martedì 26 maggio 2020

Ora Salvini prende la linea da Feltri&c. - Antonio Padellaro

Il centrodestra in piazza Duomo a Milano il 2 giugno: Fontana sul palco per la carica contro il governo
Il titolo del Giornale è: “Sceriffi da strapazzo. Verso lo Stato di polizia”. Quello della Verità: “Conte arruola 60.000 spioni”. Si parla del reclutamento dei controllori civici antimovida da parte del governo, misura opinabile quanto si vuole (un esercito improvvisato, e poi per fare cosa?) non certo con la risibile accusa di aver creato una milizia di stampo autoritario. Quando invece i poveretti, disarmati e, a quanto sembra, privi di poteri sanzionatori rischiano di essere presi loro a ceffoni dal primo bullo privo di mascherina.
Poi la domanda sorge spontanea: ma costoro non erano i più securitari di tutto il cucuzzaro, roba che per anni ci hanno frantumato le orecchie auspicando cannonate sui barconi degli immigrati, ronde armate di quartiere e più fucilate per tutti (con la scusa della legittima difesa)? E adesso, di punto in bianco, povere stelle si scoprono un’anima così antiautoritaria, libertaria, non violenta, pacifista, permissiva che se fosse ancora vivo Marco Pannella li avrebbe iscritti di diritto (con una risata delle sue) all’associazione Nessuno tocchi Caino.
Il fatto è che alla destra politica di Salvini, Meloni e Berlusconi – divisa su Europa e Mes, confinata dal protagonismo di Giuseppe Conte in una frustrante opposizione, indecisa sul da farsi e in cerca di autore – sembra progressivamente sostituirsi la destra televisiva dei direttori di giornale e degli opinionisti col colpo in canna, sempre più protagonista dei talk e degli ascolti.
Priva di vincoli di partito, favorita da una certa anarchia editoriale è una guerriglia dattilografa che se ne può tranquillamente infischiare di equilibri politici, tattiche parlamentari e balle varie. Un Vietnam degli insulti e delle accuse determinato a perseguire un solo obiettivo, la devastazione dell’attuale governo bombardato incessantemente a colpi di napalm. Con polemiche che possono essere tutto e il contrario di tutto, la negazione oggi di ciò che veniva proclamato ieri, nella orgogliosa precarietà delle opinioni, dominata unicamente dal bersaglio nel mirino, l’odiato premier, e da una bussola infallibile: così è se ci pare. Un modello coerente di assoluta incoerenza sublimato nei giorni della quarantena con le richieste di chiusura, apertura e di nuovo chiusura, come in una gara di ubriachi ma di quelli tosti.
Per carità, nessuno scandalo, fa parte del gioco anche se non sapremmo dire fino a che punto Matteo Salvini e Giorgia Meloni lo abbiano compreso che in questo modo e a lungo andare l’intrattenimento finirà fatalmente per mangiarsi l’opposizione. Ribaltamento dei ruoli iniziato probabilmente con il testacoda del Papeete, quando per inseguire i pieni poteri, il cosiddetto capitano si ritrovò tra le mani il vuoto di potere. L’intendance suivra, l’intendenza seguirà diceva il generale De Gaulle (e forse prima di lui Napoleone), convinto che l’apparato logistico di sostegno (stampa compresa) avrebbe dato seguito alle decisioni dei vertici militari e politici. Infatti, prima di quel mojito di troppo, era l’acclamatissimo uomo forte del Viminale a dare la linea: contro gli immigrati e prima gli italiani. Con la stampa amica dietro.
Sembra trascorso un secolo. L’avvento del Covid-19 ha trasformato il nazionalismo del contrasto e dell’odio (verso l’altro) nell’orgoglio nazionale di una collettività solidale, e nell’amor patrio che sventola i tricolori alle finestre. “Si rafforza lo Stato, le istituzioni e il governo”, “mentre nell’emergenza ogni opposizione viene percepita come un ostacolo” (Repubblica di ieri, sondaggio di Ilvo Diamanti). Più il centrodestra si dimostra incapace di dire ciò che intende essere di fronte a emergenze impensabili soltanto tre mesi fa (presenza maggiore dello Stato in economia o meno Stato? E cosa significa continuare a definirsi sovranisti quando oggi più che mai si riconosce la necessità dell’Europa?).
Più il centrodestra si fossilizza nella narrazione di ciò che non intende essere, contando su improbabili spallate a una maggioranza coesa per istinto di sopravvivenza e assenza di alternative. E più continuerà a farsi dare la linea dai Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro, Alessandro Sallusti, o dai Mario Giordano, Paolo Del Debbio, Maria Giovanna Maglie (che tra l’altro a bastonare con le parole sono assai più bravi).

