mercoledì 18 luglio 2012

La truffa dell’emergenza rifiuti: la compagnia delle ecoballe. -Daniela De Crescenzo




Alla faccia dell’”emergenza”. Dietro la “questione rifiuti” in Campania c’è una storia cominciata più di dieci anni fa. E ci sono nomi e cognomi: imprenditori e politici corrotti che con il mancato smaltimento hanno arricchito se stessi e i clan.
Cinque milioni di ecoballe fuori legge, un miliardo e mezzo di euro spesi in 11 anni dal commissariato di governo e altri 80 milioni stanziati a giugno dal governo: sono le cifre che segnano l’ennesima débâcle dello Stato in terra di Camorra. Quella che è stata chiamata “emergenza rifiuti” si sta rivelando sempre più una grande truffa di cui hanno beneficiato amministratori corrotti, malavitosi, imprenditori più o meno vicini agli uni e agli altri: lo sostengono i magistrati in una serie di inchieste intrecciate che, tassello dopo tassello, ne stanno ricostruendo la storia.
L’inizio della crisi. Tutto comincia nel 1994 quando, dichiarato lo “stato di emergenza”, il governo nomina il primo commissario che ha il compito di tamponare la crisi. È solo nel 1996 che i poteri si ampliano e passano al presidente della Regione che in quel momento in Campania è Antonio Rastrelli. Ed è la sua amministrazione che organizza il bando di gara per appaltare la gestione di un ciclo integrato dei rifiuti. Le procedure vanno avanti con il suo successore, Andrea Losco (Udeur) e vengono concluse da Antonio Bassolino (Ds) che affida il tutto a un consorzio di ditte formato da cinque imprese associate alla Impregilo (Impregilo International, Fibe, Fibe Campania, Fisia Impianti, Gestione Napoli). Le stesse che a giugno 2007 ricevono dal gip Rosanna Saraceno l’interdizione a stipulare contratti con la pubblica amministrazione per un anno in materia di smaltimento della spazzatura e il sequestro preventivo di 753 milioni di euro.
I pm Giuseppe Noviello e Paolo Sirleo cominciano a indagare nel 2002 dopo una denuncia del senatore di Rifondazione comunista Tommaso Sodano. Cinque anni dopo arriva il primo provvedimento del gip con conclusioni durissime per le imprese, ma non solo. Per il magistrato le aziende «con artifici e raggiri» hanno eluso i contratti, falsificato i risultati delle analisi, bloccato gli impianti per far crescere l’emergenza. Il tutto «con la complicità, se non la connivenza, di chi aveva l’obbligo di intervenire». Non a caso le indagini, dalle quali si aspettano nuovi sviluppi, hanno coinvolto il governatore Bassolino e molti dirigenti della struttura commissariale.
Con l’alibi dell’emergenza. Nel 2000, infatti, il presidente della Regione firma con il consorzio un contratto, che non sarà mai rispettato dalle ditte né disdetto dal commissariato che, invece, sostiene la tesi dell’emergenza infinita inventata dall’impresa per giustificare le proprie inadempienze. Impregilo e soci avrebbero dovuto costruire sette impianti di produzione di Cdr, ovvero di combustibile derivato dai rifiuti (e lo hanno fatto), edificare due impianti per la termovalorizzazione del combustibile (ne hanno realizzato uno solo, quello contestatissimo di Acerra), gestire tutti i rifiuti prodotti in Campania. La spazzatura doveva diventare materiale da bruciare (32%), compost destinato al recupero ambientale (33%), scarti ferrosi (3%) e solo il 14% doveva finire in discarica. Sette anni dopo non solo la Campania brulica di buche piene d’immondizia, ma l’emergenza è diventata un enigma che non trova soluzione.
Anche perché quella che esce dagli impianti di Cdr è spazzatura triturata. Tanto che il prefetto Pansa (che ha preso il posto del precedente commissario, il capo della protezione civile Guido Bertolaso) ha deciso di far trasportare parte dei rifiuti direttamente in discarica.
Tutti le trasportano, nessuno le brucia. Le ecoballe, lo dimostrano le indagini, di eco non hanno proprio nulla. Si tratta, invece, di immondizia chiusa in buste di plastica che non sarà mai possibile bruciare nel rispetto delle norme attuali. Il materiale prodotto dai Cdr doveva avere per contratto al massimo il 15% di umidità. Il decreto Ronchi prevede una percentuale del 25%. La spazzatura che esce dagli inceneritori supera il 30. E la quantità di rifiuti che esce dai sette inceneritori è maggiore di quella in entrata a causa degli additivi. Un disastro.
