lunedì 20 agosto 2012

“Le telefonate di Mancino a Napolitano non rientrano nelle tutele della Carta”. - Giovanna Trinchella


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Il senatore dell'Italia dei Valori Luigi Li Gotti sostiene che in un verdetto del 2004 la Consulta ha già stabilito che il capo dello Stato è uguale agli altri cittadini: "La pretesa di Napolitano di volere sottoporre a un regime speciale le sue telefonate, quelle ricevute, è fuori dai principi costituzionali affermati della Consulta, è al di fuori di atti tipici, individuati dalla sentenza".

“La Corte Costituzionale ha giá detto che tutti i cittadini sono uguali, anche il capo dello Stato. Buona lettura anche al nostro Presidente”. E’ il senatore dell’Idv Luigi Li Gotti sul suo sito a citare un verdetto della Consulta, datato 26 maggio 2004, che ha stabilito che il perimetro entro il quale il presidente della Repubblica è immune si apre e si chiude nell’ambito dell’esercizio delle funzioni costituzionali, come sancito dall’articolo 90 della Costituzione. In questo caso i giudici decisero su un conflitto sollevato da Francesco Cossiga dopo una condanna a risarcire in sede civile per diffamazione i parlamentari Flamigni e Onorato dando torto al “Picconatore” e stabilendo che è il giudice ordinario a definire quali siano le funzioni costituzionali.
“Ricevere una telefonata da Mancino non è stato un esercizio delle funzioni” dice il senatore al fattoquotidiano.it, e alla domanda se questo verdetto si attagli al caso Napolitano-Procura di Palermo Li Gotti non ha dubbi: ”Sì, il principio è questo: è l’applicazione dell’articolo 90. La sentenza della Consulta ha individuato quali sono gli atti funzionali per i quali si applica l’articolo 90 nell’esercizio delle funzioni e gli atti invece non funzionali del presidente della Repubblica per i quali è un normale cittadino e quindi il principio si estende anche alle telefonate. La pretesa di Napolitano di volere sottoporre a un regime speciale le sue telefonate, quelle ricevute, è fuori dai principi costituzionali affermati della Consulta, è al di fuori di atti tipici, che individua la sentenza. E poi non esiste nessuna altra norma costituzionale che possa privilegiare il ruolo del capo dello Stato. Tanto è vero che Cossiga a seguito di quella sentenza della Consulta pagò 40 mila euro a due parlamentari”. Di quella corte, che stabiliì questo principio, era presidente Gustavo Zagreblesky, che proprio venerdì in un intervento sul quotidiano la Repubblica ha invitato Napolitano a ritirare il conflitto
Le telefonate tra il Quirinale e l’ex presidente del Senato, indagato a Palermo per falsa testimonianza, sono secondo Li Gotti fuori dal quel perimetro di insindacabilità: “La Corte Costituzionale in quella sentenza interviene delimitando il campo di qual è la materia delle funzioni, affermando peraltro un altro principio per cui l’unico che può stabilire se si tratti di attività nell’esercizio delle funzioni o meno è il giudice ordinario. E’ questo il principio e infatti qualora il giudice dovesse sbagliare ci sono i rimedi come l’appello, il ricorso in Cassazione ma non il conflitto di attribuzione”.
Sul destino del conflitto tra il Colle e i magistrati che indagano sulla trattativa mafia-Stato Li Gotti ha la sua previsione: “La mia prognosi è che se la corte afferma il medesimo principio dovrebbe concludere che non esiste un conflitto di attribuzione, né potrebbe dire la corte che il legislatore può fare una norma allargando la platea dell’articolo 90 perché sarebbe un aggiunta e le aggiunte non si fanno in materia costituzionale”. Sulla lacuna normativa che molti intravedono nella materia l’avvocato-senatore esprime un dubbio e argomenta la sua convinzione: “Lacuna? C’è forse una lacuna nell’ordinamento; però voglio dire per quale motivo le esternazioni di Cossiga possono essere sindacate, anche da capo dello Stato come da comune cittadino, e sulle telefonate che riceve il capo dello Stato il magistrato dovrebbe arrendersi e distruggerle? Ecco dov’è l’equilibrio tra i principi affermati pochi anni fa dalla corte Costituzionale? Corte anche composta da Onida (il costituzionalista Valerio Onida, ndr) che oggi fa tutto quanto l’uomo schierato a difesa della giustezza del conflitto di attribuzione. Onida ha preso posizione, ora dice che è corretta la strada del conflitto. Invece la corte Costituzionale (di cui Onida era componente, ndr) ha stabilito che il giudice ordinario può stabilire quali sono le attività funzionali e quali no e quindi sarà il giudice ordinario che potrà stabilire se le telefonate rientano nelle attività funzionali oppure no”. 
Li Gotti conclude la sua riflessione  su Luciano Violante, senatore ex presidente della Camera che ha parlato di populismo giuridico: “Per rispondere alle critiche a Scalfari, Violante ricorre oggi ad una formula antichissima: estrae dal cilindro il ‘populismo giuridico’ con cui liquida al rango di bassa rozzezza i profili giuridici di rango costituzionale evocati nelle critiche a Scalfari-Monti-Napolitano. Gli ho ricordato sul mio blog che l’avvocato che vinse quella causa innanzi alla Consulta era il responsabile del Dipartimento giustizia del Partito comunista … oltre essere avvocato di Violante”. Una critica più velata di quella rivolta al  fondatore del quotidiano “la Repubblica” che ieri nel suo editoriale aveva “agganciato” la sua riflessione alle ragioni del Quirinale: “Il Presidente Napolitano ripercorre ora la stessa strada e tenta di farsi riconoscere come cittadino diverso dagli altri. I suoi sostenitori, con Eugenio Scalfari in testa, non leggono le sentenze. Essi non hanno tempo, perché invece devono scrivere per informare i lettori. In verità essi vogliono trasmettere ai lettori la loro ignoranza, sperando che gli venga riconosciuto lo status di “guru” ufficiale”.