Diaz, cartelle “sbagliate” ai superpoliziotti: i condannati non pagano le spese ai pestati. - Marco Pasciuti

Diaz, cartelle “sbagliate” ai superpoliziotti: i condannati non pagano le spese ai pestati

Quarantuno cartelle esattoriali per un totale di un milione di euro. Sono una parte dei soldi che alti funzionari della Polizia condannati nel processo sui pestaggi e le prove false al G8 di Genova devono alle parti civili, i ragazzi massacrati la sera del 21 luglio 2001 nella scuola Diaz. Ma i condannati le hanno impugnate perché le somme sono state calcolate male e stanno vincendo le cause. La vicenda va oltre il processo concluso il 5 luglio 2012, quando la Cassazione conferma le condanne per 25 persone tra cui l’ex capo del Dipartimento centrale anticrimine Francesco Gratteri, l’ex numero uno della squadra mobile di Firenze Filippo Ferri e l’ex dirigente del reparto mobile di Roma Vincenzo Canterini. I giudici, infatti, stabiliscono che i condannati devono ripagare anche le spese legali alle parti civili ammesse al gratuito patrocinio. Gli importi sono stati anticipati, come da legge, dal ministero della Giustizia che poi ha affidato a Equitalia Giustizia il compito di recuperarli.
Nel 2018, però, le cartelle emesse nel 2017 cominciano a tornare indietro via tribunale. I condannati avevano cominciato a contestarle lamentando tra l’altro un “errore di quantificazione”. Gli importi, dicono, sono stati calcolati in via solidale. “Ma la legge 69/2009 ha riformulato l’articolo 535 del codice di procedura penale, che da allora stabilisce che la somma deve essere richiesta ‘pro quota’”, spiega Francesco Cento, ai tempi capo dell’ufficio legale di Equitalia Giustizia. Un esempio: se la pretesa era di 300mila euro e c’erano 10 condannati Equitalia chiedeva l’intera cifra a ciascuno di loro quando avrebbe dovuto chiederne 30mila a testa. Il principio era chiaro fin dal giudizio vinto il 9 ottobre 2018 dall’ex vicedirettore dell’Ucigos Giovanni Luperi. Lo aveva ribadito quel giorno in tre sentenze il giudice Stefania Salmoria: “Tale assunto – si legge – trova conferma nella nota ministeriale del 14.7.2009, emessa in attuazione della richiamata legge 69/2009”. Come ribadito poi in una circolare del luglio 2015 e in una nota di Maria Stella Moroni, capo dell’ufficio recupero crediti della Corte d’appello di Genova inviata a Equitalia Giustizia il 16 gennaio 2017 .
“A marzo 2019 – spiega il legale – c’erano state 41 impugnazioni per un totale di 1.034.902,67 euro. Finora sono arrivati 25 provvedimenti: un solo ricorso accolto, in 6 casi le cartelle sono state annullate, in 11 sono state sospese e in 7 casi è stata dichiarata cessata materia del contendere perché a pagare era stato il ministero”. Non della Giustizia, ma dell’Interno. “Sì, perché Equitalia gli ha trasmesso le cartelle in quanto responsabile civile per i danni causati dai suoi funzionari – prosegue – . Il Viminale le ha pagate e il loro annullamento gli impedirà di rivalersi sui condannati”.
Ora possiamo solo sperare che menti eccelse, super partes, decidano di chiudere la questione definitivamente ed equamente; se la giustizia che viene applicata e decisa non viene rispettata, è inutile varare leggi e imbastire cause che non producono l'effetto riparatore del danno causato.
E', oltretutto, diseducativo e destabilizzante opporre resistenza ad una decisione emessa da organi istituzionali.
 Gli avvocati azzeccagarbugli che si prestano a turpi scappatoie mancano di etica professionale e andrebbero radiati dall'albo.
Sarebbe utile, data la situazione ingarbugliata, che le parti si riunissero in camera caritatis per dirimere definitivamente ed amichevolmente la questione senza suscitare ulteriori scalpore e lungaggini, visti i 20 anni già trascorsi. cetta

