mercoledì 18 aprile 2012

I partiti: “Perché Beppe Grillo è un clown”. - di Irene Buscemi, Paolo Dimalio e Manolo Lanaro







I sondaggi danno il Movimento 5 stelle in grande ascesa, oltre il 7 per cento, per le prossime amministrative. Un risultato che potrebbe scompaginare l’assetto politico attuale. Tutti i partiti sono in fibrillazione e scelgono la linea dell’attacco senza remore contro il leader del movimento, Beppe Grillo. In vista delle elezioni di maggio, in cui ha annunciato di presentarsi con 101 liste in altrettanti comuni, i pronostici suggeriscono che potrebbe diventare il terzo partito più votato su scala nazionale. E’ già stato terzo alle regionali dell’Emilia Romagna del 2010 (7 per cento), in Piemonte (4 per cento), e alle amministrative del 2011 a Bologna (9,5 per cento) e Torino (5,4 per cento). In alcune città come Rimini la soglia della doppia cifra è già stata superata. Facile quindi prevedere un buon risultato il mese prossimo e qualche decina di parlamentari nel 2013 quando il movimento affronterà il suo battesimo del fuoco, anche a fronte delle prime “epurazioni” che hanno suscitato molte polemiche nella base. Ma il “gradimento” tra gli elettori preoccupa tutte le formazioni politiche, da destra a sinistra, che reagiscono a suon di dichiarazioni al vetriolo. Il direttore del FoglioGiuliano Ferrara, ai microfoni de ilfattoquotidiano.it definisce Grillo “uno spregevole demagogo di quart’ordine che corteggia i leghisti per conquistare voti e giustifica coloro che non emettono lo scontrino”. Ma l’Elefantino si spinge anche oltre. Secondo lui infatti il comico genovese rappresenta “il male assoluto”, il populista “che spiega agli elettori leghisti che Bossi è innocente e che tutto dipende da un processo mediatico”. Gli fa eco l’ex ministro Altero Matteoli (Pdl) che lo descrive come “un clown, un fenomeno da circo” che, pertanto, non è “nemmeno querelabile”. L’ex ministro del governo Berlusconi aggiunge di trovarsi d’accordo col suo avversario politico Massimo D’Alema (Pd) che aveva parlato del leader 5 stelle come “un personaggio a metà tra il Gabibbo Bossi, specchio di chi “ha governato negli ultimi 15 anni”. Non migliora l’opinione nella sinistra radicale, dove per il leader di Sel Nichi Vendola è ”un fenomeno mediatico inquietante” e avverte: “Quando ci si affida a urlatori a uomini della provvidenza di solito questi preparano tempi peggiori, non tempi migliori”. Insomma, mentre i sondaggi di Grillo avanzano, i partiti, investiti da un crisi e una sfiducia profonda, fanno quadrato contro il comico genovese.  

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Trattativa, il capo della procura di Palermo: “Fu la ragione di stato di pochi”. - di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza




Francesco Messineo, durante la sua audizione davanti all'Antimafia, ha illustrato la sua visione del dialogo aperto dallo Stato con i boss di Cosa nostra, nell’estate delle stragi siciliane.

Due anni di indagini, di acquisizione di documenti riservati, di interrogatori di vertici istituzionali, di ammissioni di paure, vuoti di memoria, ricordi ad orologeria, imbarazzi, contrasti insanabili, decisioni adottate ”in solitudine”, funzionari indicati dai cappellani e alla fine una certezza: la salvezza di molti in cambio del sacrificio di pochi. E’ questa, con tutta probabilità la logica che ha spinto un pezzo dello Stato a trattare con la mafia nel biennio ‘92-’93 con l’obiettivo di fermare lo stragismo.

Non è la semplice ipotesi di un pentito da quattro soldi, ma il parere autorevole del capo della Procura di Palermo, Francesco Messineo, che nell’audizione all’Antimafia ha illustrato la sua visione del dialogo aperto dallo Stato con i boss di Cosa nostra, nell’estate delle stragi siciliane. Per spiegare cosa c’è dietro la volontà trattativista delle istituzioni, ha detto Messineo, “si potrebbe parlare di una ragion di stato interpretata da pochi soggetti, secondo loro particolari orientamenti e secondo una loro particolare visione, nell’intento -in sé astrattamente lodevole – di prevenire le stragi’’. Con la trattativa, insomma, irrompe sulla scena politica italiana la ragion di Stato che, nella sua logica meramente utilitaristica, fornisce ai più alti esponenti delle istituzioni una legittimazione sufficiente a giustificare lo scambio attivato con i mafiosi.

