Le carte dell'inchiesta sul porto di Imperia citano anche l'ex ministro e i suoi familiari. Lui (indagato solo in un altro filone dell'inchiesta) si difende: "Acquisti perfettamente leciti". L'inchiesta si allarga anche al progetto del mega-porticciolo di Fiumicino. I pm: "Fraudolenta lievitazione dei costi"
Non c’è pace per gli investimenti immobiliari di Claudio Scajola. Prima la casa al Colosseo. Oggi posti barca, appartamenti e box. Intestati alla moglie Maria Teresa Verda e alla sorella Maria Teresa Scajola. Tutti acquistati con sconti fino al 17 per cento o addirittura, sostengono i pm, non ancora pagati. L’accusa sta cercando di capire se Francesco Bellavista Caltagirone (re dei porticcioli e patriota Alitalia) abbia in qualche modo ricompensato gli appoggi al mega-progetto del porto di Imperia.
Ecco allora che si stanno passando al setaccio tutti gli acquirenti di posti barca, soprattutto tredici, alcuni dei quali comprati dalla famiglia Scajola. L’ex ministro Claudio (indagato per associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta, ma soltanto in un altro filone dell’inchiesta, mentre i suoi familiari non risultano indagati) è sempre stato uno degli sponsor del porto: “Cambierà il volto della città”. Su questo non ci sono dubbi, anche se i giudizi sono diversi. È tutto scritto a pagina 153 dell’ordinanza che ha portato all’arresto di Bellavista Caltagirone: “L’articolato meccanismo per pilotare l’attribuzione dell’appalto in favore di un imprenditore scelto nella più totale violazione delle regole… con la gravissima, fraudolenta speculazione economica che ne è seguita inducono a ritenere quanto mai verosimile l’esistenza di una sotterranea spartizione di ritorno dei profitti fraudolentemente conseguiti da Caltagirone in favore dei soggetti (ovvero dei loro familiari) che gli hanno regalato l’appalto e il porto”, scrivono i magistrati.
Sono in corso indagini su un posto barca da 40 metri, costo 2,5 milioni di euro e su ulteriori dodici posti per un valore di 4,4 milioni. Ecco, in quei tredici posti barca potrebbe essere il nocciolo dell’inchiesta: “Dall’esame del materiale sequestrato presso Acquamare (la società di Bellavista Caltagirone, ndr) emergono degli acquirenti qualificati “amici”… tra essi compaiono: Maria Teresa Verda, moglie di Scajola, acquisti per 344.000 euro di due posti barca e due posti auto coperti con sconto del 18,66%”. Poi “Maria Teresa Scajola (la sorella dell’ex ministro, ndr), acquisti per 1.510.000 euro per i posti barca e due immobili di valore di 462.000 euro (con sconti dal 5 al 17,43%)”. Infine: “Claudio Scajola risulta aver versato una mera caparra di 103.000 euro, ma non pare aver versato il saldo”.
Scajola al Fatto Quotidiano la spiega così: “Sono acquisti perfettamente leciti. I 103mila euro cui si fa riferimento sono in realtà 120mila e si riferiscono ai posti barca e ai box di mia moglie. Non ho ultimato il pagamento perché il contratto definitivo non è stato firmato e i posti non sono pronti. Non so nulla degli acquisti di mia sorella”. Ormeggerà le sue barche a Imperia? “Non ho barche, mia moglie ha comprato i posti come investimento. È tutto lecito e trasparente. Questo porto ha cambiato la faccia della città, ma sono sicuro che il tempo renderà giustizia a me e alla mia famiglia”.