I riporti delle nebbie. - Marco Travaglio

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Della riforma del Csm sappiamo solo che è stata annunciata dal ministro Bonafede e oggi sarà discussa dalla maggioranza. 
Era ora. Ma non basta. Chi ha lo stomaco e il fegato di leggere le intercettazioni dell’inchiesta su Palamara (anzi sul Csm) senza perdersi nei gossip da portineria, capisce bene la gravità della situazione: una magistratura (non tutta ma quasi) divisa fra chi ordisce trame di potere senza esclusione di colpi e chi è costretto a farci i conti turandosi il naso per non essere spedito a inseguire ladri di bestiame e di biciclette. Perciò intervenire solo sul Csm serve a poco: giusto sbarrare le porte girevoli che mandano i politici a giudicare i magistrati che si sono occupati di loro o dei loro amici (Casellati prima, Ermini ora); sacrosanto escogitare sistemi elettorali che taglino le unghie alle correnti, dedite a mercati delle vacche e nomine a pacchetto (io do una poltrona e te se tu ne dai una a me) in barba alla meritocrazia. Ma sono interventi “a valle”, mentre il problema ormai è “a monte”. Il cancro è arrivato al cervello ed è ancor peggio della partitizzazione dei membri laici e della correntizzazione dei togati: si chiama gerarchizzazione, verticalizzazione, questurizzazione delle Procure. È qui che inizia (quando inizia) l’azione penale, che poi sfocia in indagini, udienze preliminari, processi di primo, secondo, terzo grado.
Il Potere lo sa bene e infatti è proprio lì, alla sorgente, che ha concentrato i suoi sforzi non appena si è riavuto dallo choc di Tangentopoli e Mafiopoli dei primi anni 90. Come? Manomettendo il rubinetto che può trattenere o liberare l’acqua della Giustizia. Destra e sinistra amorevolmente inciuciate ci avevano provato nel 1996-’98 con la Bicamerale che metteva in riga le Procure con la famigerata bozza Boato. Ma per fortuna avevano fallito, grazie alla reazione contraria di un’opinione pubblica ancora memore e vigile e di una magistratura ancora rappresentata dai migliori: Borrelli, Caselli, D’Ambrosio, Maddalena, Paciotti e così via. Dieci anni dopo invece, nel 2006, la controriforma Castelli-Mastella riuscì nell’intento. Una controriforma scritta dal ministro leghista del governo B.2 e copiata paro paro, tranne pochi ritocchi, dal Guardasigilli del Prodi2, malgrado il centrosinistra si fosse impegnato in campagna elettorale a “cancellarla”. Il tutto con la benedizione del solito Napolitano, capo dello Stato e del Csm. E nel silenzio dei giornaloni e dell’Anm che invece, quando quelle porcherie le proponeva Castelli, aveva indetto tre scioperi. L’intervento più devastante fu proprio quello che snaturava la figura del Procuratore capo.