Chi è Formigoni?

Formigoni: “Io innocente, i verbali falsificati dai giornalisti del Fatto”. Martina Castigliani.

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Il presidente della Regione Lombardia attacca il giornale: "Manipolato tutto, la gente crede in me e io in loro. Così continuo a lavorare fino alla fine del mio mandato. Il mio incontro con Monti? Mi sono complimentato con lui per la presa di posizione sulle intercettazioni telefoniche".

“La gente crede in me e io credo in loro e continuiamo a lavorare”, sono le prime parole che Roberto Formigoni dice, mentre passeggia pacificamente davanti al palco poco prima che Mario Monti intervenga per il discorso di apertura del meeting di Rimini di Comunione e Liberazione. È l’ospite meno atteso, il presidente della Regione Lombardiaindagato per corruzione messo in discussione dalla base e dai militanti. La sua presenza è stata confermata solo tre settimane fa e se negli anni passati era una delle attrazioni del meeting, quest’anno ce lo si aspettava solo mercoledì per un incontro lontano dai riflettori. Poi l’arrivo nel primo giorno del lancio come se niente fosse, e il posto in prima fila nell’auditorium centrale dove il primo ministro Mario Monti ha parlato di politica, crescita, giovani e futuro.
Mentre il presidente del consiglio passeggiava per la fiera, Formigoni ne ha approfittato per andarsi a sedere in sala. Questo è bastato far scattare un applauso dalla platea. E il presidente dice: “Me lo aspettavo”. Nemmeno un po’ di imbarazzo da parte del presidente lombardo, che se ha qualche titubanza non la lascia trasparire e dichiara l’assoluta fiducia nei suoi sostenitori. “La gente – dice con fermezza Formigoni, – non è fessa, non si è lasciata abbindolare dalle menzogne raccontate innanzitutto da alcuni giornali e televisioni e poi seguiti pedissequamente da tutti i giornali e da tutte le televisioni. Il Fatto Quotidiano è stato il primo che ha raccontato menzogne falsificando i verbali, come io ho dimostrato, ma la gente non crede più a queste bugie, crede quello che vede e che sperimenta. Sanno chi è Formigoni e continuano ad apprezzarlo e sostenerlo”. Il presidente lombardo si riferisce agli articoli del Fatto Quotidiano sull’inchiesta giudiziaria che lo ha visto come protagonista, e conclude con un gioco di parole dicendo “i fatti sono più forti del Fatto”. Tra i verbali “Il mio ruolo non è ridimensionato né al meeting né in regione Lombardia – continua Formigoni, – e resto fino al 2013. In 17 anni da Presidente della Lombardia mi hanno mandato 14 avvisi di garanzia, questo è il quattordicesimo. I precedenti 13 sono tutti finiti nel nulla nel senso che non sono mai stato condannato, e sono stato mandato 11 volte a processo con 11 assoluzioni, quindi ho vinto 11 a zero. Questo è il quattordicesimo avviso e anche questo farà la fine degli altri, andrà a finire nel cestino della carta, per usare un’espressione elegante”.
 A incuriosire pubblico e cronisti è l’incontro che il presidente lombardo ha avuto in privato proprio con Mario Monti, in un salottino della fiera pochi minuti prima dell’inizio del discorso inaugurale. E alla domanda de Il Fatto Quotidiano.it, se il primo ministro gli abbia dato qualche suggerimento in merito alla politica chiedendogli di dimettersi, Formigoni risponde: “No assolutamente no, anche Monti come tutta l’altra gente non crede ad una virgola di quello che i giornalisti hanno scritto mille volte. Nel nostro incontro, mi sono semplicemente congratulato con lui per la splendida intervista che ha fatto a Tempi: per aver sollevato con coraggio il tema delle intercettazioni, per aver detto che bisogna fare una riforma della giustizia, che l’evasione fiscale è uno dei mali dell’Italia da scacciare e abbiamo scambiato alcune battute sul momento politico attuale che è certamente delicato”.
Roberto Formigoni seduto in prima fila nell’auditorium della Fiera di Rimini ha seguito tutto il discorso inaugurale del meeting con Emilia Guarnieri, Presidente della Fondazione Meeting per l’amicizia fra i popoli, Giorgio Vittadini, Presidente della Fondazione per la Sussidiarietà e Mario Monti. Protagonista Don Giussani citato nel corso della giornata da tutti gli intervenenti e capace di suscitare un applauso spontaneo ogni volta da parte del pubblico, l’esempio morale a cui anche Formigoni fa riferimento: “Io sono uno dei tanti aderenti a Cl, non ho alcun ruolo di guida o di capo, li ho lasciati nel 1987 quando sono entrato in politica. La responsabilità politica è personale. Don Giussani ha educato degli adulti che si assumessero le proprie responsabilità. Alcuni si sono impegnati nel mondo del lavoro, nelle aziende, altri in missione e altri ancora in politica.Comunione Liberazione è un punto di riferimento ed è un aiuto ad impostare la vita”.