In compenso solo per ospitare le cosiddette ecoballe bisogna occupare 40mila metri quadrati ogni mese. E così il commissariato ha dilapidato milioni di euro per inviare le balle al nord o addirittura all’estero, ma nessuno le ha volute perché bruciarle è impossibile. Eppure il contratto prevedeva, come ricorda il gip Saraceno «l’obbligo di assicurare, nelle more della realizzazione degli impianti di termovalorizzazione, il recupero energetico mediante conferimento del Cdr in impianti esistenti». Insomma, in attesa di costruire l’impianto di Acerra il cartello Impregilo avrebbero dovuto smaltire le ecoballe a proprie spese, ma nessuno ha preteso il rispetto di questa clausola e la spazzatura impacchettata è diventata lo scoglio che fa naufragare ogni speranza di superare la crisi. Non basta. Il subappalto del trasporto di materiali prodotti dagli impianti era vietato, ma solo sulla carta. Le numerose emergenze hanno fatto proliferare le deroghe e il servizio è stato appaltato a una partecipata dei Comuni dell’area Nord (Impregeco), che non avendo, però, i mezzi necessari lo ha a sua volta subappaltato a una miriade di padroncini. E così davanti agli inceneritori restano per ore, ma a volte anche per giorni, camionisti pagati in nero.
Impianti fermi? È tutto programmato. A costituire l’inferno in cui si dibattono i napoletani hanno, sempre secondo i magistrati, collaborato i responsabili del commissariato. Sono stati loro a non vedere (o a non voler vedere) che le apparecchiature montate nei Cdr erano diverse da quelle progettate, che ai rifiuti veniva aggiunta plastica per renderli più secchi, che le analisi sui prodotti venivano falsificate. Tutto in nome dell’emergenza. Tanto che il sub-commissario Raffaele Vanoli nel 2002 in previsione dell’estate dispone un prolungamento dell’orario di apertura degli impianti e decide che le verifiche sul Cdr prodotto siano spostate al momento di incenerire le balle. Si domandano i giudici: come faceva Vanoli a sapere che i cumuli di rifiuti per le strade sarebbero cresciuti? Una risposta viene dalle intercettazioni sulle linee dei dipendenti della Fibe. Scrive Rosanna Saraceno nella sua ordinanza: «Dalle intercettazioni emerge che il fermo degli impianti e il blocco nella ricezione dei rifiuti era programmato e attuato quale strumento di pressione verso la struttura commissariale». Tra gennaio e giugno del 2007 l’inceneritore di Caivano si è bloccato 30 volte, venti perché non c’era possibilità di sversare i rifiuti, dieci per incidenti vari.
Intanto c’è chi, con i rifiuti, si ingrassa. L’emergenza, poi, giustifica fitti e subappalti senza gare: e i costi lievitano. Così finisce che la Campania sommersa dalla spazzatura paghi la tassa sui rifiuti più cara d’Italia. Né c’è da meravigliarsi visto che, tanto per fare un esempio, nei diciotto consorzi di bacino della regione sono stati assunti 2300 ex Lsu (lavoratori socialmente utili, ndr.) che dovevano lavorare alla differenziata mai decollata e che quindi hanno fatto poco e niente, ma sono stati sempre pagati costando circa 55 milioni di euro all’anno. E molti sono stati assunti perché iscritti in liste di disoccupazione compilate grazie a un accordo trasversale tra le forze politiche, come sostengono i giudici che hanno indagato su molti leader dei senza lavoro. Ben 367 di questi lavoratori fantasma dipendono dal bacino 5 che però non è mai stato costituito. E l’Asia, la società mista che raccoglie l’immondizia a Napoli, lavora senza aver mai firmato un contratto di servizi e subappalta la raccolta del centro città ad altre due società. Non va meglio in provincia dove molti Comuni sono stati sciolti (tra questi Crispano, Casoria, Tufino, Pozzuoli, Melito) per aver affidato il servizio di nettezza urbana a società ritenute dal Gia (Gruppo interforze antimafia) vicine alla Camorra. Il commissario di governo a Casoria ha dovuto azzerare i vertici della partecipata del Comune dopo l’informativa della prefettura che parla di possibili ingerenze della criminalità organizzata. Anche la Pomigliano Ambiente nel giugno 2006 è stata interdetta dal prefetto perché sospettata di servirsi di una società di servizi accusata di collusioni con associazioni camorristiche, ma a novembre il Tar ha accolto il ricorso della società, il provvedimento di interdizione è stato revocato e l’azienda ha ripreso l’attività come molte altre imprese finite nel mirino della prefettura e “riabilitate” dalla giustizia amministrativa. Ad aprile, però, la Dda ha aperto una nuova inchiesta. Il pubblico ministero Maria Antonietta Troncone indaga su una serie di lavori appaltati con il criterio della somma urgenza.