Che non fu più primus inter pares, organizzatore e coordinatore dei suoi sostituti, com’era stato per 25 anni; ma dominus assoluto dell’azione penale, con potere di vita e di morte sui pm ridotti a suoi camerieri, da lui “delegati” ad aprire o a non aprire fascicoli su questa o quella notizia di reato. Come negli anni 50 e 60 dei porti delle nebbie e delle sabbie. Da allora il singolo pm non è più titolare del “potere diffuso” che per un quarto di secolo ci aveva garantito una giustizia uguale per tutti: decide il capo quali reati iscrivere nel registro dei noti, o degli ignoti, o nella discarica del “modello 45” (refugium peccatorum di tanti insabbiamenti), chi chiedere di arrestare, perquisire, intercettare, rinviare a giudizio. Basta un don Abbondio o un don Rodrigo al vertice di una Procura, e su certi personaggi non si procede più. E, se il sostituto non è d’accordo, il capo può levargli il fascicolo senza dare spiegazioni al Csm. Se poi non lo fa lui, può pensarci il Procuratore generale con l’avocazione. Prima, per controllare le Procure, bisognava accordarsi con 2500 pm (mission impossible): ora basta tenere a bada 150 capi. Che hanno anche l’esclusiva dei rapporti con la stampa: il pm che parla ai giornalisti, magari per denunciare il capo che non lo fa lavorare, come fecero i pm di Palermo contro Giammanco dopo Capaci, finisce sotto procedimento disciplinare (lui, non il capo insabbiatore).
Le prime prove su strada del nuovo sistema gerarchico si ebbero a Catanzaro, con il procuratore e il Pg che scippavano le indagini di De Magistris e il Csm che lo cacciava. E, più di recente, nella Procura romana di Pignatone, con la mancata iscrizione di Renzi e De Benedetti per la soffiata sul Dl Banche e con la decisione di non sequestrare il cellulare di babbo Tiziano nell’inchiesta Consip (per fare carriera, conta più ciò che non si fa di ciò che si fa). Cose che difficilmente accadevano quando i singoli pm godevano non solo di “indipendenza” (esterna, dagli altri poteri), ma anche di “autonomia” (interna, dai capi), come prevede la Costituzione. E come del resto accade tuttoggi per i giudici che, per decidere un rinvio a giudizio o un proscioglimento, una condanna o un’assoluzione, non chiedono certo il permesso ai superiori: agiscono secondo scienza e coscienza. L’altro effetto collaterale della controriforma fu un’esplosione di appetiti e succhi gastrici, nel mondo giudiziario e nei poteri esterni, per le nomine di ogni capo: perché chi controlla il procuratore controlla tutta la Procura. Fa bingo, anzi strike. È questo il giochino che va smontato, con una riforma che restituisca ai singoli pm la titolarità dell’azione penale, cioè la stessa autonomia dei giudici. Il Csm arriva dopo, quando è troppo tardi.