Clini: "blocco Ilva avrebbe effetti sociali drammatici"

Clini: blocco Ilva avrebbe effetti sociali drammatici

(AGI) - Rimini, 20 ago. - Difendere l'ambiente non vuol dire bloccare lo stabilimento dell'Ilva di Taranto anche perche' questo aprirebbe la strada a "fenomeni sociali che sarebbero drammatici". E' quanto ha affermato il ministro dell'Ambiente, Corrado Clini, intervenendo al Meeting di Comunione e Liberazione in corso a Rimini. Il ministro ha sottolineato che "difendere l'ambiente vuol dire difenderlo facendo e non bloccando. Difendere bloccando vuol dire bloccare lo sviluppo del Paese e aprire la strada a fenomeni sociali che sarebbero drammatici". Stamane, Clini aveva confermato che le procedure per la concessione della nuova autorizzazione integrata ambientale (Aia) allo stabilimento Ilva di Taranto si chiuderanno entro il 30 settembre. "Va avanti il programma di lavoro, il 30 settembre finiamo - ha assicurato Clini - e a meta' dello stesso mese andremo a Taranto per verificare lo stato dell'arte". Alla riunione odierna sull'Aia erano presenti, come precisato dallo stesso ministro, rappresentanti di "ministero dello Sviluppo economico, ministero della Salute, Regione Puglia, Istituto superiore di sanita', Ispra e Ilva". - Secondo Clini, "La strada indicata dal Tribunale del Riesame e' convergente con quella indicata dal Governo: lavoriamo nella stessa direzione, ora spetta all'Ilva investire". E riguardo alle presunte morti legate alle attivita' dell'acciaieria Ilva di Taranto, Clini ribadisce che il fenomeno si ferma "investendo nello sviluppo tecnologico e non lasciando il deserto". E lo stesso Clini ha fatto presente che in queste settimane lui personalmente e il governo stanno vivendo momenti di "angoscia". "Dobbiamo confrontarci - ha detto - con chi alza il cartello del numero dei morti. Lo sappiamo. Ma quella tragedia si ferma investendo nello sviluppo tecnologico e non lasciando il deserto". Per il responsabile Ambiente del Partito Democratico, Stella Bianchi "Le motivazioni della decisione del riesame sull'Ilva indicano la possibilità che la necessaria azione di risanamento e bonifica dell'impianto industriale di Taranto possano svolgersi senza pregiudicare il funzionamento dell'impianto". "Il blocco dell'impianto avrebbe ricadute di estrema gravita sull'occupazione e sull'attività dell'intera siderurgia italiana - prosegue l'esponente dei democratici - Siamo convinti che il diritto alla salute e all'integrità ambientale debbano essere coniugate con la tutela del lavoro e dell'attività produttiva. Va quindi perseguita ogni strada che consenta di procedere in modo rapido, certo e misurabile alla riduzione delle emissioni inquinanti e alla bonifica mantenendo per quanto possibile il funzionamento dell'impianto". Per il presidente del Senatori dell'Italia dei Valori, Felice Belisario, "I magistrati di Taranto sono stati ingiustamente attaccati dal Governo solo per aver fatto il proprio lavoro, ma fino ad oggi hanno dimostrato di essere gli unici ad avere a cuore la salute degli operai tarantini nel rispetto dei posti di lavoro. Mentre a Taranto sfilavano in passerella i ministri e le forze politiche della sgangherata maggioranza facevano a gara per incensare Il Governo e i padroni dell'Ilva,la magistratura tarantina ha retto lo scontro tenendo la schiena dritta".

http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201208201818-ipp-rt10147-clini_blocco_ilva_avrebbe_effetti_sociali_drammatici

E qui spieghiamo il perchè del suo intervento:

Ilva, la telefonata: 'Clini uomo nostro' Il ministro dell'Ambiente si ribella.