Ma come è possibile che dopo l’omicidio Lima, e ancor più dopo la strage di Capaci, la classe politica italiana decida di scendere a patti con Cosa nostra? L’ipotesi della procura di Palermo è che i primi approcci al dialogo con i boss siano nati su input di chi aveva un interesse personale, di chi era più esposto: come l’ex ministro Calogero Mannino, indagato a Palermo per violenza o minaccia a Corpo politico della Stato, che secondo la ricostruzione dei pm si rivolge ai vertici del Ros (Subranni) e al Sisde (Contrada), subito dopo l’omicidio Lima, per sollecitare gli apparati a trovare un contatto con Cosa nostra che potesse fermare la furia omicida di Totò Riina.

Ma la paura di Mannino, e di qualche altro politico minacciato dalla mafia, da sola non sarebbe bastata a provocare il cedimento dell’intero Stato. E’ la strage di Capaci, vissuta dai Palazzi del potere come un attacco frontale al sistema democratico, che fa crollare le difese della Prima Repubblica. La questione della salvaguardia delle istituzioni, da quel momento in poi, non riguarda più solo la sorte di singoli uomini politici, di Mannino, di Andò, di Andreotti, ma l’intero Stato.

La trattativa – spiegano in Procura a Palermo – diventa, a quel punto, per la classe politica italiana, l’unica strada per salvare la democrazia italiana. Se, come dice il collaboratore Giovanni Brusca, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino è stato veramente il ‘’ garante’’ istituzionale della trattativa, e se – come ipotizzano i pm di Palermo – l’ex ministro della Giustizia Giovanni Conso ha revocato il carcere duro a centinaia di boss non ‘’in assoluta solitudine’’ (come dice lui), ma obbedendo alla linea del dialogo voluta in prima persona dall’ex presidente della RepubblicaOscar Luigi Scalfaro, il motivo va ricercato in quella ‘’ragion di Stato’’ che giustifica qualunque crimine, se commesso da un uomo delle istituzioni nel supremo interesse del proprio Paese. Non è la prima volta, del resto, che ciò accade in Italia. La storia dimostra che nell’ 81 per salvare un uomo politico non di primissimo piano come l’assessore regionale Dc della Campania Ciro Cirillo, lo Stato scese a patti con la Camorra.

La Dc dell’epoca optò compatta per la trattativa con i terroristi. Oggi, Mannino, Mancino (entrambi ex Dc), e anche Conso negano risolutamente l’esistenza di un negoziato con i boss. E, prima di morire, pure Scalfaro (scomparso a gennaio scorso) aveva sostenuto davanti ai pm di non aver mai sentito parlare di trattativa. Eppure e’ proprio Scalfaro che interviene personalmente per scegliere il nuovo capo del Dap, Adalberto Capriotti (suo amico personale) dopo l’improvvisa liquidazione di Niccolò Amato (considerato inaffidabile). Un cambio al vertice non certo casuale.

E’ Capriotti, infatti, l’autore della nota che, il 26 giugno del ’93, suggerisce al ministero della Giustizia di non rinnovare il provvedimento in scadenza per il 10 per cento dei detenuti sottoposti al carcere duro, come ‘’segnale di distensione’’. Nessuno, però, oggi è disposto ad ammettere che in quel biennio di sangue, lo Stato trattò con la mafia. ‘’Il problema – riflette il procuratore Messineo nella sua audizione a palazzo San Macuto- è che si tratta di un fatto estremamente imbarazzante, sia politicamente, che moralmente. Quindi nessuno ammetterebbe mai di aver promosso o partecipato ad una trattativa, non tanto perche’ la cosa potrebbe refluire in responsabilita’ penali, ma soprattutto per l’ovvio motivo che aver fatto una cosa del genere eticamente non e’ il massimo’’. Eppure e’ proprio quello che e’ successo: a pochi mesi dall’uccisione di Falcone e Borsellino, le istituzioni ai massimi livelli si piegarono al ricatto mafioso. Nell’illusione di salvare la democrazia. ‘’La ragion di Stato – conclude Messineo – puo’ essere invocata in questo senso: la salvezza dei molti in cambio del sacrificio di alcuni elementi e di alcuni valori etici’’.