lunedì 25 maggio 2020

Amazzonia in fiamme per la crisi da Covid. - Nicola Borzi

Amazzonia in fiamme per la crisi da Covid

Da inizio anno l’Amazzonia e altre foreste tropicali in Sudamerica, Africa e Asia sono tornate a bruciare a ritmi che non si erano mai visti negli ultimi tre decenni. A inquietare gli studiosi e le associazioni per la difesa dell’ambiente è il fatto che questo periodo nelle aree tropicali segna la stagione delle piogge, durante la quale in passato la deforestazione frenava. Anche la causa che alimenta i roghi è del tutto nuova: a spingere l’aggressione dell’uomo contro l’ecosistema è la crisi economica scatenata dalla pandemia.
La pressione dell’uomo sull’ambiente e sulle foreste tropicali ha innescato il meccanismo dello spillover, la fuoriuscita del coronavirus dalle specie animali all’uomo che ha scatenato la pandemia. Molti hanno creduto che la recessione causata dal Covid-19 portasse a una “tregua ecologica” consentendo all’ecosistema di beneficiare della frenata dell’economia. Gli effetti positivi dei lockdown per l’ambiente si sono visti nelle grandi aree urbane e industriali, ma la crisi ha impoverito ulteriormente larghe fasce di popolazione che già vivevano sotto la soglia di povertà, specialmente nelle aree rurali e vicine alle foreste nei Paesi in via di sviluppo. Anche grazie ai problemi di controllo del territorio dovuti al distanziamento sociale, le bande di criminali al soldo di latifondisti senza scrupoli e una massa crescente di disperati hanno visto le foreste tropicali come un tesoro da saccheggiare per riempirsi le tasche o tentare di sfamare le proprie famiglie. La deforestazione e gli incendi boschivi sono così ripresi in modo incontrollato.
Per estendere le loro produzioni, molti latifondisti hanno deciso di tornare all’assalto dell’Amazzonia. Con il 60% della foresta amazzonica all’interno dei suoi confini, nonostante il calo della deforestazione tra il 2005 e il 2014, già nel 2015 in Brasile il disboscamento illegale e gli incendi boschivi avevano iniziato a riprendere slancio. Già lo scorso anno gli incendi boschivi e i disboscamenti in Amazzonia avevano causato sgomento in tutto il mondo. Ma ora a far paura è l’attacco “fuori stagione”. Se nel 2019 la deforestazione era cresciuta addirittura del 46% rispetto al 2012, anno con il valore più basso dall’inizio delle statistiche, a impressionare adesso è l’ulteriore crescita record dei terreni aggrediti dall’uomo, pari al 51% rispetto allo stesso periodo dicembre 2018 – marzo 2019.
I dati emergono dal rapporto “Il Brasile e l’Amazzonia: disboscamento delle foreste pluviali, biodiversità e cooperazione con l’Unione Europea” preparato da Cristina Müller dell’Agenzia ambientale austriaca per l’Ufficio studi del Parlamento europeo. La maggior foresta pluviale della Terra ha una superficie di 7 milioni di chilometri quadrati, pari a 23 volte l’Italia. Un “bioma” esteso su nove paesi (Brasile, Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana, Suriname e Guyana francese) che comprende un mosaico di ecosistemi terrestri, acquatici, sotterranei e atmosferici tra foreste pluviali, stagionali, decidue, allagate e savane. L’Amazzonia è la casa di una specie su dieci al mondo e il “motore” della resilienza planetaria alla crisi climatica nel quale l’ecosistema, le specie e la diversità genetica lavorano in sincronia. Ma negli ultimi cinquant’anni un sesto della sua foresta primaria è stata distrutta e il dato sale a un quinto in Brasile.
Ma il Brasile è anche il principale Paese del Mercosur, l’area di libero scambio commerciale del Sudamerica. La bancada ruralista è la lobby parlamentare dei proprietari terrieri brasiliani, uno dei gruppi economici più potenti del Paese e ha sostenuto l’ascesa del presidente Jair Bolsonaro. L’aumento della deforestazione e la violazione da parte del governo del patto sociale pro-indigeno ora hanno incrinato la fiducia di molti Paesi nell’impegno del Brasile al rispetto degli accordi internazionali.
Come secondo maggiore partner commerciale del Mercosur dopo la Cina, l’Unione Europea sa che anche i modelli di consumo dei suoi cittadini sono motori della “deforestazione incorporata” e che creano un’elevata pressione sulle foreste nei Paesi extraeuropei accelerando i disboscamenti. Per frenare questo disastro la Ue intende garantire il commercio di “prodotti provenienti da catene di approvvigionamento esenti da deforestazione”.
L’Europa vuole rivedere i suoi accordi commerciali con il Mercosur per spingere i Paesi del Sud America a una politica ambientale migliore. Inoltre Bruxelles intende agire anche sui negoziati di due trattati ambientali vincolanti a livello internazionale dei quali il Brasile è stato tra i primi firmatari: la Conferenza delle Parti (Cop) dell’accordo di Parigi sulla Convenzione delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Unfccc) e la Convenzione sulla diversità biologica (Cbd).
La pandemia è stata un doppio colpo per l’economia brasiliana che era già in difficoltà, non ancora ripresa da un forte rallentamento nel biennio 2014-15 e da una nuova stasi nel 2018-2019. Le finanze pubbliche di Brasilia erano sotto forte pressione anche prima del coronavirus, il che renderà difficile il sostegno pubblico alle imprese e creerà tensioni maggiori. Secondo il Fondo Monetario Internazionale, quest’anno il Pil del Brasile calerà del 6,1% rispetto al 2019. La speranza è che la pressione economica europea riesca là dove hanno fallito l’intelligenza e il rispetto per l’ambiente degli uomini.