Un sistema di potere ramificato in grado di arrivare a chiunque, almeno a parole, per sistemare le questioni dell’Ilva. Nuove riflessioni arrivano dall’informativa redatta dal Gruppo di Taranto della Guardia di Finanza nell’inchiesta per corruzione in atti giudiziari. In essa sono indagati Fabio Riva, per un certo periodo presidente del siderurgico, Girolamo Archinà, uomo della pubbliche relazioni del gruppo Riva, l’ex direttore dello stabilimento siderurgico Luigi Capogrosso e il consulente della Procura ed ex preside del Politecnico di Taranto Lorenzo Liberti. I pubblici ministeri hanno deciso di depositare una parte di quell’informativa allo scopo di dimostrare la capacità di inquinamento probatorio del gruppo Riva. Alcuni stralci di intercettazioni telefoniche e ambientali fanno clamore. "Clini è uomo nostro", dice Girolamo Archinà parlando, nel 2010, con un consulente del gruppo Riva, già funzionario del Cnr.  Clini è l'attuale ministro dell'Ambiente nel Governo Monti (nominato nel marzo del 2011) e in precedenza è stato a lungo direttore generale dello stesso ministero (dal 1991 al 2011).

Subito è arrivata la risposta di Clini che ha negato di conoscere il manager dell'Ilva Girolamo Archinà: 'La questione dell'autorizzazione integrata ambientale del luglio-agosto del 2011 - ha spiegato a Sky Tg24 - e' stata fatta dall'allora ministro dell'Ambiente Prestigiacomo io non ho avuto mai nulla a che fare. La mia responsabilita' come direttore generale non riguardava infatti le autorizzazioni integrate ambientali'.

Il presidente dei Verdi Angelo Bonelli però insorge: "Il ministro dell'Ambiente Corrado Clini deve fornire subito spiegazioni sull'intercettazioni in cui il manager dell'Ilva Archina' dice dell'allora direttore generale del ministero dell'Ambiente 'Clini e' un uomo nostro'".

"Su questo punto e' necessario fare la massima chiarezza - conclude Bonelli - perche' il ministro dell'Ambiente e' stato il ministro a cui il governo ha affidato il dossier Taranto".

http://m.libero.it/m/libero-affaritaliani/d/49/Ilva,%20la%20telefonata:%20'Clini%20uomo%20nostro'%20Il%20ministro%20dell'Ambiente%20si%20ribella/b41451d119c859546fb327d1d73aae15  .

Ilva, Riesame: «Inquinare fu scelta voluta Gestione ad alta potenzialità distruttiva»


L'Ilva di Taranto (foto Renato Ingenito - Ansa)


Il Tribunale: «Disastro in atto, serve sforzo imponente per rimuoverlo. Sì a produzione solo se resa ecocompatibile. Grave pericolo per la vita delle persone». Passera: no a decisioni irrimediabili.

ROMA - Il Tribunale del Riesame ha depositato stamattina le motivazioni in base alle quali il 7 agosto scorso ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell'Ilva.«Ritengo che il sito non debba essere oggetto di decisioni irrimediabili come lo spegnimento» ha detto oggi il ministro dello Sviluppo economico, Corrado Passera.

Sequestro senza facoltà d'uso. Il tribunale del Riesame ha confermato il sequestro degli impianti a caldo dell'Ilva senza concedere la facoltà d'uso, che peraltro - viene sottolineato - non era stato richiesto neppure dai legali del Siderurgico. 

Tribunale: interrompere i reati contestati. Il tribunale del Riesame, confermando il sequestro Ilva, dispone che non si continuino a perpetrare i reati contestati nel provvedimento cautelare. Sul percorso da seguire per interrompere i reati, i giudici - viene riferito da fonti giudiziarie - non si sbilanciano e affidano il compito ai custodi nominati dal gip e alla procura. Il provvedimento - notificato all'Ilva - è di circa 120 pagine. Nel dispositivo della propria decisione (depositato il 7 agosto scorso), il tribunale del Riesame scriveva: «I custodi garantiscano la sicurezza degli impianti e li utilizzino in funzione della realizzazione di tutte le misure tecniche necessarie per eliminare le situazioni di pericolo e della attuazione di un sistema di monitoraggio in continuo delle emissioni inquinanti». Per rafforzare questa disposizione, il tribunale aveva nominato custode giudiziario proprio il massimo rappresentante Ilva, Bruno Ferrante: «Nella sua qualità - precisa il tribunale nel dispositivo - di presidente del Cda e di legale rappresentante di Ilva spa». La nomina di Ferrante, quattro giorni dopo la decisione del Riesame, è stata revocata dal gip Patrizia Todisco.

«Gestione ad alta potenzialità distruttiva». Le modalità di gestione dell'Ilva di Taranto, scrive il Riesame, sono state tali da produrre un "disastro doloso": «Azioni ed omissioni aventi una elevata potenzialità distruttiva dell'ambiente (...), tale da provocare un effettivo pericolo per l'incolumità fisica di un numero indeterminato di persone». 