Il porto di Fiumicino – Ma il passaggio più clamoroso dell’ordinanza non riguarda Imperia. Sono un paio di pagine che riguardano il mega-porticciolo di Fiumicino, il più grande del Mediterraneo. Parliamo di oltre 1.500 posti barca realizzati da Caltagirone Bellavista tra l’altro con soci pubblici e con la benedizione politica del centrodestra e del centrosinistra. Perfettamente bipartisan. Scrive il pm di Imperia: “Caltagirone ha in corso la realizzazione del porto di Fiumicino e sta utilizzando le medesime modalità di fraudolenta lievitazione dei costi sperimentate a Imperia”. Una bomba dalle conseguenze imprevedibili. I magistrati ricordano che la questione è già oggetto di istruttorie del Tribunale Civile di Civitavecchia. E aggiungono: a Fiumicino esiste una società – misto pubblico-privato – la Iniziativa Portuali che ha per oggetto la costruzione e la gestione di impianti portuali turistici e che ha ottenuto dalla Regione Lazio la concessione demaniale per la costruzione e per la gestione per novant’anni”, proprio come a Imperia, dove esiste la Porto di Imperia spa, che raccoglie soci pubblici e privati.
In entrambi i casi Caltagirone Bellavista. Non basta: in entrambi i casi si incontra l’ingresso della “stessa compagine societaria” che fa capo al gruppo Acqua Pia Antica Marcia di Caltagirone Bellavista. Ma ecco il punto centrale: anche a Fiumicino come a Imperia, si prevede la “conversione in diritti di concessione del corrispettivo monetario ottenuto dalla società costruttrice dell’opera”. Infine, sottolineano i magistrati imperiesi, a Fiumicino si ritrovano gli stessi attori: membri del cda indagati in Liguria, ma anche imprese destinatarie di subappalti, ma in realtà inattive”. Concludono i magistrati: “Come si può vedere il meccanismo è assolutamente identico”. Già, Fiumicino, un possibile terremoto economico e politico per la Roma degli affari. Con quella società, la Infrastrutture Portuali, che inizialmente era a maggioranza pubblica (di Italia Navigando, emanazione di Sviluppo Italia) e che poi, emarginando gli originari membri del cda e i primi soci privati, abbracciò Caltagirone Bellavista.
I costi gonfiati di Imperia – La storia dell’amore tra Bellavista Caltagirone e Imperia comincia addirittura nel 2003. Caltagirone Bellavista già vola sopra la città in elicottero sognando affari. Con lui ci sono Claudio Scajola e Gianpiero Fiorani che in Liguria sogna di reinvestire i soldi delle sue operazioni finanziarie. Alla fine ecco il via libera: 1440 posti barca più capannoni e residenze. L’ordinanza ripercorre ogni tappa. Al centro c’è il contratto di permuta (il modello Imperia che sarebbe stato “esportato” a Fiumicino) con cui le società costruttrici in cambio della realizzazione del porto hanno ottenuto la concessione su gran parte delle opere. Lasciando, sostiene l’accusa, il socio pubblico a becco quasi asciutto: secondo gli accordi, hanno ricostruito la Polizia Postale e la Finanza, i privati avrebbero ottenuto il 70% dell’opera.
Alla società Porto di Imperia spa (di cui il comune detiene appena un terzo) sarebbe rimasto il restante 30%. Racconta Beppe Zagarella (Pd), una delle poche voci critiche: “Le società realizzatrici hanno ottenuto l’85% della parte residenziale del progetto, alla Porto di Imperia sono restati i capannoni destinati alla cantieristica e una discoteca. Poi c’è il porto: ai privati sarebbero andati il grosso dei posti barca, mentre al pubblico restano i moli destinati alle imbarcazioni in transito e quelli per la nautica sociale”. Non basta: i pm si sono anche concentrati sui costi del mega-progetto. Si è passati da 80 a 200 milioni. Le banche si mangiano il porto – C’è poi il capitolo legato al mutuo da 140 milioni ottenuto dalle società realizzatrici (oggetto di polemiche politiche, ma non ancora oggetto formale di indagine). Ricorda Zagarella: “Finora le rate non sono state ancora pagate. Gli istituti hanno concesso una proroga”. Il finanziamento è garantito con un’ipoteca da 280 milioni, ma i creditori cominciano a essere impazienti. Tra le banche interessate all’operazione la parte del leone spetta alla Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (Carige). L’opposizione ricorda che il vicepresidente è Alessandro Scajola, fratello dell’esponente Pdl, mentre nella fondazione siede Pietro Isnardi (consuocero di Alessandro Scajola). Il vice-presidente è Pierluigi Vinai, uomo stimato dagli Scajola e appena scelto come candidato sindaco del centrodestra a Genova.