Hong Kong, aumentano le tensioni fra Usa e Cina. - Antonio Fatiguso

Hong Kong: lacrimogeni polizia contro dimostranti © AFPHong Kong: lacrimogeni polizia contro dimostranti.

'Washington vuole danneggiare la nostra sicurezza nazionale'.

La Cina mette in guardia gli Stati Uniti dalle conseguenze legate a Hong Kong sulle possibili sanzioni contro la legge sulla sicurezza nazionale per l'ex colonia in discussione a Pechino: "Se gli Usa continuano a danneggiare gli interessi della Cina, allora la Cina prenderà le necessarie contromisure", ha affermato il portavoce del ministero degli Esteri, Zhao Lijian. Parlando in conferenza stampa, Zhao ha anche accusato Washington di voler "colpire la sicurezza nazionale" della Cina.
Gli Stati Uniti hanno già fatto sapere che probabilmente imporranno sanzioni alla Cina se Pechino attuerà la legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong. "E' difficile prevedere come Hong Kong possa restare un centro finanziario in Asia se la Cina assume la guida", ha detto il segretario alla sicurezza nazionale di Donald Trump, Robert O'Brien.

Il virus si mangia pure gli aiuti: il terzo settore chiede ossigeno. - Paolo Dimalio

Il virus si mangia pure gli aiuti: il terzo settore chiede ossigeno

La pandemia miete altre vittime. Lotta al cancro, sostegno ai bimbi disabili, cooperazione internazionale, campagne per l’ambiente: alcuni esempi delle iniziative a rischio per via del calo delle donazioni nel Terzo settore. Secondo L’Istituto italiano delle donazioni il 40% degli enti ha il dimezzato i fondi, nel primo trimestre. Le organizzazioni di volontariato, promozione sociale e senza fini di lucro annaspano e chiedono subito il 5xmille 2018-2019: in tutto, 1 miliardo. ll denaro, del resto, è già nelle casse dello Stato: grazie al Decreto Rilancio (art.156) entro il 31 ottobre andrà ai beneficiari.
Airc (Associazione Italiana per la ricerca sul cancro) l’anno scorso ha raccolto 20 milioni dalle donazioni sul territorio: eventi, cene, manifestazioni. Ma ora è tutto fermo: “Stimiamo di perdere almeno 10 milioni”, dice Niccolò Contucci, direttore generale. Altri 18 milioni, nel 2019, sono arrivati dai bollettini postali. “Introiti sono quasi azzerati”, avvisa Contucci. Il direttore generale teme, a fine anno, perdite per almeno 30 milioni: “Soldi in meno per la ricerca sul cancro, purtroppo”. Su Amazon, però, Airc ha venduto 316 mila azalee: 5 milioni di euro per sostenere le cure oncologiche. Contucci dà un numero: “In Italia di tumore muoiono in media 500 persone al giorno, 180 mila l’anno”. Di Covid, ad oggi, sono decedute meno di 35 mila pazienti.
La Lega del Filo d’Oro assiste dal 1964 bambini ciechi e sordi. Per tutti loro, la quarantena ha acuito il dramma quotidiano dell’isolamento. Rossano Bartoli, il presidente, è preoccupato ma ottimista: “Il 65% delle nostre risorse è frutto di donazioni, a marzo si erano dimezzate ma per fortuna sono risalite”. Il crollo ha investito i bollettini postali, ma le donazioni online e i bonifici hanno compensato, in parte, le perdite.
Emergency è in prima linea sul fronte pandemia. Ma il timore è d’indebolire gli aiuti all’estero, dove le tragedie proseguono. “Ad oggi le donazioni non sono calate – dice Alessandro Bertani, vicepresidente – ma solo perché abbiamo lanciato una raccolta fondi contro il Coronavirus”. Quei soldi però sono destinati solo all’emergenza Covid. I contributi dal territorio sono crollati: eventi pubblici, cene, i ragazzi di Emergency per le strade. “Quella è la nostra fonte primaria – spiega Bertani – e se l’andazzo proseguisse, nel lungo periodo rischia la cooperazione internazionale”. Ad aprile è saltata, in Uganda, l’inaugurazione del centro di chirurgia pediatrica disegnato da Renzo Piano. Non si sa quando i volontari di Emergency (circa 1500) torneranno in strada: intanto, aiutano a distribuire cibo a chi è in difficoltà.