Favori a parenti e “amici”. Del resto, secondo la commissione parlamentare d’indagine sul ciclo dei rifiuti guidata dal senatore Roberto Barbieri (Gruppo misto), la stessa struttura commissariale non è stata impermeabile alla Camorra: «Gli elementi informativi assunti durante le audizioni, soprattutto quelle dei magistrati della procura della Repubblica di Napoli, nonché la documentazione acquisita con riferimento alle indagini che hanno interessato la struttura commissariale – è scritto nella relazione sulla Campania – hanno rappresentato un quadro nel quale la criminalità organizzata, soprattutto nella sua articolata dimensione imprenditoriale, ha assunto un ruolo che desta preoccupazione». Una preoccupazione più che fondata se si considera che a maggio è stato arrestato il sub-commissario Claudio De Biasio: insieme a Giuseppe Valente, presidente del Ce4 (in quota Forza Italia), fino al commissariamento del consorzio, avrebbe favorito imprese legate alla malavita. I due, secondo i pm della Dda di Napoli, Raffaele Cantone e Alessandro Milita, avrebbero favorito le ditte dei fratelli Sergio e Michele Orsi a loro volta finiti in manette e indicati da numerosi pentiti come vicini al clan dei Casalesi. Con queste imprese il consorzio di bacino ha costituito una società mista, la Eco 4, incaricata della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Alla Eco 4 non è stata concessa la certificazione antimafia perché l’amministratore delegato, Sergio Orsi, è ritenuto vicino ai clan. I giudici hanno ricostruito la vicenda passo passo a cominciare dal bando di gara che privilegiava le società formate da giovani e da donne. Una clausola che ha permesso agli Orsi di spiazzare l’altra impresa che aspirava all’appalto. Poco prima del bando, infatti, è stata formata una società, la Flora ambiente, amministrata dall’allora ventunenne Elisa Flora, figlia di Sergio Orsi. L’impresa, che non aveva alcuna attrezzatura, creò un’associazione temporanea con aziende che avevano, invece, i mezzi per operare e riuscì a vincere la gara e ad aggiudicarsi il servizio guadagnando (illecitamente secondo i giudici) più di dieci milioni di euro, nove solo vendendo al commissario un pacchetto azionario a un prezzo enormemente superiore al valore reale. Nell’inchiesta entra anche il camorrista Augusto La Torre. È lui a raccontare ai giudici di aver imposto ai fratelli Orsi una tangente di 15 mila euro al mese e di aver concordato la cifra grazie al comune amico Francesco Bidognetti, capo dell’omonimo clan.
Un impero all’ombra dei clan. Ma i fratelli non sono amici solo dei malavitosi. Nella loro agenda figura anche Angelo Brancaccio, dei quali erano anche compagni di sezione. I due, infatti, erano iscritti alla sezione dei Ds di Orta di Atella, paese di cui Brancaccio era stato a lungo sindaco prima di diventare consigliere regionale e segretario della presidenza del governatore Bassolino ed essere infine accusato di estorsione, peculato e corruzione.
E non finisce qui: 37 milioni di euro sono passati dal commissariato di governo direttamente nelle tasche di Cipriano Chianese, avvocato, imprenditore candidato per Forza Italia alle elezioni nel 1994 e non eletto, proprietario della Resit, la società che ha venduto al commissariato di governo le cave X e Z, discariche abusive nei dintorni di Giugliano, durante l’emergenza del 2003 (cfr. «Narcomafie» n.2/06). Tre anni dopo, nel gennaio del 2006, Chianese finisce in galera. Pesantissima l’accusa: estorsione aggravata e continuata, concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i magistrati il suo impero economico sarebbe cresciuto all’ombra del clan dei Casalesi. I pm antimafia Raffaele Marino, Alessandro Milita e Giuseppe Narducci chiesero anche l’arresto dell’ex sub commissario per l’emergenza rifiuti, Giulio Facchi, ma il gip non lo concesse per mancanza di esigenze cautelari (al momento della decisione non era più sub-commissario). La cosa sconcertante è che il commissario aveva stabilito rapporti con Chianese ben sapendo che era già stato al centro di numerose inchieste giudiziarie.
In questa situazione non c’è da meravigliarsi se in Campania ci sono, secondo Legambiente, 225 discariche abusive e la criminalità organizzata continua a incrementare i propri profitti gestendo un giro di affari che tocca i 23 miliardi di euro all’anno. E i cumuli di sacchetti per le strade della Regione continuano a crescere.