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Formi e Renato. - Marco Travaglio






I fan di Cochi e Renato non possono che apprendere con un velo di mestizia i particolari delle vacanze di Renato Pozzetto. Che non fa più coppia fissa con Cochi Ponzoni, ma con Roberto Formigoni. Poi però, ascoltate le spiegazioni della nuova spalla di Renato, a tempo perso governatore della Lombardia, devono riconoscere che, per tempi comici, battute folgoranti e costumi di scena, non ha nulla da invidiare al vecchio Cochi. La questione è nota: secondo le carte della Procura di Milano, a Capodanno 2010 il Celeste andava in ferie tra Parigi e St Martin (Caraibi) non solo col fratello, la cognata, il segretario Perego (condannato per falsa testimonianza sul caso Oil For Food) e Pozzetto, ma anche col faccendiere Pierangelo Daccò e con l’ex assessore Antonio Simone, arrestati l’altro giorno per i fondi neri della Fondazione Maugeri.

Entrambi ciellini e habituè delle patrie galere (il primo era appena uscito dal carcere per il crac da 1 miliardo del San Raffaele, il secondo era finito dentro già nel ’92 per Mani Pulite), fanno i facilitatori nella jungla dei fondi pubblici alle cliniche private anche grazie al poter spendere il nome del confratello Roberto. Risultato: 56 milioni portati in Svizzera a botte di fatture per consulenze mirabolanti, tipo quella volta ad accertare “le possibilità di vita su Marte”. Il minimo che Daccò potesse fare era pagare il conto dei voli e delle ville caraibiche. E la multiforme biografia di Formigoni si arricchisce ogni giorno di un nuovo mestiere: campione di scherma, membro (con rispetto parlando) dei Memores Domini ciellini con voto di castità incorporato e poi forse scorporato, vicepresidente (uno dei 14) del Parlamento europeo Dc ai tempi di Andreotti, dirigente del Ppi, sgovernatore di Lombardia da 18 anni e ora comico di sicuro avvenire. Ieri s’è detto “limpido come acqua di fonte” e ha ricordato che “anche Gesù sbagliò a scegliere qualche collaboratore” (sì, ma Giuda non era mai stato arrestato né condannato, quindi era più facile sbagliarsi).

L’altroieri aveva dato degli “sfigati” ai giornalisti del Corriere che avevano rivelato le sue ferie a sbafo. Sfigati perché “io, come tutti gli italiani, faccio vacanze di gruppo” e loro no. Le vacanze di gruppo, per chi non fosse italiano, funzionano così: “Uno si fa carico dei biglietti perchè conosce l’agenzia, l’altro paga l’hotel, il terzo le escursioni, il quarto i ristoranti, poi a fine vacanza ci si trova insieme ed eventualmente si conguaglia”. E’ tutto spiegato nel Manuale delle Vecchie Marmotte: lui, mentre gli altri pagavano voli, alberghi, escursioni e ristoranti, portava le camicie a fiori e le cravatte a righe fucsia e marron per tutti, così gli altri si ammazzavano dalle risate e non gli chiedevano il conguaglio. In ogni caso, ha aggiunto il fine umorista, “verificherò se quel viaggio l’ho veramente svolto”. Chiederà un po’ in giro: sapete mica se ho veramente svolto quel viaggio a Parigi e poi a Saint Martin? Perché lui non lo sa.

Ieri La Stampa titolava: “Viaggi pagati, l’ira di Formigoni”. Ecco: appena ha appreso di aver viaggiato, per giunta a spese altrui, s’è incazzato come una biscia. Se scopre chi gli ha pagato le ferie, gli fa un mazzo così. In attesa di sapere chi gli scrive i testi (Pozzetto?), gli specialisti studiano questa nuova forma della sindrome “a mia insaputa”, ancor più preoccupante di quella che ha colpito Scajola, Malinconico, Rutelli, Fede e Bossi. Due alternative. 