Greenpeace fonda le sue campagne per l’ambiente sulle donazioni raccolte grazie ai “dialogatori”. Sono i ragazzi in strada che avvicinano i passanti per convincerli a contribuire. “L’anno scorso valevano il 50% delle donazioni totali, oggi quei soldi sono evaporati”, dice Andrea Pinchera, direttore Fundraising. Greenpeace punta a raccogliere risorse con altri canali: call center, mail, social. “Il timore è di arrivare a fine anno con le donazioni a picco, senza fondi per le campagne”, avvisa Pinchera: “Ora stiamo valutando se riportare i ‘dialogatori’ in strada”.
L’Associazione italiana contro le leucemie (Ail) finanzia la ricerca sui tumori al sangue e sostiene i pazienti. “L’anno scorso a Pasqua abbiamo ricevuto 7 milioni grazie alle uova di cioccolata nelle piazze – dice il presidente Sergio Amadori –. Stavolta, con gli italiana chiusi in casa, abbiamo incassato zero”. I leucemici sono soggetti fragili, tra i più esposti agli effetti del Covid 19. Perciò la Onlus ha lanciato su internet, a fine marzo, la campagna “Io sono a rischio”. “Ma siamo ben lontani dai 7 milioni delle uova pasquali – dice Amadori –. Continuiamo ad aiutare i pazienti e le loro famiglie, i conti li faremo a fine anno: speriamo di raccogliere il 60% delle donazioni dell’anno scorso”.
L’Unicef porta aiuto ovunque, nel mondo, ci sia una tragedia, come la pandemia. “Le donazioni per noi non sono diminuite”, dice Andrea Iacomini, portavoce per l’Italia. Il fondo delle Nazioni unite per l’infanzia, dal 23 marzo, raccoglie contributi per l’emergenza Covid nello Stivale, con buoni risultati: “I contributi per i vaccini crescono, la raccolta digitale funziona e aumentano le persone che chiedono d’indicare l’Unicef come erede nel testamento”, dice Iacomini. Problema: le donazioni raccolte dai “dialogatori”, con i bollettini postali e gli eventi in piazza sono nulle, o quasi. Gli effetti, scommette Iacomini, si sentiranno tra qualche mese: il rischio, come per Emergency, è di non avere risorse per fronteggiare vecchie e nuove minacce.
Medici senza frontiere contrasta la pandemia in Italia e in altri 40 Paesi. La Onlus, del resto, era già in trincea contro il virus Ebola. Ma le conseguenze del lockdown sono serie: “Le donazioni calano perché le persone non vanno alle Poste e i ‘dialogatori’ restano a casa”, dice Annalaura Anselmi, direttrice della raccolta fondi. Senza il sostegno del territorio, Msf punta su internet e il telefono: il 10 marzo ha lanciato una campagna per raccogliere 100 milioni di euro contro la pandemia. Difficile pareggiare il crollo delle donazioni ‘faccia a faccia’ e via Posta, dice Anselmi: “Alcuni programmi ‘salva-vita’ sono stati convertiti all’emergenza Coronavirus, ma ci sono luoghi nel mondo dove si muore di colera e morbillo, con tassi di mortalità anche superiori al Covid 19. Il timore, sul lungo periodo, è che vengano a mancare risorse vitali per affrontare altri drammi”.
Save the Children sconta, come gli altri, una sofferenza nella raccolta fondi. “Oggi non conosciamo i numeri, ma alcuni sostenitori ci hanno detto di vivere situazioni faticose e hanno dovuto ridurre o interrompere le donazioni”, spiega Giancarla Pancione, direttrice marketing. L’organizzazione per l’infanzia non ha intenzione di rivedere i progetti per i piccoli.
Come l’ospedale pediatrico Meyer di Firenze: “Le donazioni sono diminuite – dice Alessandro Benedetti, segreterio generale della fondazione che sostiene il nosocomio –, ma i servizi proseguono. Certo, se ci fosse un anno senza donazioni, allora caso cambierebbe tutto”.