«Attività inquinante è stata una scelta voluta dalla proprietà». Per il Tribunale del Riesame, il «disastro» prodotto dall'Ilva a Taranto è stato «determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà, per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti». Proprietà e gruppi dirigenti «che si sono avvicendati alla guida dell'Ilva», secondo i giudici del tribunale del riesame di Taranto, «hanno continuato a produrre massicciamente nella inosservanza delle norme di sicurezza dettate dalla legge e di quelle prescritte, nello specifico dai provvedimenti autorizzativi». In un'altra parte del loro provvedimento i giudici del Riesame, sullo stesso tema, annotano: «Dalle varie parti dello stabilimento vengono generate emissioni diffuse e fuggitive non adeguatamente quantificate, in modo sostanzialmente incontrollato e in violazione dei precisi obblighi assunti dall'Ilva, nella stessa Aia e nei predetti atti d'intesa, volti a limitare e ridurre la fuoriuscita di polveri e inquinanti». I giudici ritengono che «le emissioni nocive che scaturivano dagli impianti, risultate immediatamente evidenti sin dall'insediamento dell'attuale gruppo dirigente dello stabilimento Ilva di Taranto, avvenuto nel 1995, sono proseguite successivamente», nonostante una condanna definitive per reati ambientali. Inoltre, nonostante i «molteplici» impegni assunti dall'Ilva con le pubbliche amministrazioni per migliorare le prestazioni ambientali del siderurgico, i dirigenti dello stabilimento non hanno mai assolto agli obblighi.

«Grave pericolo per la vita di un numero indeterminato di persone». L'attività inquinante dell'Ilva - secondo il Riesame - ha provocato una «gravissima contaminazione ambientale» che consiste nella «contaminazione di una vasta area di terreno compresa tra i territori dei Comuni di Statte e Taranto». La contaminazione «ha comportato ingenti danni economici alle locali aziende zootecniche, ma soprattutto ha creato una situazione di grave pericolo per la salute e la vita di un numero indeterminato di persone». L'attività inquinante - sottolineano i giudici - si è protratta «per anni nonostante le osservazioni e i rilievi mossi al riguardo dalle autorità preposte alla salvaguardia dell'ambiente e della salute. Ciò emerge inconfutabilmente circa le emissioni inquinanti rivenienti dalla singole aree dello stabilimento». A questo riguardo i giudici rilevano, tra l'altro, che già nel maggio 2007 l'Arpa Puglia aveva reso noto che le emissioni di diossina attribuibili all'Ilva «avessero subito un decisivo incremento, passando il contributo complessivo dello stabilimento di Taranto, al totale nazionale prodotto, dal 32% dell'anno 2002 al 90% del 2005».

«Disastro eliminabile solo con misure imponenti».
 Il disastro ambientale doloso prodotto dall'Ilva, scrive il Riesame, è «ancora in atto» e «potrà essere rimosso solo con imponenti e onerose misure d'intervento, la cui adozione, non più procrastinabile, porterà all'eliminazione del danno in atto e delle ulteriori conseguenze dannose del reato in tempi molto lunghi». 

«Produzione solo se resa ecocompatibile». L'Ilva - secondo il Riesame - deve, da un lato, eliminare «la fonte delle emissioni inquinanti (con la rimodulazione dei volumi di produzione e della forza occupazionale)», dall'altro «provvedere al mantenimento dell'attività produttiva dello stabilimento», solo dopo averla resa «compatibile» con ambiente e salute.

Il "video-fotoromanzo" del Misfatto: "All'Ichea a compare il Pd"

Spending review, risparmi per tutti? No, il governo salva la casta dei diplomatici. - Thomas Mackinson


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Guadagnano più di Merkel e Hollande, ma per loro il taglio non c'è. I privilegi di ambasciatori, consoli e funzionari restano grazie a un emendamento ad hoc e il governo scarica le riduzioni di spesa sul personale a contratto. E così in India l'Italia finisce in tribunale per discriminazione etnica.