Stato-mafia: Dell'Utri indagato dai pm a Palermo. Convocata Marina Berlusconi.



E' il motivo per cui l'ex premier sarebbe stato convocato lunedì scorso come test.

Il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri è indagato dalla Procura di Palermo per estorsione nei confronti dell'ex premier Silvio Berlusconi. Nell'ambito di questa inchiesta i Pm avevano convocato lunedì scorso Berlusconi, che è persona offesa.

"Tutte le dichiarazioni attribuite stamani dal quotidiano 'La Repubblica' al Presidente Berlusconi, in merito alla vicenda di Palermo, sono destituite di ogni fondamento". Così si legge in una nota rilasciata da Palazzo Grazioli.

La presidente di Fininvest e del gruppo Mondadori, Marina Berlusconi, figlia dell'ex premier Silvio, è stata convocata come persona informata sui fatti dai pm di Palermo che hanno aperto l'indagine per estorsione a carico del senatore Marcello Dell'Utri.

DELL'UTRI, IL MIO E' PROCESSO POLITICO 
- "E' un processo politico, non l'avete capito?". Lo ha detto il senatore del Pdl Marcello Dell'Utri alla prima udienza del processo d'appello a suo carico per concorso in associazione mafiosa che si apre oggi a Palermo. "Questa storia è cominciata nel '96 - ha spiegato - e poi si sono aggiunte una storia dopo l'altra, un'indagine dopo l'altra. Fortuna che io mi lascio scivolare tutto addosso, altrimenti mi sarei ammalato e invece sto bene". "Diciamo - ha concluso - che sono portatore sano di cancro giudiziario".
"Questi magistrati sono malati, sono morbosi. Non lo vedete che ogni giorno ce ne è una?". "Dicono che tra le prove dell'estorsione - aggiunge Dell'Utri - c'é il fatto che Berlusconi ha comprato la mia villa sul Lago di Como ad una cifra superiore al suo valore. Sono tutte fesserie: la casa, che era in vendita da due anni, è stata stimata per 30 milioni di euro mentre lui l'ha pagata venti. Quindi ci ho rimesso".

ALFANO, BASTA CON SOLITA PACCOTTIGLIA CONTRO FI  - "Ancora una volta, come troppe altre volte, apprendiamo dell'ennesima replica di uno stanco copione. Si avvicinano le urne e torna il desidero di aprire la campagna elettorale per via giudiziaria. Ora il tema è la solita paccottiglia contro le origini di Forza Italia. E' il caso di dire basta". Lo afferma in una nota, Angelino Alfano.

QUOTIDIANI, BERLUSCONI CONVOCATO DA PM PALERMO - Silvio Berlusconi era stato convocato lunedì scorso come teste dai pm di Palermo che conducono l'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, ma l'ex premier non si è presentato, opponendo il legittimo impedimento. Lo riportano alcuni quotidiani - La Repubblica come notizia d'apertura, ma riferita anche con richiami in prima in altri giornali - spiegando che gli inquirenti avrebbero voluto sentire Berlusconi in particolare per approfondire un aspetto: i presunti rapporti tra Marcello Dell'Utri ed esponenti mafiosi. Lunedì Berlusconi ha partecipato al workshop con economisti e politici a Villa Gernetto. Secondo quanto scrive Repubblica, i pm sarebbero interessati a chiedere all'ex premier di alcune spese fatte per conto di Dell'Utri o di "prestiti infruttiferi" fattigli negli ultimi anni. Fra i nodi che gli inquirenti vorrebbero sciogliere, quello relativo all'acquisto da parte dell'ex premier della villa di Dell'Utri sul lago di Como per quasi 21 milioni di euro, a fronte di un valore dell'immobile che sarebbe stimato in circa nove milioni. Nell'inchiesta della procura di Palermo - scrive Repubblica - Marcello Dell'Utri è indagato insieme, tra gli altri, all'ex ministro Nicola Mancino, al senatore Calogero Mannino e ai generali dei carabinieri Mario Mori e Antonio Subranni. Dell'Utri è già stato condannato in primo grado per concorso esterno in associazione mafiosa; condanna prima confermata in appello, poi annullata con rinvio dalla Cassazione. Proprio oggi, a Palermo, ricomincia quel processo d'appello.