È più contagioso del virus: se ne vada. - Selvaggia Lucarelli

Coronavirus, Gallera non torna indietro e prova a spiegare l ...

Non è che Giulio Gallera si dovrebbe dimettere. Giulio Gallera si sarebbe dovuto dimettere al suo primo segnale di inadeguatezza di fronte al disastro, quindi probabilmente quando il pipistrello di Wuhan è uscito dalla grotta.
Giulio Gallera dovrebbe compiere la prima grande azione di contenimento in Lombardia contenendo se stesso.
Giulio Gallera dovrebbe perdere la sua carica virale e sparire col caldo, magari prima di giugno, perché i lombardi non hanno ancora sviluppato gli anticorpi per le sue boiate e ogni volta che le sentono si ammalano ancora un po’.
Giulio Gallera dovrebbe andare a casa e rinchiudersi lì, in una quarantena infinita, perché l’indice di contagiosità delle sue fesserie è uguale a 10: ogni volta che ne spara una, ci sono almeno 10 milanesi che vorrebbero schiaffeggiarlo.
Doveva dimettersi quella volta in cui disse che gli asintomatici non sono contagiosi. Quella volta in cui disse, in piena epidemia, con la gente che moriva a casa, che “noi facciamo i tamponi anche a chi ha uno stato lievemente alterato” e forse lo stato alterato era il suo. Doveva dimettersi quando, sempre con la gente che moriva a casa perché nessuno rispondeva neppure più ai numeri dell’emergenza, dichiarò che “la gente resta a casa troppo a lungo anche perché ormai ha paura di andare in ospedale e contagiarsi”.
O quella volta in cui affermò che lui Alzano Lombardo non poteva chiuderlo perché “è colpa dello Stato, doveva farlo lo Stato, non era nelle nostre competenze”. E doveva dimettersi pure il giorno dopo, quando disse l’ opposto: “Ho approfondito, c’è una legge del 1978 e prevede che potevamo chiudere Alzano”. Ed era (ed è) la legge n.833 del 23 dicembre 1978, intitolata “Istituzione del Servizio sanitario nazionale”, cioè quella che regola le competenze degli assessori regionali alla Sanità. Cioè le competenze di Gallera, che non conosce neppure le sue competenze, cosa del resto comprensibile perché non le hanno individuate neppure i suoi concittadini.
Doveva dimettersi anche per aver detto che i cittadini lombardi devono pagarsi i test sierologici perché non servono a niente, per poi bullarsi pochi giorni dopo che i test li pagherà la sanità pubblica. E allora uno si chiede: ma, se diceva che non servono a niente, perché ha deciso di farli pagare alla Regione? Poi ti ricordi che anche lui non serve a niente e anche il suo stipendio lo paga la Regione e capisci che c’è una linea di continuità.
Dovrebbe dimettersi perché ha detto che la famosa delibera che mandava nelle Rsa i malati Covid dimessi dagli ospedali, ma ancora contagiosi, lui la rifarebbe domani. E allora verrebbe da dire: “Se i morti nelle Rsa potessero parlare…”. Ma noi non abbiamo doti medianiche come Renzi, noi i morti non li facciamo parlare, noi parliamo con i vivi e i lombardi vivi, in questo momento, stanno dicendo tutti: Gallera, vattene.