale, insomma, può essere figlio solo di tante lotte che mobilitino la società civile in tutti gli ambiti essenziali della vita pubblica.
Ma mentre la proposta di “riforma” elettorale della “banda dei tre” non farebbe che rafforzare il circolo vizioso di monopolio partitocratico – disaffezione dei cittadini – monopolio ancora più corrotto, una legge elettorale che garantisca l’irruzione permanente della società civile nella vita politica fin già dalla scelta dei candidati, aprirebbe degli spazi di rinnovamento e dunque anche di moralizzazione. Che la riduzione radicale dei parlamentari, il limite a due mandati, e altre misure di cui tante volte abbiamo parlato, amplificherebbero ancora.
http://temi.repubblica.it/micromega-online/vogliono-peggiorare-il-porcellum/
In serie A 2,6 miliardi di debiti
Solo 19 i club in attivo tra i professionisti. Il ministro Gnudi: numeri da fallimento.
Roma, 29 mar - Una fotografia impietosa che immortala la voragine del calcio italiano, con l'indebitamento della serie A salito fino a quota 2,6 miliardi di euro nel 2010-2011. Crescono i debiti, aumentano le perdite e cala soprattutto il valore della produzione. Colpa non solo dei trofei che non arrivano, ma soprattutto di un modello di business non piu' sostenibile perche' basato quasi esclusivamente sugli introiti dei diritti tv, che in serie A rappresentano il 55% dei ricavi di esercizio.
A scattare l'inquietante istantanea sul pallone professionistico italiano e' il "report calcio 2012", presentato nella sede dell'ABI dal centro studi della FIGC, Arel e Pricewaterhousecoopers, con numeri inequivocabili: l'indebitamento complessivo della serie A nel 2010-2011 e' salito del 14%, 2,6 miliardi di euro contro i 2,3 miliardi della stagione precedente.
Dura l'analisi del ministro dello sport e turismo, Piero Gnudi, che ha parlato di un sistema al collasso, con numeri da fallimento. "Io faccio il ragioniere e leggo bilanci molto preoccupanti. In altri ambiti, con quei numeri si parlerebbe di societa' prossime al fallimento. La crisi e' ancora lunga e sara' difficile trovare dei mecenati che investano nel calcio. Si rischia di non avere societa' in grado di iscriversi ai campionati". Lo scorso anno le perdite sono cresciute del 23% a 428 milioni di euro, un risultato che coinvolge tutte le leghe: tra i 107 club analizzati (su 127) solo 19 hanno chiuso i bilanci in utile: 8 in A ( Napoli, Udinese, Lazio, Parma, Catania e Palermo, piu' le retrocesse Bari e Brescia), 7 in B, 4 in Lega Pro. D'altronde il valore della produzione e' calato ancora a 2,5 miliardi (-1,2%): un miliardo arriva dai diritti tv della sola serie A che genera l'82% dei ricavi. La serie B pesa per il 14% (era l'11%) e la Lega Pro il 4% (era il 5%). Il costo della produzione e' pari, invece, a 2,9 miliardi di euro, in aumento dell'1,5% rispetto alla stagione precedente.
La crisi colpisce anche i presidenti delle squadre di calcio che hanno dato una stretta, timida, ai costi. Nel 2010-2011, infatti, il trend di crescita e' rallentato molto se confrontato con il +6,8% registrato nel 2009-2010 il +6,4% del 2008-2009. Sul fronte fiscale, nel 2009, il calcio italiano ha contribuito allo stato con un miliardo di euro: l'85% (875 milioni) deriva dal contributo fiscale e previdenziale delle societa', mentre i rimanenti 155 milioni sono relativi al gettito erariale derivante dalle scommesse. Con lo strapotere delle televisioni, ma anche a causa dello stato in cui si trova l'impiantistica italiana da oltre 20 anni, il numero complessivo dei tifosi allo stadio e' calato del 4% a quota 13,3 milioni. E cosi' lo scorso anno gli stadi della serie A sono stati riempiti solo al 56%, e la biglietteria ha pesato solo il 10% del totale del valore della produzione dei club. I club stanno spingendo per una nuova normativa in tema di impianti: "che sia una priorita' per il calcio e' indiscutibile - ha aggiunto Gnudi -. sono convinto che si debba andare avanti, anche per innescare nuovi investimenti da parte dei privati, utili alla crescita del paese. C'e' bisogno, pero', che finisca questa crisi, altrimenti anche con la nuova legge, sara' difficile trovare degli investitori".