Trattativa Stato-mafia, i pm indagano sulla villa venduta da Dell’Utri a Berlusconi. - Marco Lillo e Davide Vecchi



Per ordine della Procura di Palermo, la Guardia di Finanza acquisisce il rogito che sancisce il passaggio di proprietà del lussuoso immobile sul lago di Como. I sospetti cadono sulla data della cessione, alla vigilia della sentenza di Cassazione sull'accusa di concorso esterno, e la cifra, quasi 21 milioni. L'ex premier ne aveva già pagati oltre dieci all'ex braccio destro "per un aiuto nella ristrutturazione"

La Procura di Palermo sta indagando sull’ultimo affare immobiliare di Silvio Berlusconiperfezionato, con tempismo sospetto, proprio il giorno prima della sentenza della Cassazione sulla condanna a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell’Utri. I pm Antonio IngroiaAntonino Di Matteo e Lia Sava, che indagano sul ruolo che avrebbe avuto Marcello Dell’Utri nella trattativa con la mafia nei primi anni Novanta, vogliono vederci chiaro sul passaggio della villa sul lago da Marcello all’amico Silvio. Ben prima che i giornali pubblicassero l’avvenuta vendita come se fosse solo gossip (il Giornale si è distinto con articoli nei quali si svelava una vera ossessione del Cavaliere per una villa sul lago finalmente individuata, per fortuita coincidenza, proprio nella casa del suo sodale Dell’Utri) i pm si interessavano alla transazione immobiliare da tutt’altra prospettiva.
Ieri, gli uomini del nucleo valutario della Guardia di finanza di Palermo, coordinati dal maggiore Pietro Vinco, hanno acquisito presso lo studio milanese del notaio Arrigo Roveda l’atto di acquisto della villa di Dell’Utri da parte di Berlusconi. Appena due settimane dopo la stipula del rogito, i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno potuto leggere le quaranta pagine dell’atto. Il Fatto Quotidiano è in possesso del voluminoso documento di vendita ed è in grado di rivelarne i particolari, a partire dal prezzo abnorme: 20 milioni 970 mila euro.
Certo, la villa sul lago di Como è una residenza da sogno. Quattro edifici con 40 stanze complessive, campo da tennis, piscina, due darsene, un parco da tremila ettari. Ma l’assegno che Berlusconi ha staccato l’ 8 marzo per comprarla dal senatore del Pdl appare comunque esagerato. Soprattutto se si pensa che la perizia più recente (nel 2004) l’aveva stimata 9, 3 milioni; che i periti non erano pregiudizialmente ostili essendo tecnici del Credito cooperativo fiorentino guidato dall’altro amico Denis Verdini e, inoltre, che l’ex premier nel 2011 aveva già versato 9, 5 milioni sui conti correnti di Dell’Utri, in parte usati per ristrutturare la villa.
A insospettire i magistrati sono una serie di circostanze. Innanzitutto le somme: Berlusconi ha versato al senatore Dell’Utri, sotto processo con l’accusa di essere stato il mediatore o l’ambasciatore della mafia presso l’impero Fininvest, una somma che supera i 30 milioni di euro. Il 22 maggio 2008 dal Monte Paschi arriva il primo milione e mezzo. Nel 2011 il 25 febbraio dal conto Banca Intesa piove un altro milione sul senatore che l’ 11 marzo incassa altri 7 milioni. Dell’Utri, intervistato dal Corriere della Sera, giustifica così tanta benevolenza: “Sono un principe decaduto, ristrutturo e poi vendo la villa”. Ma gli investigatori ieri hanno scoperto che nell’atto non si fa alcun riferimento a quei versamenti, che quindi si sommano ai quasi 21 milioni pagati due settimane fa.
Il giorno del rogito dal conto corrente della Banca popolare di Sondrio partono cinque bonifici. Quattro per sanare i debiti del senatore ed estinguere le ipoteche sulla villa: tre milioni vanno al Credito cooperativo fiorentino e 2, 5 alla Abbey National. Il quinto bonifico va sul conto di Miranda Anna Ratti, moglie di Dell’Utri, che riceve il versamento più imponente: 15, 7 milioni. In tutto sono 21. Un’iniezione di liquidità provvidenziale per le finanze dei Dell’Utri e un esborso improvviso e rilevante anche per un miliardario in euro come Berlusconi che arriva in una data molto particolare: l’ 8 marzo 2012, esattamente il giorno prima della sentenza della Corte di Cassazione sulla condanna emessa in appello a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell’Utri (dal giorno dopo il senatore fu irreperibile per 48 ore, chi dice all’estero).
Un tempismo che ha insospettito i pm di Palermo, titolari dell’inchiesta che vede il senatore indagato per minaccia a corpo dello Stato. Il giorno dopo l’atto, il 9 marzo, Delll’Utri poteva essere condannato a sette anni di galera con due conseguenze non indifferenti: la perdita della libertà e il rischio dell’apertura di un procedimento di misure di prevenzione reali con il possibile sequestro delle proprietà immobiliari, cioè la villa: unico bene intestato al senatore. Le cose, grazie al sostituto procuratore generale Francesco Iacoviello e al collegio presieduto da Aldo Grassi, hanno preso un’altra piega: Dell’Utri si è visto annullare la condanna con rinvio e vede a portata di mano la prescrizione nel giugno 2014, ma l’ 8 marzo questo nessuno poteva saperlo.
Dal notaio Roveda a firmare l’atto ci sono la moglie di Dell’Utri e Salvatore Sciascia, nominato appena due giorni prima procuratore speciale di Berlusconi. Sciascia è un uomo di fiducia dell’ex premier. Senatore del Pdl ed ex ragioniere della Fininvest, Sciascia è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a 2 anni e 6 mesi per aver versato tangenti ad alcuni membri della Guardia di finanza così da ottenere verifiche fiscali blande alle società di Berlusconi. L’ 8 marzo Sciascia rispetta la volontà del Cavaliere che nella procura speciale aveva dato mandato di acquistare a un prezzo “non superiore a 21 milioni”. L’amicizia.
Precedenti di questo articolo