Ma che cosa succederà adesso? Lo ipotizzano i pm: “Se Acquamare (Caltagirone Bellavista, ndr) non dovesse rientrare nel finanziamento, la ovvia conseguenza sarà che la banca… farà pignorare il diritto di superficie concesso alla Porto di Imperia e le relative aree su cui è stato realizzato il porto e se ne approprierà”. Insomma, il porto diventerà delle banche. Come la Carige. Un Comune in mano a Caltagirone Bellavista (e a Scajola) – Cinque volte risponde “sì”. Due volte “bene”. Due volte “certo”, ma anche “certo, certo, certo”. Poi: “Assolutamente”, “d’accordo” e via discorrendo. L’intercettazione della telefonata tra Paolo Strescino (non indagato), sindaco scajoliano di Imperia, e Francesco Bellavista Caltagirone merita di essere letta (pagina 148). In altre conversazioni l’imprenditore si spinge ancora più in là: “Devi attaccare proprio l’opposizione”, dice a Strescino. Che risponde con un doppio “assolutamente”. Tanto che gli inquirenti chiosano: Caltagirone si trova in compagnia del sindaco e “detta i propri suggerimenti da inserire nella bozza della delibera comunale monotematica sul Porto di Imperia”. Ma i magistrati lo scrivono ancora più chiaramente: “La cosa più grave sarà riscontrare come il Comune di Imperia, lungi dal tutelare gli interessi pubblici, non è altro che uno strumento agli ordini e nelle mani di Bellavista Caltagirone il quale addirittura interviene sui tempi e i contenuti delle delibere”.
Non saranno versati, almeno non ora, gli oltre 100 milioni di euro a carico dei ministeri dei Trasporti e del Tesoro riconosciuti dalla terza sezione civile del tribunale di Palermo.
È uno stop in attesa che ricominci il processo di secondo grado sui risarcimenti ai familiari delle vittime della strage di Ustica, avvenuta in 27 giugno 1980. Causa: il danno economico che lo Stato subirebbe. Sembra un paradosso, ma è così. Sciogliendo la riserva, infatti, la prima sezione civile della Corte d’appello di Palermo ha fissato la ripresa del dibattimento al 15 aprile 2015, fra oltre 3 anni, e ha sospeso l’esecutività della sentenza pronunciata lo scorso settembre “per il grave danno che il debitore potrebbe ricevere”.
Non saranno versati, almeno non ora, gli oltre 100 milioni di euro a carico dei ministeri dei Trasporti e del Tesoro riconosciuti dalla terza sezione civile del tribunale di Palermo, presieduta dal giudice Paola Proto Pisani, a una quarantina di parenti delle 81 vittime della strage. E respinta al mittente anche l’istanza che il pool legale – composto dagli avvocati Daniele Osnato,Alfredo Galasso e Vanessa Fallica – aveva presentato perché si procedesse alla liquidazione immediata degli importi anche sotto forma di buoni del Tesoro.
Ad avere la meglio, in questa fase, è stata l’avvocatura di Stato, che lo scorso 1 febbraio aveva presentato una richiesta di sospensione. Nelle ragioni presentate dal tribunale di Palermo, si legge infatti che “ritenuto che con l’appello principale non è contestato solo il quantum ma anche l’an(cioè il se, ndr) della condanna risarcitoria; che avuto riguardo alla considerevole entità della somma oggetto della condanna ricorrono i gravi motivi richiesti per l’accoglimento dell’istanza avanzata; che in considerazione della solvibilità della parte appellante non ricorrono i presupposti per prevedere specifiche forme di cauzione a garanzia del credito, per questi motivi si dispone la sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza”.
Per Daria Bonfietti, presidente dell’associazione che riunisce i familiari delle vittime, questa sentenza “indica la difficoltà che governo e avvocatura di Stato hanno nel rapportarsi alla veritàdi quella strage”. Una verità che, in base a quanto sentenziato lo scorso settembre, parla in termini espliciti di “omissioni e negligenze” che precedettero e seguirono la sciagura aerea. Da un lato, infatti, secondo il giudice Proto Pisani non era stata messa in sicurezza la tratta del velivolo soprattutto nel cosiddetto Punto Condor, dove si concentravano attività militari. E dall’altro, dopo il disastro, venne negata ai familiari la possibilità di conoscere l’esatto accadimento dei fatti a causa di di alterazioni di documenti, omissioni, segreti di Stato tali o presunti, menzogne. Di depistaggi, insomma.