Una necessita' condivisa dal presidente della FIGC, Giancarlo Abete: "speriamo che ci sia grande attenzione delle istituzioni per salvaguardare il patrimonio del calcio italiano - ha auspicato -. La legge sugli stadi e' ferma, ma noi dobbiamo restare lucidi, anche perche' l'Uefa ha riaperto le dichiarazioni di interesse per euro 2020, e, se restiamo cosi', noi non giocheremo nemmeno la partita". Il numero 1 del coni, Gianni Petrucci, ha invitato i club a non piangersi addosso. "Ad eccezione dello Juventus Stadium, finora ho visto solo plastici straordinari. Se ci si potesse giocare, sarebbe meglio che al Camp Nou. Mi auguro che ci sia presto un passo avanti, anche perche' non capisco cosa ci sia di cosi' impossibile nell'approvazione della legge".
Regione Sicilia: dal Pd a Fli la giunta “antimafia” terremotata dal caso Lombardo. - di Giuseppe Pipitone
L'imputazione coatta del presidente per concorso esterno mette in imbarazzo la maggioranza appoggiata da diversi esponenti di primo piano nella battaglia contro Cosa nostra, come Beppe Lumia e Fabio Granata. Tra l'ironia del Pdl e le sferzate della sinistra. Il parlamentare democratico: "Toglieremo il sostegno in caso di rinvio a giudizio".
Una bomba. Così viene definita nei corridoi di Palazzo dei Normanni, sede dell’Assemblea regionale siciliana, la notizia dell’imputazione coatta di Raffaele Lombardo per concorso esterno a Cosa Nostra e voto di scambio aggravato. Un’accusa pesantissima che è piombata come un fulmine a ciel sereno sulla testa del presidente siciliano, esponente dell’Mpa, e che adesso mette in pesante difficoltà i suoi alleati di governo, soprattutto quelli che hanno fatto della lotta alla mafia la bandiera della loro azione politica.
Il ruolo più scomodo tocca probabilmente al senatore Beppe Lumia, già presidente della Commissione parlamentare antimafia e da sempre in prima linea contro Cosa Nostra. Insieme ad Antonello Cracolici, capogruppo democratico all’Ars, è il regista dell’accordo Pd-Mpa: un accordo problematico che nei mesi scorsi aveva scatenato una vera e propria faida tutta interna ai democratici, cominciata con la mozione di sfiducia per il segretario regionale Giuseppe Lupo e culminata nell’implosione del centrosinistra alle primarie palermitane.
“Alla fine ognuno di noi si farà un’idea su Lombardo – aveva detto Lumia pochi giorni fa – Se emergeranno elementi negativi personalmente sarò in testa sulla severità nel giudizio. Ho sempre sostenuto che i contatti, se sono consapevoli, vanno puniti politicamente”. Adesso Lumia si trova a coniugare la sua personale storia di lotta alla mafia con l’appoggio diretto ad un presidente che da Cosa Nostra avrebbe preso voti e finanziamenti. Una posizione scomoda che durerà almeno fino alla prima udienza preliminare. Dopo la riunione straordinaria di maggioranza infatti Cracolici ha cercato di prendere tempo: “Toccherà a un altro giudice pronunciarsi sull’eventuale rinvio a giudizio. Poi di fronte a un rinvio a giudizio per fatti di mafia, interromperemo il sostegno al governo. Ma, ripeto, ci toccherà vedere ancora altre puntate prima che la telenovela finisca”.