Sandro Pertini.



Lui si che era il MIO PRESIDENTE!


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Quirinal party. - Marco Travaglio


Giustamente Eugenio Scalfari si è risentito per la sanguinosa calunnia del pm Antonio Ingroia, che dice di perdonargli le inesattezze giuridiche sul caso Napolitano-Mancino in quanto “non è laureato in giurisprudenza”. Ma come, ribatte Scalfari, “mi sono laureato in Giurisprudenza nel 1946 con il voto di 100 e lode”! Ora però quella laurea, risalente peraltro a prima della Costituzione, rischia di diventare un’aggravante. Perché, nella jungla di norme e normette citate da Scalfari a sostegno della sua bizzarra concezione della legge sulle intercettazioni e dell’immunità presidenziale, c’è una sentenza della Consulta che, a suo dire, taglia la testa al toro e sancisce una volta per tutte il “gravissimo illecito” commesso dagli inquirenti di Palermo intercettando, sul telefono di Mancino, due conversazioni con Napolitano: la sentenza n.135 del 24 aprile 2002. Siamo andati a leggerla e abbiamo scoperto un sacco di cosette interessanti.
Intanto, fra i membri di quella Corte, c’era Gustavo Zagrebelsky, editorialista di Repubblica, a cui il Fondatore avrebbe potuto chiedere un aiutino prima dell’incauta citazione e della conseguente figuraccia. Già, perchè la sentenza in questione riguarda il caso di una discoteca di Alba (Cuneo), in cui furono nascoste dagli inquirenti alcune microspie e telecamere per immortalare “i rapporti sessuali tra i clienti e le ballerine dell’esercizio”. Dopodiché “il gestore del locale fu sottoposto ad arresti domiciliari” per “favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione”. Ne nacque un’intricata controversia giuridica fra i vari magistrati interessati al caso a proposito di chi dovesse autorizzare le telecamere, visto che la saletta dove si svolgevano i convegni carnali era un “luogo di privata dimora”. Bastava l’autorizzazione del pm, come dice una corrente giurisprudenziale e com’era avvenuto in quel caso; oppure occorreva quella del gip, come ritengono altri giuristi; o ancora le “riprese visive ai fini di indagine in luoghi di privata dimora” vanno “escluse in radice dal principio di inviolabilità del domicilio”, come opinano altri? E, se basta l’ok del pm, non è incostituzionale la legge sulle intercettazioni che garantisce la privacy dei cittadini molto più per intrusioni meno invasive, come i controlli telefonici e ambientali, che per quelle più invasive come le videoriprese?
La Consulta, nella sentenza firmata dal presidente Cesare Ruperto e dal giudice Giovanni Maria Flick, concludeva che la questione di incostituzionalità sollevata dal gip di Alba era “non fondata e veniva rigettata”, a tutto scapito del povero proprietario della discoteca. Abbiamo cercato col lanternino, nelle sei pagine della sentenza, un sia pur minimo accenno alla prerogative del Capo dello Stato invocate da Scalfari, ma purtroppo invano. Anche perchè il contesto della disco, della lap dance e delle cene eleganti con allegri dopocena parrebbe più confacente a un’altra carica dello Stato, sia pur “ex”. E parrebbe escludere, anche qui “in radice”, una sia pur minima attinenza con gli stili di vita di Napolitano e di Mancino (peraltro intercettati al telefono nei rispettivi domicili e non videoripresi in discoteca). Infatti il procuratore Messineo, nella sua costernata replica, fa notare pudicamente che “non sembra pertinente la citazione della sentenza Corte Costituzionale del 24 aprile 2002 n. 135 che non riguarda affatto la materia delle intercettazioni a carico di soggetti tutelati da immunità”. E, per carità di patria, evita di specificare quale materia riguarda. Resta da capire che cosa sia saltato in mente al laureato Scalfari, dottore in Giurisprudenza dal lontano 1946, di infilare fra le fonti giuridiche della sua reprimenda ai pm di Palermo un caso di sesso fra discotecari e ballerine. Ma forse, ancora una volta, vale la domanda che da qualche giorno ripetiamo inascoltati: in quelle due telefonate c’è qualcosa che noi non sappiamo e non dobbiamo sapere?
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“Gli italiani bombardano l’Afghanistan”. Lo scoop di “E” prima della chiusura. - Thomas Mackinson

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Nell'ultimo numero in edicola, il mensile di Emergency raccoglie la conferma del portavoce del nostro contingente: "Gli Amx vengono impiegati con sgancio di bombe". Quello che non era riuscito al ministro La Russa è stato ottenuto dal "tecnico" Di Paola. Senza dibattito parlamentare.