Guadagnano più di Merkel e Hollande, ma per loro il taglio non c’è. La casta diplomatica si salva dalla spending review del governo che nel frattempo scarica le riduzioni di spesa sul personale a contratto, fino a causare incidenti diplomatici dall’altra parte del mondo. Un emendamento ad hoc in Senato, frutto, secondo quanto è stato riferito da più fonti a ilfattoquotidiano.it, anche di un’insistente opera di lobby su governo e Quirinale, ha consentito ad ambasciatori e alti funzionari di mantenere privilegi e stipendi d’oro.
Remunerazioni che di questi tempi suonano come uno schiaffo ai contribuenti. Può stare tranquillo l’ambasciatore italiano all’estero: continuerà a guadagnare 380mila euro lordi l’anno tra indennità di servizio (esentasse) e stipendio metropolitano (tassato) cui vanno aggiunti il 20% di maggiorazione per il coniuge, il 5% per i figli, indennità di rappresentanza e sistemazione, contributo spese per residenza e personale domestico. Più premio di risultato variabile da 50 a 80mila euro. Quello che sta a Parigi, ad esempio, prende 320mila euro netti, 125mila euro di oneri di rappresentanza, 64mila per la moglie e 16mila per il figlio. Anche i consoli non avranno di che preoccuparsi. Ad Amburgo, ad esempio, il console continuerà a percepire i suoi 5mila euro al mese di stipendio versati in Italia e 14mila d’indennità netti ed esentasse perché non fiscalizzati né in Italia e né in Germania.
Di ambasciatori, consoli e segretari extra lusso il nostro Paese continuerà a dare sfoggio nel mondo, la spending review infatti non taglierà uno dei 919 diplomatici oggi in servizio. Alla fine dei conti son cifre da capogiro: la sola voce “indennità di servizio” nel 2012 impegna 311 milioni di euro e salirà a 344 l’anno prossimo, con una spesa ulteriore di 44 milioni che va nella direzione contraria ai tagli riservati ad altre categorie di dipendenti dello Stato.
Riduzioni che invece colpiscono il personale già “povero” assunto nelle nostre ambasciate con contratti e tariffe locali. A loro la spending review riserva l’ennesimo blocco degli aumenti, come da dieci anni a questa parte. Una notizia che scava ulteriormente il solco della disparità che caratterizza le nostre sedi di rappresentanza nel mondo, dove fianco a fianco lavorano funzionari e autisti mandati da Roma a seimila euro netti al mese e altrettanti colleghi di nazionalità straniera che prendono dieci volte meno.
Una disparità che da pochi giorni è diventata un vero e proprio caso diplomatico in India, dove il personale assunto in loco ha trascinato in tribunale l’ambasciatore italiano con l’accusa di discriminazione etnica. Una contesa attentamente seguita dai quotidiani indiani ma taciuta a Roma e che rischia ora di acuire i rapporti già tesi per la questione dei marò. Intanto per gli insegnanti di lingua italiana all’estero è un bagno di sangue: la spending review taglia il 40% dei professori che insegnano la lingua italiana nel mondo. Così il Paese rischia di diventare più “piccolo” nel mondo, tutto per non intaccare i privilegi di pochi che a Roma dettano legge. 
L’EMENDAMENTO CHE SALVA I DIPLOMATICI
L’emendamento è di quelli insidiosi che arrivano un po’ a sorpresa e passano senza troppo clamore, pur avendo conseguenze importanti sul bilancio dello Stato e su migliaia di persone. Così è stato per la revisione di spesa del  ministero degli Affari Esteri. Come tutte la amministrazioni dello Stato la Farnesina era chiamata a fare la sua parte nel dettato della spending review con la regola generale del taglio del 20% degli organici dirigenziali e del 10% della spesa complessiva per il personale non dirigenziale. La spending review è legge ma non è andata proprio così.
Un emendamento al Senato ha offerto infatti un salvacondotto temporaneo ed esclusivo al ministero, non concesso ad altri settori della pubblica amministrazione ad eccezione del personale delle Prefetture in corso di accorpamento. L’emendamento è stato scritto su indicazione e proposta del governo dagli stessi relatori per la conversione in legge del Dl 95/2012), Paolo Giarretta del Pd e Gilberto Picchetto Frattini del Pdl. Giarretta spiega che è stato il ministro Terzi ad avanzare ufficialmente la richiesta.
Secondo fonti interne alla Farnesina invece la reale genesi del provvedimento sarebbe invece frutto delle pressioni esercitate sul governo dalle alte sfere della diplomazia. Non si spiega altrimenti cosa abbia indotto il governo ad emendare se stesso, facendosi promotore di un provvedimento che neutralizza totalmente gli effetti della sua stessa legge per salvaguardare una specifica categoria di dipendenti pubblici. Comunque sia il relatore Giarretta parla apertamente di “resistenza delle strutture” mentre il senatore Claudio Micheloni del Pd, che ha proposto emendamenti che riducono le indennità diplomatiche sistematicamente bocciati in aula, accusa frontalmente la lobby diplomatica di aver manovrato dietro le quinte e vinto: “Purtroppo anche questa volta gli interessi delle corporazioni hanno sopraffatto il buon senso della politica, ma è in arrivo un prossimo decreto e in quell’occasione riprenderò il lavoro su questi temi che sono vitali per i servizi rivolti agli italiani all’estero”.