Un’istantanea sull’inedita posizione del duo Lumia-Cracolici la regala Orazio Licandro: ”La coperta finora usata da un pezzo del Pd siciliano per coprire questa scandalosa alleanza politica si riduce a meno di un fazzoletto – commenta l’esponente del Pdci – La nouvelle vague antimafia dovrebbe moderare l’arroganza che l’ha contrassegnata negli ultimi tempi”.
Inedita e difficile anche la posizione di Futuro e Libertà. “Il giorno in cui dovesse arrivare una richiesta di rinvio a giudizio per Lombardo, Fli ripenserà all’appoggio che finora gli ha concesso”, aveva annunciato il deputato finiano Fabio Granata, anche lui componente della Commissione antimafia e particolarmente attivo nelle battaglie contro Cosa Nostra. Adesso, dopo la decisione del gip Luigi Barone, la richiesta di rinvio a giudizio per Lombardo è automatica. Anche i finiani però hanno deciso di aspettare che il rinvio si concretizzi: “Conosciamo Raffaele Lombardo e sappiamo che si comporterà anche in questa circostanza con correttezza e coerenza rispetto alla complessa vicenda giudiziaria che lo riguarda, se e quando dovesse perfezionarsi il rinvio a giudizio”.
Un mezzo passo indietro rispetto a quanto annunciato nei giorni scorsi che ha prestato il fianco alle critiche dell’opposizione. “Ho sempre avuto dubbi sullo sbandierato rigore politico di personaggi come Antonello Cracolici, Beppe Lumia, Carmelo Briguglio e Fabio Granata” è l’affondo di Rudy Maira, capogruppo del Pid all’Ars. I partiti dell’opposizione sono andati all’attacco anche di Massimo Russo e Caterina Chinnici, ex magistrati ora assessori di Lombardo: “Certo, siamo pensierosi della difficile posizione dei magistrati e degli ex prefetti che sono in Giunta di Governo – scrivono in una nota i capigruppo di Pdl, Pid e Udc – A loro non piace respirare aria più pura. Tra le verità di Lombardo e quelle dei loro colleghi magistrati, scelgono in anticipo. Per pregiudizio, anch’esso coatto”.
Adesso per la sopravvivenza del governo regionale diventa dunque fondamentale l’udienza preliminare, che Lombardo spera “sia convocata al più presto possibile”. Il governatore neoimputato per mafia ha respinto con forza l’ipotesi delle dimissioni, anche nella peggiore delle ipotesi, appunto il rinvio a giudizio. “La peggiore delle ipotesi non esiste – ha detto a caldo Lombardo – quello che esiste è la verità. E io su questa vicenda scriverò un memoriale. Con franchezza non mi aspettavo questa decisione del gip, così come non se l’aspettava nessuno. Forse solo qualcuno”. Qualcuno chi? “Qualcuno” ha ribadito sornione.
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Il bluff dell’oro nero lucano: non ha portato né lavoro né soldi. E i giovani emigrano. - di Enrico Fierro
Altro che "Libia di casa nostra" come diceva il governatore Pd De Filippo: le royalties sono troppo basse, alla regione restano le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano. Così la Basilicata resta la più povera d'Italia.
