domenica 30 maggio 2010

Apriamo la bocca ai blogger - Claudio Messora


Peter Gomez sulle intercettazioni dà una lezione a marco taradash - omnibus 24 maggio 2010



30 maggio 2010
Gli emendamenti al ddl Alfano annunciati venerdì dal Pdl, in vista del dibattito che si aprirà domani pomeriggio nell'aula del Senato, non cambiano la sostanza del rischio-bavaglio.

di
Roberto Natale

I ripensamenti sono sempre bene accetti, ma stavolta è impossibile considerarli vere aperture. Gli emendamenti al ddl Alfano annunciati venerdì dal
Pdl, in vista del dibattito che si aprirà domani pomeriggio nell’aula del Senato, non cambiano la sostanza del rischio-bavaglio. Le sanzioni a carico degli editori sono state ridotte di un terzo, ma è difficile esultare: l’importo massimo rimane pur sempre di 310 mila euro, comunque sufficienti per “suggerire” al proprietario del giornale di diffidare pesantemente direttore e redazione dal pubblicare qualsiasi notizia troppo cara. E soprattutto non si può spacciare come grande conquista di libertà il fatto che in materia di cronaca giudiziaria si torni alla formulazione uscita dalla Camera, ripristinando la possibilità di pubblicare “per riassunto” il contenuto degli atti giudiziari prima dell’udienza preliminare e tenendo fermo il divieto totale di pubblicazione delle intercettazioni fino alla conclusione delle indagini preliminari, anche se i testi non sono più coperti dal segreto. È questo il punto decisivo, che continua a motivare la nostra netta contrarietà: ciò che è pubblico perché è stato portato a conoscenza delle parti coinvolte deve anche poter essere pubblicabile; anche per non aprire la strada a un’informazione allusiva o ricattatoria, in cui chi ha letto gli atti può mandare torbidi messaggi a mezzo stampa alle persone coinvolte nelle inchieste.

Se l’esigenza è quella di difendere meglio la privacy, come dicono i sostenitori del provvedimento e come anche noi giornalisti vogliamo, è a portata di mano una soluzione perfettamente compatibile col nostro dovere di cronisti e col diritto dei cittadini di sapere: al momento in cui le carte dell’indagine stanno per diventare pubbliche, il magistrato di una “udienza-filtro”, sentite accusa e difesa, elimina dagli atti le parti (testi delle intercettazioni inclusi) che riguardano terze persone estranee o anche le persone sotto inchiesta, ma per aspetti privati che non hanno nesso con l’indagine. È su questo versante che talvolta l’informazione ha sbagliato, mettendo in pagina anche questioni intime che non erano notizie, ma gli errori possono essere evitati senza impedirci di raccontare i fatti di interesse pubblico. Il ministro Alfanocontinua a ripetere in forma di slogan che “la riforma garantisce la libertà di informazione”, ma evita di spiegare che col suo testo sarebbe rimasto ignoto il caso (la casa) Scajola e che dei trapianti infami della clinica Santa Rita di Milano si sarebbe saputo dopo anni.

Argomenti così forti che quasi tutti i direttori dei giornali italiani si sono trovati uniti nell’annunciare che non verranno comunque meno al dovere di informare, “indipendentemente da multe, arresti e sanzioni”. È la stessa unità che, sul diritto-dovere di cronaca, i giornalisti italiani chiedono alle loro rappresentanze. Perché non sempre è stato così, negli ultimi mesi: dalla grande manifestazione di ottobre in piazza del Popolo, che aveva mostrato la ricchezza dell’alleanza coi cittadini, il segretario dell’Ordine nazionale aveva preso le distanze con una scelta polemica che certo non ha rafforzato la categoria. Come non l’ha rafforzata qualche timidezza di troppo, da parte dell’Ordine, su un tema che invece meritava e merita una vera e propria campagna pubblica. Ora è urgente recuperare un convinto impegno comune: la lunga battaglia contro il ddl Alfano, tra le aule del Parlamento italiano e – se sarà necessario – la Corte europea di Strasburgo, può e deve essere vinta.

*Presidente
Fnsi




Morto l'attore Dennis Hopper - Alessandra Baldini


30 maggio, 15:29


NEW YORK - Giovane ribelle con James Dean, hippie davanti e dietro la macchina da presa nel film simbolo della protesta anni Sessanta Easy Rider: Dennis Hopper, personaggio effervescente, anticonformista e anti-establishment del cinema americano, è morto oggi a Venice in California. Aveva 74 anni. Hopper è morto per complicazioni del cancro alla prostata di cui era da tempo malato. Con lui, ha detto l'amico Alex Hitz, si erano raccolti i suoi cari.