“Se si decidesse una volta per tutte ad accettare che il Dc9 dell’Itavia è stato abbattuto nel corso di un atto di guerra”, ha aggiunto Bonfietti, “allora le istituzione dovrebbero presentarsi come responsabili degli ostacoli all’accertamento della verità. Responsabili che vanno ricercati proprio tra coloro che avrebbero dovuto comportarsi molto diversamente, cioè gli uomini che avevano ruoli nei ministeri e nelle amministrazioni dello Stato”.
La presidente delle vittime ex parlamentare sottolinea anche un altro fatto. “Governo e avvocatura”, dice, “sono stati rapidissimi nel chiedere il blocco dei risarcimenti. Tuttavia non abbiamo assistito alla stessa rapidità nel sollecitare le risposte alle rogatorie internazionaliattualmente ancora inevase”. Il riferimento è a Germania, Francia e Gran Bretagna, interrogate nel 2008 dopo l’indicazione di presunte responsabilità materiali di Parigi nell’abbattimento dell’aereo.
E per sollecitare quelle risposte Daria Bonfietti si era rivolta lo scorso autunno al parlamento europeo, dove aveva trovato in prima istanza il supporto di Salvatore Caronna, Sergio Cofferati e David Sassoli. Oltre a esaminare la possibilità che Ustica diventi oggetto di una commissione istituita ad hoc a Bruxelles, era stato raccolto in breve il sostegno di Roberta Angelilli, del Pdl ed esponente del Ppe, oltre che vicepresidente dell’europarlamento. Inoltre all’inizio di marzo 2012 erano stato 32 i deputati italiani avevano presentato un’interrogazione alla Commissione e al Consiglio d’Europa perché a quelle rogatorie si rispondesse. Motivo: ulteriore silenzio avrebbe violato “la cooperazione giudiziaria penale sia tra i Paesi membri sia tra l’Unione e Paesi terzi”.
Diciassette anni per coronare un'avventura autocratica e populista, e trentotto leggi ad personam per piegare il codice penale all'interesse personale, non sono ancora bastati. Come l'ombra di Banco, l'ossessione giudiziaria di Silvio Berlusconi continua a dominare la scena. E grava pesantemente anche sulla "convergenza tripartita" che sostiene il governo "strano" di Mario Monti.
Il vertice di giovedì sera a Palazzo Chigi registra "passi avanti". Si parla di correzioni al disegno di legge anti-corruzione, con l'introduzione di nuovi reati (corruzione privata, traffico d'influenza), ma accompagnata dalla soppressione di altri più gravi (concussione). Si ipotizzano opportune modifiche al disegno di legge sulla responsabilità civile dei magistrati, ma accompagnate dall'insensato rilancio della legge-bavaglio sulle intercettazioni. Segnali contraddittori, che fanno pensare. E ancora una volta fanno sospettare. Siamo di nuovo davanti a un Grande Ricatto, che presuppone un Grande Baratto? Il Cavaliere è pronto a rinunciare alla "vendetta" contro le toghe, in cambio di un'ultima norma su misura che lo salvi dal processo Ruby?