“Richiamate i vostri uomini, fateli venire da qualsiasi paese straniero si trovino e dite loro che qui finalmente c’è lavoro”. Era lo slogan preferito di Enrico Mattei cinquant’anni fa. Lo aveva scandito col suo accento marchigiano anche in Basilicata, a Ferrandina, mentre dava il via alla prima trivella della regione. Con lui Emilio Colombo, allora giovane ministro dell’Industria e padrone del grande serbatoio di voti Dc in Lucania. È il sud in bianco e nero degli anni Sessanta, terre tagliate fuori dal boom economico e famiglie intere che chiudevano in una valigia di cartone disperazione e speranze. Nelle viscere di monti e pianure c’è l’oro nero. “Richiamate i vostri uomini…”. E invece i nonni non tornarono più, i padri partirono, e ora emigrano anche i figli. Più di tremila giovani ogni anno lasciano la Basilicata. Le trivelle continuano a pompare una ricchezza che non li sfiora. E loro vanno via dalla regione più povera d’Italia dove il 31,6% di chi ha dai 15 ai 34 anni non ha uno straccio di lavoro, e più del 28% delle famiglie vive al di sotto della soglia di povertà.
“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del “Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.
Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.
“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.
NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i 33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da 100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni, in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo? Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi – dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.
Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e 300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale. “Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.
“Governo e multinazionali possono maneggiare le statistiche come vogliono, ma dai pozzi di petrolio non sono usciti né lavoro, né sviluppo”, ci dice Pietro Simonetti, un passato da operaio sindacalista e un presente di direttore del “Centro studi e ricerche economico-sociali”. “Il petrolio si serve della marginalità e del sottosviluppo”, nota l’antropologo Enzo Alliegro. Altro che Texas, altro che “Libia di casa nostra”, come andava dicendo l’entusiasta governatore Vito De Filippo, Pd. Dopo decenni di trivellazioni Potenza non è Dubai, la Val d’Agri non ha l’aspetto di un emirato e la “Basilicata coast-to coast” è solo un bel film.
Per capire il grande inganno del petrolio bisogna aggrapparsi ai numeri. Dai 25 pozzi attivi in Val d’Agri, la Basilicata estrae l’80 per cento della produzione petrolifera italiana, il 5-6 del fabbisogno nazionale. Le compagnie petrolifere, l’Eni e la Shell, in particolare, puntano a passare dagli attuali 80mila barili al giorno ai 104 mila previsti da un accordo del 1998, più altri 25 mila che dovrebbero venir fuori dal miglioramento delle tecniche estrattive. Con l’ampliamento del Centro oli di Viggiano e l’entrata in funzione dell’impianto Total di Tempa Rossa, a Corleto Perticara, la Basilicata raddoppierebbe la sua produzione petrolifera fino a 175 mila barili al giorno, il 12% del consumo italiano.
“Così tra i lucani crescerà la potenza attrattiva del totem nero”. È il titolo di un libro di prossima uscita dell’antropologo Enzo Alliegro, lucano trapiantato all’Università napoletana Federico II. “Il petrolio è un totem, un oggetto ambivalente, desiderato ma anche temuto, che ha ridefinito l’immaginario collettivo. Si sogna la ricchezza, ma si teme la catastrofe”. L’illusione di un improvviso benessere si chiama royalty, la quota che le compagnie pagano allo Stato italiano per lo sfruttamento dei pozzi. Una legge del 1957 definiva un sistema di sliding scale royalties che andava dal 2 al 22% a barile, nel ‘96 una nuova normativa bloccò la percentuale al 7, successivamente portata al 10. Un vero eldorado per le compagnie. Che in Italia pagano molto di meno rispetto alla Norvegia e all’Indonesia, dove le royalties sono all’80%, o alla Libia, 90, mentre in Canada i governi locali si lamentano perché giudicano insufficiente il 45% che incassano su ogni barile. Pochi soldi, ma comunque tanti per la Basilicata che in 11 anni si è vista piovere addosso 669 milioni, 800 se si calcolano anche quelli destinati ai comuni. Un mare di “petroleuro”, in apparenza, in realtà solo le briciole di un grande business che arricchisce multinazionali e Stato italiano.