Adesso si ricorda di lui la lunga carriera, oltre 50 anni di cinema a partire da Gioventù Bruciata (1955) e Il Gigante (1956) con il mentore James Dean, ai personaggi folli di Apocalipse Now di Francis Ford Coppola, Velluto Blu di David Lynch e Speed del 1994 di Jan De Bont con Keanu Reeves e Sandra Bullock. Ma la fama di Hopper è intrinsecamente legata alla motocicletta e a Easy Rider, il film con Peter Fonda e l'allora sconosciuto Jack Nicholson, che gli è valso una delle due nomination all'Oscar (con Fonda e Terry Southern per la migliore sceneggiatura, l'altra nomination sarebbe arrivata nel 1986 per il dramma strappacuore Hoosiers). Easy Rider è considerato uno dei più grandi film della storia del cinema americano: i suoi protagonisti in Harley Davidson, gli spacciatori Wyatt (Fonda) e Billy (Hopper), popolarizzarono il mito della vita 'sulla strada', il fumo e l'amore libero nelle comuni. Hopper fece da apripista a una nuova era nel cinema in cui la vecchia guardia di Hollywood fu costretta a cedere il passo a una giovane generazione di cineasti come Coppola e Martin Scorsese.

Girato con un budget da fame, Easy Rider segnò l'esordio di Hopper dietro la macchina da presa: introdusse l'America profonda al mondo degli hippie e all'Età dell'Acquario catturando l'immaginazione di un paese in crisi di identità, travagliato dall'opposizione alla guerra nel Vietnam. Nello stesso anno di Woodstock, Easy Rider divenne uno dei manifesti della controcultura. In seguito, anche a causa di guai personali, Dennis Hopper si era ammorbidito pur restando sempre un personaggio fuori dall'establishment. A marzo gli era stata conferita una stella nella celebre Walk of Fame di Hollywood: l'attore e regista si era presentato all'appuntamento con l'amico di sempre Jack Nicholson pur essendo magrissimo e ormai devastato dalla malattia.

http://www.ansa.it/web/notizie/rubriche/spettacolo/2010/05/29/visualizza_new.html_1817096559.html