E veniamo al testo. L’emendamento introduce al comma 5 la deroga ai due articoli principali della spending review con queste parole: “Per il personale della carriera diplomatica e per le dotazioni organiche del personale dirigenziale e non del Ministero degli affari esteri, limitatamente ad una quota corrispondente alle unità in servizio all’estero alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, si provvede alle riduzioni di cui al comma 1, nelle percentuali ivi previste, all’esito del processo di riorganizzazione delle sedi estere e, comunque, entro e non oltre il 31 dicembre 2012; sino a tale data trova applicazione il comma 6 del presente articolo”.
In altre parole non ci saranno riduzioni prima che il ministero stesso abbia riorganizzato le rappresentanze. Un differimento che potrebbe significare anni. La rivisitazione delle sedi estere (319 tra ambasciate, consolati, istituti di cultura) sarà infatti il prodotto finale di lunghe ed estenuanti trattative sulle quali insistono gruppi di interesse locali, sponde parlamentari tra i deputati eletti all’estero, lobby di funzionari ministeriali. I tagli futuri, poi, ricadranno solo sul personale impegnato all’estero (511 diplomatici, 12 dirigenti, 1.907) mentre lasciano intatto quello del ministero che conta circa 2.500 dipendenti.
Tradotto in cifre il taglio della revisione di spesa, quando sarà, non ricadrà sul 100% del personale ma sul 50%. Una spuntatina, quindi, niente più. Fino ad allora, per contro, il ministero non potrà assumere. Peggio, c’è chi aspettava aumenti tra il personale del ministero e non li vedrà neanche stavolta. In India, dove le differenze salariali tra personale assunto in loco dalle ambasciate e quello mandato da Roma sono enormi, il blocco degli stipendi è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso fino a provocare un incidente diplomatico.
DISCRIMINAZIONE ETNICA IN INDIA, COSI’ L’ITALIA FINISCE IN TRIBUNALE
Basta con la bella vita degli impiegati italiani nei paesi poveri. La notizia è apparsa in un trafiletto del 3 agosto scorso sul Times of India: il personale dell’Ambasciata italiana a Nuova Delhi ha deciso di trascinare in tribunale l’ambasciatore per discriminazione etnica e razziale. Il motivo? Il personale di categoria esecutiva ha saputo dell’ennesimo congelamento degli aumenti che fa seguito alla spending review e ha deciso che la misura è colma: a Nuova Delhi, Mumbai e Calcutta sono stufi di guadagnare dieci volte meno dei loro colleghi italiani mandati da Roma che, pur svolgendo identiche mansioni e con la stessa funzione, percepiscono stipendi che da quelle parti sono il risparmio di una vita, fino a 54mila euro l’anno. Dalla loro l’avvocato indiano, Gopal Shankaranarayanan, che ha preso carta e penna e ha scritto al Ministero degli Affari Esteri indiano.
Nella sua lettera segnala che l’Ambasciatore e il Governo Italiano non hanno preso le appropriate misure, nonostante ripetute richieste di sanatoria delle anomalie salariali, non lasciando altre alternative che risolvere la disputa in un tribunale. Non sono bastate diffide, appelli e richieste ufficiali. “L’unica opzione rimasta agli impiegati – spiega l’avvocato indiano – è di presentare ricorso alla Suprema corte di Delhi, per richiedere l’equiparazione dello stipendio e il rimborso degli arretrati a partire dalle rispettive date di assunzione”. I giornali locali hanno dato risalto alla vicenda anche perché nella stessa Alta Corte si sta discutendo la vicenda dei due marò italiani a Kerbala e i due processi potrebbero incendiare ulteriormente i rapporti diplomatici da tempo tesi.
La polemica potrebbe dilagare anche in altri Paesi in cui maggiormente stride il trattamento che l’Italia riserva ai propri connazionali inviati in missione e al personale assunto all’estero a costi locali. Un tema che spesso ha agitato le commissioni esteri di Camera e Senato dove sempre si discute di come ricomporre l’anomali italiana. Il nostro Paese, infatti, presenta percentuali decisamente superiori di personale in missione rispetto a quello contrattato in loco. La Farnesina ha 7.912 dipendenti di cui 4.222 di ruolo, 2.671 non di ruolo e 818 provenienti da altre amministrazioni. Il personale di ruolo all’estero è superiore a quello che sta a Roma (2.400 e 1933), solo il 45% è assunto in loco e questo comporta che un flusso di denaro enorme vada nelle voce delle indennità.
Ma la discriminazione avviene anche tra italiani all’estero. Mentre tutto il personale diplomatico passa indenne grazie all’emendamento ad hoc, la spending review colpisce quello inviato per l’insegnamento della lingua e cultura italiana, un driver dell’italianità che tutti difendono a parole ma che riceve una sforbiciata importante. Il taglio i docenti assunti presso il ministero nell’anno 2012/2013 sarà di 139 unità accompagnato dal blocco delle nomine. Che si aggiunge al taglio del 40% di quelli assunti presso il Miur che invece i tagli li applica eccome. Gli effetti sono così modesti che nessun giornale ne parla (2,6 milioni quest’anno e 16 milioni a regime) ma va ben al di sopra di quella regola del 20% che la spending review riserva a (quasi) tutti i comparti della pubblica amministrazione.