NEL 2010, anno d’oro per l’Eni (utile netto di 6,89 miliardi), la quota destinata alla regione e ai comuni lucani, più il 2,10% per il fondo benzina, è stata di 110 milioni. Pochissima cosa rispetto a quella che qui chiamano la “royalty camuffata”, quel 42% di tasse che lo Stato impone alle compagnie petrolifere: 450 milioni di euro solo per il 2010. Ma è come sono stati spesi i 33 miliardi del Fondo Benzina, ad indignare i lucani. È la storia della card da 100 euro di carburante arrivata ai 335 mila patentati della Basilicata. In pratica un paio di pieni per una macchina media. “Un’ingiustizia, quei soldi dovevano andare a tutti i residenti”, dice il governatore De Filippo. “Abbiamo restituito ai lucani soldi che gli appartengono. Una rivoluzione”, replica l’ex sottosegretario Pdl Guido Viceconte. Un vero affare per Poste Italiane, visto che ogni card costa 20 euro. Archiviata questa polemica, gli adoratori ottimisti del “totem petrolio”, calcolano che per il prossimo decennio saranno almeno 6 i miliardi di royalties che piomberanno su queste terre. “Una visione miope – dice Pietro Simonetti –, i giacimenti possono essere sfruttati per altri 20-30 anni, in Val d’Agri siamo alla metà del ciclo. Quando i pozzi chiuderanno cosa faremo? Bisogna ricontrattare tutto con lo Stato e le multinazionali, se è necessario anche con movimenti di lotta come abbiamo fatto a Scanzano contro le scorie nucleari”. Le parole d’ordine che si sentono nelle assemblee e nei consigli comunali aperti sono “blocco delle perforazioni, moratoria”. “No a nuovi pozzi – dice il governatore Vito De Filippo – nel 1998, quando sono cominciate le estrazioni non potevamo opporci, ma ora vogliamo imporre all’Eni una svolta radicale. O fanno sul serio o troveranno un muro”.
Tutto è affidato a un “memorandum”, una intesa per lo sviluppo tra Regione e Stato. Al centro i problemi della tutela ambientale e della salute. Allarmano le emissioni e le fuoriuscite di greggio. “Per 13 anni si è vissuti nella più totale opacità. Chi ha fatto i controlli, i monitoraggi? L’Arpab, vale a dire la Regione, ammette che finora non è stato fatto granché, siamo al buio. Solo ora sono partite quattro nuove centraline e tra due anni avremo i risultati degli effetti sul territorio”, dice Ennio Di Lorenzo di Legambiente. “No a nuove trivellazioni, fermiamoci dove siamo e cerchiamo di capire cosa è successo in tredici anni”, aggiunge Giovanbattista Mele, medico della Val d’Agri. Qui c’è l’oleodotto più grande d’Europa. Le sue luci, i bagliori del petrolio che brucia, si vedono dal punto più alto di Viggiano, la basilica dove si prega una Madonna tutta d’oro. Poco più di 3 mila abitanti, un tesoretto da 8 milioni e 300 mila euro di royalties solo quest’anno. Spesi per finanziare gli imprenditori che assumono disoccupati (1.000 euro al mese per tre anni), aiuti alle famiglie, tante opere pubbliche che alimentano il ciclo del cemento. C’è il campo da calcio, quello per il tennis e si sta costruendo la piscina comunale. “Ma non posso prevedere cosa accadrà tra vent’anni alla salute dei cittadini e all’ambiente”, ammette il sindaco Giuseppe Alberti. “Il petrolio porta soldi, ma non risolve i problemi sociali”. I ragazzi di Viggiano prendono l’ascensore del megagalattico e deserto parcheggio multipiano per salire sulla piazza della basilica. Poi scendono giù, a piedi, per le vie strette del paese. Molti, quelli che possono, vanno via. Altri, disillusi dal petrolio-totem, sognano di scappare. Sono i “basilischi” del Duemila. A differenza dei loro nonni raccontati da Lina Wertmüller, non fantasticano più su una Lucania diversa.
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