Coi cacciabombardieri a fare la pace, nessuno ci aveva creduto davvero. Ora arrivano una serie di conferme dirette dagli alti comandi impegnati a Herat che riaccendono le polemiche sui bombardamenti italiani in Afghanistan: si torna a parlare di violazione dell’articolo 11 della Costituzione (L’Italia ripudia la guerra…) e delle regole della democrazia parlamentare. Il governo viene chiamato da qualcuno a riferire in aula, ma la vicenda rischia di passare sotto silenzio. Era questione di tempo.
L’assalto è partito da lontano con l’ex ministro La Russa che per primo aveva incautamente proposto di armare i bombardieri italiani trovandosi davanti una levata di scudi. Cosa che è riuscita invece al ministro “tecnico” della Difesa Giampaolo Di Paola, che a gennaio ha deciso autonomamente di rimuovere completamente i “caveat”, cioè i limiti alle regole di ingaggio dei soldati in missione. E’ il via libera ai bombardamenti aerei del 51esimo stormo dell’Aeronautica militare fino ad allora erano stati impiegati come semplici ricognitori, senza neppure le bombe sotto le ali. Una scelta dall’enorme significato politico ed etico che avrebbe suggerito almeno un passaggio in aula, giusto per verificare che gli italiani l’Afghanistan lo vogliono bombardare davvero. Quella del ministro-ammiraglio fu invece una comunicazione alla commissione Difesa di Camera e Senato, nessun dibattito e nessun voto a ratificare l’uso delle bombe.
Peggio, un ordine del giorno del senatore Pd Marco Perduca impegnava il governo a rimettere al Parlamento la decisione ma è stato respinto svuotando di fatto le prerogative parlamentari. E ora quel vuoto solleva accuse all’indirizzo del governo. Sei mesi dopo, infatti, sono arrivate le prime ammissioni sui bombardamenti tricolore e le prime domande sugli effetti devastanti degli ordigni da 250 chili. L’ultimo a confermarne l’uso è stato il colonnello Francesco Tirino, portavoce del contingente italiano in Afghanistan. Al mensile di Emergency “E” (prossimo alla chiusura) Tirino ha confermato che nelle ultime settimane si sono intensificate le azioni di bombardamento dei quattro Amx dispiegati nella provincia di Farah per piegare la resistenza talebana nei distretti del Gulistan e di Bakwa entro l’autunno.
La domanda di Enrico Piovesana è senza scappatoie: “Colonnello, conferma l’offensiva militare con l’uso di Amx in missioni di bombardamento?”. “I nostri assetti, compresi gli Amx, sono utilizzati al cento per cento della loro capacità di difesa (…) Nell’ambito dell’operazione congiunta ShrimpNet gli Amx vengono impiegati con sgancio di bombe per le attività appena dette o per azioni preventive: ad esempio, le bombe a guida laser sganciate hanno distrutto un’antenna collocata in una zona impervia di montagna e usata dagli insorti per le loro comunicazioni radio”. Ma in zona non ci sono solo tralicci, ripetitori e parabole da colpire e fonti di stampa afghane riferiscono di decine di militari uccisi dal “fuoco amico”… “Non ho notizia di questo, non posso commentare”.