1) Alla parola “ferie”, Formigoni cade subito in trance (ma c’è chi giura che sia proprio letargo). 
2) Avendo paura dei voli, non solo non li paga, ma si fa ipnotizzare o anestetizzare all’imbarco. Lo risvegliano poi con comodo, al rientro, con una secchiata d’acqua purissima di fonte. 
Ma prima che riprenda conoscenza occorrono tempi lunghi. Il che spiegherebbe perchè al Pirellone si aggirano decine di soggetti con passamontagna, mascherina, calzamaglia, grimaldello, piede di porco e sacco in spalla, ma lui non nota mai nulla. Il giorno che scopre come lo vestono, fa una strage.


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Foto choc, clandestini rimpatriati con lo scotch sulla bocca sul volo Roma-Tunisi



L'immagine pubblicata su Facebook da un passeggero. I due immigrati erano imbavagliati e coi polsi legati. I poliziotti che li accompagnavano hanno detto a chi era a bordo: "E' una procedura di routine"



L'immagine postata su Facebook
Due clandestini irregolari rimpatriati su un aereo di linea a Fiumicino. Coi polsi legati da due fascette di plastica e la bocca sigillata dal nastro adesivo marrone. Scortati da quattro poliziotti. Una scena immortalata da una foto pubblicata su facebook che in queste ore viene condivisa sulle bacheche di migliaia di utenti e denuncia delle modalità di trattamento disumani.

A scattarla e a postarla sul suo profilo è stato Francesco Sperandeo, video maker, che ieri mattina si trovava sul volo Roma-Tunisi delle 9.20.  Sotto all’immagine qualche riga di testo: “Questa è la civiltà e la democrazia europea – scrive online -. Ma la cosa più grave è stata che tutto è accaduto nella totale indifferenza dei passeggeri e alla mia accesa richiesta di trattare in modo umano i due mi è stato intimato in modo arrogante di tornare al mio posto perché si trattava di una normale operazione di polizia. Normale?”

Nell’immagine compare soltanto uno dei due uomini, mentre l’altro si trovava seduto nell’ultima fila sul lato opposto nelle stesse condizioni. Erano scortati in tutto da quattro uomini in borghese che “si sono presentati come polizia di stato”. Sperandeo e il collega che lo ha accompagnato nel viaggio, alla vista dei due uomini, hanno protestato, ma sono stati invitati a sedersi ai loro posti perché “si trattava di una normale procedura di routine” per il rimpatrio.

“Quando eravamo a bordo abbiamo provato a fare le nostre rimostranze”, spiega alfattoquotidiano.it. “Ma subito dopo ci hanno invitato ad allontanarci, proprio come hanno fatto anche gli steward in servizio”. Sperandeo parla di polsi legati, che nell’immagine però non si vedono. “Purtroppo è l’unica foto che abbiamo, sono l’unico passeggero che l’ha scattata”. Alcuni hanno visto ma hanno taciuto, altri invece non si sono resi conto di chi fosse seduto in ultima fila. E c’è chi si è tranquillizzato davanti alla spiegazione delle forze dell’ordine. Una volta atterrati “noi passeggeri siamo scesi per primi, i due clandestini sono stati gli ultimi”.

Un episodio che apre scenari inquietanti sulle procedure di rimpatrio italiane e che, al momento, non è ancora stato né smentito né confermato dal ministero dell’Interno. L’ufficio stampa della Polizia di Stato anticipa che in giornata sarà diramato un comunicato ufficiale “per fornire spiegazioni a seguito degli accertamenti” ma secondo fonti giudiziarie interpellate in Cassazione, sono ipotizzabili due distinte ipotesi di reato. Si tratta di abuso di autorità, previsto dall’art. 608 del codice penale, e la violenza privata, prevista dall’art. 610. Se la Procura di Roma aprisse una indagine sulla vicenda – ad avviso delle fonti della Suprema Corte, la competenza è infatti romana – gli eventuali indagati potrebbero rischiare fino a 30 mesi di reclusione nel caso fossero accusati di abuso, e fino a quattro anni se fossero accusati di violenza privata. Quel che è certo, dicono le fonti della Cassazione, è che nessuna norma autorizza un trattamento del genere “perchè incostituzionale”.