Regione Lazio: ai partiti 4 volte più della Camera. - Sergio Rizzo


Contributi ai gruppi consiliari: il confronto con Montecitorio. Numeri finora sconosciuti emersi grazie alla pubblicazione del bilancio sul sito Internet dei Radicali.

ROMA - Da destra a sinistra non c'è chi non abbia invocato più trasparenza sui soldi pubblici destinati alla politica. Ma di passare ai fatti non se ne parla proprio. Se si eccettuano, naturalmente, alcune meritorie iniziative purtroppo isolate.
Qualche settimana fa il gruppo radicale al Consiglio regionale del Lazio presieduto dall'avvocato Giuseppe Rossodivita ha pubblicato sul sito internet il proprio bilancio. Un documento impressionante, che illumina un angolo del capitolo costi della politica finora tenuto accuratamente all'oscuro. Ovvero, i contributi che le Regioni erogano ai gruppi «consiliari».
Nel 2011 il Consiglio regionale del Lazio ha versato al gruppo radicale, composto da due persone, 422.128 euro. Dividendo a metà questa somma si può dedurre che ogni singolo consigliere abbia avuto lo scorso anno a disposizione 211.064 euro. Oltre, naturalmente, a stipendio, diaria, annessi e connessi. Un paragone con i contributi ai gruppi parlamentari della Camera rende bene l'idea delle dimensioni.
La presidente della Regione, Renata Polverini (Imagoeconomica)La presidente della Regione, Renata Polverini (Imagoeconomica)
Nel 2011 sono stati pari a 36 milioni 250 mila euro, cifra che divisa per i 630 onorevoli dà 57.539 euro. Morale: i gruppi politici del Consiglio regionale del Lazio incassano contributi quasi quadrupli rispetto a quelli di Montecitorio. Proiettando i 211.064 euro procapite sulla platea dei 71 consiglieri, si ha la strabiliante somma di 15 milioni. Esattamente 14 milioni 985.544 euro. L'anno, e per una sola delle 20 Regioni italiane. Questo, almeno, dicono i numeri.
Anche quei denari, come i rimborsi elettorali, possono essere considerati parte integrante del finanziamento pubblico ai partiti. Ma con una differenza non da poco: la loro entità è pressoché sconosciuta. Intanto ci sono Consigli regionali che non pubblicano nemmeno il bilancio. Nel Lazio, poi, c'è l'abitudine delle cosiddette «manovre d'Aula». Che però, pur chiamandosi così, formalmente per «l'Aula» non passano affatto. Si tratta infatti di semplici delibere dell'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale adottate in momenti particolari. Per esempio a ridosso dell'approvazione di bilanci regionali particolarmente rognosi e dove bisogna evitare al massimo il rischio dei franchi tiratori.
In questa legislatura ne è già stata fatta una che stanzia 3 mila euro al mese procapite. E dato che i consiglieri sono 71, considerando anche la presidente Renata Polverini, quella «manovra d'Aula» ha determinato un introito annuale aggiuntivo per i gruppi «consiliari» di oltre due milioni e mezzo. Ma a che cosa servono quei soldi in più?
Il presidente del Consiglio regionale Mario Abbruzzese (Jpeg)Il presidente del Consiglio regionale Mario Abbruzzese (Jpeg)
Il conguaglio è giustificato con l'esigenza di pagare altri collaboratori. In realtà quei denari possono venire utilizzati con discrezionalità assoluta. Anche perché i collaboratori sono l'unica cosa che davvero non manca. Il Consiglio regionale del Lazio, da questo punto di vista, non teme confronti. In un'assemblea di 71 componenti, i gruppi «consiliari» sono ben 17: cinque di questi sono stati costituiti durante la legislatura, grazie al fatto che esiste un limite minimo. È ammesso, cioè, anche un gruppo composto da una sola persona. Diciamo subito che è una pessima abitudine in voga in quasi tutte le Regioni. Tanto che di «monogruppi» se ne contano 75 in tutta Italia.
Soltanto nel Lazio ne esistono ben otto: e sorvoliamo sulla definizione grottesca di uno di essi, il «gruppo misto» presieduto e composto dall'unico consigliere Antonio Paris. Il presidente di se stesso ha diritto a una indennità aggiuntiva di 891 euro netti mensili, e in quanto titolare di un «gruppo», può avvalersi di alcuni collaboratori. Sette, per l'esattezza: due laureati, due diplomati, una segretaria, un addetto stampa e un responsabile della struttura. Ma per i «gruppi» più numerosi si può arrivare fino a 24 dipendenti. Secondo le tabelle, il numero dei collaboratori dei politici nel consiglio regionale del Lazio potrebbero arrivare a 201.
Sarà questa l'impellente motivazione per cui la superficie della sede di via della Pisana ha bisogno di un ulteriore rilevante espansione? Lo prevede un bando da poco pubblicato sul sito internet del Consiglio, nel quale si spiega che «l'ampliamento consta nella realizzazione di n. 2 palazzine definite da tre livelli fuori terra più un piano interrato e un corpo centrale». Base d'asta, 8 milioni 259.750 euro e 49 centesimi. Iva esclusa. Questo per la serie: «riduzione dei costi della politica».