Prima della dichiarazione di Tirino l’impiego di bombe era rimasto un sospetto. Il Sole24Ore aveva avanzato il sospetto citando fonti anonime che poi il generale Luigi Chiapperini, comandante della missione italiana, non ha potuto smentire incalzato dai giornalisti italiani al seguito a Camp Arena, la base Nato di Herat sotto il comando tricolore. Bomba o non bomba che l’Italia fosse in guerra era chiaro da tempo. Lettera22 a colloquio con il generale Fabio Mini non si lascia scappare che il potenziale offensivo dispiegato in elicotteri “è ancora più distruttivo peché gli elicotteri Mangusta possono fare anche più male. Hanno fatto almeno 300 missioni. Proprio qualche settimana fa un collega mi ha parlato di un’operazione con 60 “insorti” uccisi. Non erano Amx ma elicotteri».
A Roma le parole dei colonnelli sono sale su una ferita aperta che pochi vogliono sentire. Prova ad alzare la voce il capogruppo Idv in Commissione Difesa Augusto Di Stanislao: “Ho depositato un’interpellanza urgente affinché il Governo ci spieghi che cosa stiamo facendo esattamente laggiù perché armare gli aerei e tirare bombe dovrebbe aiutare la transizione democratica”.

Tonno Riomare sostenibile nei supermercati: realtà o illusione?




Ieri tra gli scaffali del supermercato ho trovato una confezione di scatolette Riomare con la dicitura “Tonno pescato a canna”. Finalmente! Il colosso italiano del tonno ha deciso di offrire un prodotto sostenibile anche sul mercato italiano, dopo quello tedesco e austriaco. E con tutte le informazioni che Greenpeace chiede da tempo sulla confezione! 

Vuol dire che quando sono i consumatori a chiederlo l’industria può davvero cambiare. Più di 43 mila persone, infatti, hanno firmato la nostra petizione per chiedere  al tonno “che si taglia con un grissino” di muoversi verso metodi di pesca sostenibili.

Oggi i consumatori italiani possono scegliere - insieme al tonno pescato con canna di AsdoMar  - anche un prodotto Riomare che garantisca la salvaguardia delle popolazioni di tonno e tutto l’ecosistema marino. Quell’ecosistema che la pesca industriale eccessiva sta distruggendo fino a farlo diventare un deserto.

Ma Riomare è diventato davvero “responsabile” o è soltanto un’illusione, come quell’isolata confezione al supermercato? I prodotti sostenibili dell’azienda sono purtroppo una minima parte: Riomare non si è ancora impegnato a vendere solo tonno pescato in maniera sostenibile.

Greenpeace chiede all’azienda di garantire in tutti i suoi prodotti solo tonno pescato con canna e senza metodi distruttivi come i FAD, così come ha fatto per il 45% della sua produzione.

Riomare ha dimostrato che se vuole può cambiare, ecco perché noi consumatori dobbiamo continuare a chiederglielo. Firma anche tu la petizione.


http://www.greenpeace.org/italy/it/News1/blog/tonno-riomare-sostenibile-nei-supermercati-re/blog/41356/