I Servizi alla mafia - Nando Dalla Chiesa


Come spesso accade in questo paese, la verità appare improvvisamente afferrabile quindici, vent’anni dopo. Squarci, lampi di verità. E la speranza di farcela, che stavolta non sia “come le altre”. C’è da giurarci, però, che anche stavolta faranno di tutto perché quei lampi restino tali. I timori di nuovi scoppi criminali volti a intimidire o ricattare o inquinare, sono per questo tutt’altro che campati per aria.
Ma non c’è da affettare alcuno stupore o alcuna offesa incredulità davanti agli scenari che si profilano.
La presenza dei servizi segreti e delle zone d’ombra del potere nelle vicende di mafia è un fatto storico acclarato. E da anni chi non è né vuole essere cieco è costretto a confrontarsi con scampoli inquietanti di verità. Nelle quali l’odore dei Servizi, ma non solo il loro, si riconosce da lontano. La cassaforte svuotata, la notte del delitto, nella casa del prefetto Dalla Chiesa, chiusa anche ai parenti. Il tritolo dell’Addaura e quel rinvio di Falcone alle “menti raffinatissime”, come a indicare una regia esterna a Cosa Nostra. L’assassinio dell’agente Agostino e i suoi misteri. La vicenda di via D’Amelio e il terribile groviglio di piste e di interessi che le è lievitato intorno con gli anni. Le inchieste di Caltanissetta e di Firenze che lambiscono poteri economici di primissimo livello, da Gardini a Berlusconi. Il celebre “papello” di Riina e l’altrettanto celebre trattativa, condotta mentre frana la prima Repubblica. La mediazione di Vito Ciancimino con le testimonianze del figlio Massimo, che scoperchiano le relazioni tra suo padre (agli arresti domiciliari) e Bernardo Provenzano o quel “signor Franco”, uomo delle istituzioni, finalmente individuato in foto accanto a personaggi di governo.
Tutto questo abbiamo davanti, e questa matassa dobbiamo sbrogliare con precisione e senza pregiudizi, perché questa è materia sulla quale non si può sbagliare, né per eccesso né per difetto.
Ma, appunto, bisogna dotarsi di una bussola capace di offrire punti di riferimento certi. Il primo è che la mafia è, in Italia, parte costitutiva del sistema di potere.
Sgradevole all’olfatto, da non portare ai matrimoni (anche se qualcuno ce la porta), ma sempre presente. Il secondo è che la mafia non prende ordini da nessuno.
La mafia fa e chiede favori. Agisce cioè da interlocutore dei differenti soggetti, illegali e legali, che compongono il circuito del potere. Sta in una zona di libero scambio che il nostro ordinamento non dovrebbe tollerare ma tollera. Perché, e questo è il terzo punto fermo, il sistema istituzionale e politico italiano prevede organicamente al proprio interno un alto tasso di illegalità, assolutamente anomalo nel contesto occidentale.
Se questi tre punti fermi sono veri, allora non c’è da rincorrere un’“entità”, un soggetto unico, magari una cupola strutturata, per capire che cosa è accaduto. Bisogna pazientemente e intelligentemente comporre gli scambi possibili e il gioco degli interlocutori possibili. Vagliare chi e perché avrebbe potuto desiderare o decidere una cosa; chi e perché avrebbe potuto avvantaggiarsi – e fino a che punto –, almeno nelle intenzioni, di una particolare scelta criminale. Senza farsi prendere dalla fantascienza ma sapendo che a volte la mafia, e il rapporto mafia-stato, è fantascienza.
E sapendo che lo scambio col diavolo è nella nostra democrazia un metodo.
Non monopolio di questo o quell’altro politico, ma una costante che si trasmette nelle generazioni.
Una cosa abbiamo dunque il dovere di fare. Di aspettare gli esiti del lavoro della magistratura, certo. Ma di non aspettare la conclusione dei processi di terzo grado, se verranno, per sforzarci di dare agli italiani la ricostruzione più attendibile (non “più gradevole”) di quanto è accaduto. Le stragi le ha fatte la mafia. Ma le hanno volute e coperte anche altri: interlocutori stretti, protagonisti della zona di libero scambio. A quei nomi stiamo arrivando.
Quei nomi cercheranno di salvarsi, in tutti i modi.


sabato 29 maggio 2010

Scherzo telefonico alla sede toscana del Popolo delle Libertà (PDL)


Andavo alle elementari e non ho mai manifestato per Saccucci - Marco Travaglio



29 maggio 2010
Marco Travaglio replica alle accuse di Graziano Milia,dopo l'articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano mercoledì 26 maggio.

L’altro giorno, sulla prima pagina del
Fatto, mi sono occupato del presidente Pd della Provincia di Cagliari, Graziano Milia, ricandidato a quella carica da tutto il centrosinistra nonostante la recente condanna in appello a 1 anno e 4 mesi per abuso d’ufficio nell’ambito di un mega-scandalo di licenze edilizie facili, sanatorie indebite e autorizzazioni paesaggistiche fuorilegge perpetrate tra il 1999 e il 2003. Il signor Milia mi ha così graziosamente replicato sulla sua pagina Facebook e la sua replica è stata ripresa da un giornale vicino al Pde da vari siti internet e organi di stampa locale: “Non accetto critiche da un ex militante dell' Msi. Il valore dell'antifascismo per me è discriminante. Travaglio faceva parte della falange pura e dura (come oggi) contro gli Ebrei... Se ha cambiato idea mi fa piacere... anche se non dimentico quando manifestò contro l'arresto diSaccucci, deputato dell' Msi accusato di aver ucciso un giovane comunista a Sezze Romano… Io non me ne strafotto se uno difendeva Saccucci, ex parlamentare Msi che uccise un mio compagno di partito… Dice bugie? Sì! L’unica motivazione che oggi si conosce sulla mia vicenda mi assolve, aspettiamo le motivazioni della seconda. Ergo il fascista Travaglio parla senza cognizione di causa. Possiamo chiamarlo a confrontarsi con me, ma chi paga il cachet delle sue esibizioni? Poi non vorrei che facesse come Grillo che firmò una petizione a favore dello scempio dell’Anfiteatro romano di Cagliari”.

Andiamo con ordine.

1) Se anche fosse vero che sono un fascista, missino, falangista e tutto il resto, o un “ex” di tutte queste robacce, il signor (si fa per dire) Milia rimarrebbe un condannato in appello per abuso d’ufficio a 1 anno e 4 mesi e, siccome si ricandida alla presidenza della Provincia di Cagliari, l’argomento del contendere non è il mio presunto passato, ma la sua condanna in appello.
2) Non ho mai militato nell’Msi, né l’ho mai votato, anzi l’ho sempre aborrito, essendo sempre stato un antifascista convinto.
3) Non ho mai fatto parte di falangi, né dure e pure, né molli e impure, né tantomeno contro gli Ebrei, essendo fra l’altro notoriamente un amico dello Stato di Israele.
4) Non ho “cambiato idea” perché, per mia fortuna, non ho mai dovuto pentirmi delle mie idee, diversamente dal signor Milia che milita in un partito che ha dovuto abiurare al proprio passato e cambiare quattro o cinque nomi.
5) Non vedo come questo signore possa “non dimenticare” che io avrei “manifestato contro l’arresto di Saccucci accusato di aver ucciso un giovane comunista a Sezze Romano”, visto che io non ho mai manifestato contro l’arresto di Saccucci, anche perché all’epoca di quel fatto di sangue (28 maggio 1976) avevo 11 anni, abitavo a Torino e frequentavo la quinta elementare.
6) In questa storia c’è soltanto una persona che “dice bugie” e “parla senza cognizione di causa”. E questa persona è il signor (si fa per dire) Milia.
7) Non so a quali mie “esibizioni” e a quali “cachet” si riferisca questo tizio. Se parla del mio lavoro di giornalista free lance, è retribuito dai giornali per cui scrivo; se parla dello spettacolo teatrale di impegno civile Promemoria, in cui racconto da tre anni la storia della Seconda Repubblica, è tutto molto semplice: chi vuole viene a vederlo e paga il biglietto; se parla delle conferenze che tengo in giro per l’Italia, le faccio gratis, mai chiesto un “cachet” in vita mia. L’anno scorso, ad assistere a Promemoria all’anfiteatro romano di Cagliari, vennero 1500 persone (ricordo, incidentalmente, che mi pronunciai in pubblico contro quello che lui definisce “lo scempio dell’anfiteatro romano”); quest’estate, quando tornerò a Cagliari per chi non riuscì a entrare un anno fa, avrò un promemoria in più da raccontare. Così i cagliaritani distratti sapranno chi è il presidente della loro Provincia e chi è il soggetto che il Pd ricandida per quella poltrona.

Da
il Fatto Quotidiano del 29 maggio



Cei, azione zero sui pedofili - Marco Politi


29 maggio 2010
Abusi. La Chiesa italiana fa la sua scelta: azione zero. Sugli stupri del clero l’assemblea dei vescovi decide che un intervento collettivo non serve. Niente “tolleranza zero” come negli Usa, niente linee guida come quelle che autorizzano in Germania a chiamare a rapporto il singolo presule disattento, niente commissione d’inchiesta come in Austria, niente numeri verdi né referenti cui possa rivolgersi la vittima. L’esempio inglese citato dal direttore dell’Osservatore Romano – una task force in ogni parrocchia–viene definito “non un’indicazione per l’Italia”. Troppo persino per una giornalista cattolica, che in conferenza stampa ha chiesto al cardinal Bagnasco: “Scusi Eminenza, ma allora uno deve chiamare il centralino della diocesi dicendo: sono una vittima, mi passi il vescovo?”.

Il comunicato dell’assemblea esalta il “coraggio della verità che, anche quando è dolorosa e odiosa, non può essere taciuta e coperta”: proclamazione surreale mentre i vertici ecclesiastici negano chiarimenti all’opinione pubblica su chi sono e che fine hanno fatto i cento preti delinquenti (numero fornito dalla Cei) già coinvolti in un procedimento. È un fossato tra l’invito di papa
Ratzinger all’azione per dare voce a quanti per decenni non sono stati ascoltati, portando i colpevoli in tribunale, e l’inazione della Cei come organismo collettivo.

Evidentemente prevale nelle gerarchie la paura di scoperchiare il vaso delle violenze. Sostiene Bagnasco che, date le autorevoli indicazioni dei testi vaticani, “non è necessario né opportuno” prendere altri provvedimenti. Tutto è lasciato al “discernimento” dei singoli vescovi. Esattamente ciò che per secoli ha prodotto insabbiamenti e ritardi, che lo stesso Bagnasco ammette “possibili”. Riproporre questo sistema è attendismo e si paga sempre.

da Il Fatto Quotidiano del 29 maggio 2010