La giustizia penale e civile va riformata. Questo non è in discussione. Il valore politico e simbolico di questa riforma, soprattutto all'estero e soprattutto per le imprese, è pari a quella dell'articolo 18. Dunque, il presidente del Consiglio fa benissimo a imporla nell'agenda, e ad esigere che Alfano, Bersani e Casini ne discutano com'è avvenuto due giorni fa. Il nodo vero è capire perché si fa e a chi giova la riforma. Sul fronte penale, l'Italia tuttora martoriata dagli scandali ha una priorità assoluta: varare al più presto una seria legge contro la corruzione, un cancro che secondo la Corte dei conti "costa" ogni anno più di 60 miliardi. Il disegno di legge varato dal Pdl prima della caduta del governo Berlusconi giace alla Camera, in Commissione Giustizia e Affari Costituzionali. Il Guardasigilli Paola Severino, su mandato di Monti, vuole rafforzare e migliorare quel testo. Su come rafforzarlo nel merito, i tre leader di Pdl, Pd e Udc durante il vertice di maggioranza pare non siano scesi ufficialmente in dettaglio. Avrebbero convenuto sul metodo, cioè sull'opportunità di procedere con un emendamento, che assicura un iter più rapido rispetto a una legge delega. E questo sarebbe tutto.
Ma le diplomazie dei partiti, più o meno segretamente, sono al lavoro da tempo. Ed è qui che si nascondono il ricatto, e forse anche il baratto. Dietro lo specchietto delle allodole di un inasprimento delle pene per la corruzione e per l'estorsione aggravata, oltre che dell'introduzione di nuove fattispecie di reato come la corruzione privata e il traffico d'influenze, la norma-chiave del pacchetto di modifiche di cui si sta discutendo riguarda la soppressione del reato di concussione.
Una modifica alla quale l'avvocato-parlamentare del Cavaliere, Niccolò Ghedini, tiene più che a ogni altra. Si tratta di abolire l'articolo 317 del codice penale, che prevede una pena fino a 12 anni per chiunque, abusando della propria posizione di pubblico ufficiale, ottenga da un altro soggetto denaro o altri vantaggi per sé o per un terzo. Perché sia così utile cancellare questa norma è evidente: la concussione (insieme alla prostituzione minorile) è uno dei due reati per i quali è imputato Berlusconi, nel processo su Ruby Rubacuori.
Fu esattamente abusando della sua posizione di pubblico ufficiale (nel caso specifico, presidente del Consiglio) che il Cavaliere chiese ed ottenne da un funzionario, durante la famosa telefonata notturna alla Questura di Milano, il rilascio della ragazza marocchina perché "nipote di Mubarak".
Se dunque nel disegno di legge anti-corruzione passasse l'emendamento che cancella il reato di concussione dal codice, Berlusconi sarebbe salvo anche da questo processo incardinato a Milano. Questa sarebbe per lui una causa immediata di proscioglimento. Resterebbe il reato di prostituzione minorile, più difficile da provare, con pena inferiore e termini di prescrizione ridotti. A questo punta Ghedini, il Dottor Stranamore del Pdl. Il paradosso è che, a dargli una mano, è stato il Pd, come ha anticipato il "Sole 24 Ore" il 2 marzo.
In commissione i democratici (dopo averlo presentato una prima volta e poi ritirato a Palazzo Madama nel giugno 2011) hanno infatti ri-presentato un emendamento che abroga la concussione, e ne riassorbe la fattispecie nei reati di corruzione allargata ed estersione aggravata. Una mossa incomprensibile, che da quanto si sa ha destato persino una certa "attenzione" da parte del Quirinale. Donatella Ferranti e Andrea Orlando, come altri colleghi del Pdl e dell'Udc, la giustificano con i ripetuti richiami degli organismi europei e sovra-nazionali, che da oltre due anni chiedono all'Italia di rafforzare le norme contro la corruzione e a correggere quelle sulla concussione.
L'argomento è debole. Gli obiettivi voluti dall'Ocse hanno un'impronta restrittiva, e non vanno nella direzione abrogativa voluta dal Pd. Nella concussione italiana il "concusso" è considerato vittima e dunque non è punibile, e questo (secondo l'Organizzazione dei Paesi industrializzati) può rappresentare un freno all'investigazione e alla repressione dei fenomeni di corruzione internazionale.
C'è allora da chiedersi il perché, di questa convergenza trasversale sul colpo di spugna della concussione, che avrebbe un effetto immediato su un processo in corso molto delicato e imbarazzante per il "Papi" di Arcore. C'è da chiedersi perché ci si concentri su questo, invece di riscrivere le norme scellerate come la ex Cirelli sulla prescrizione, che ogni anno "brucia" 169 mila processi e "scagiona" soprattutto gli imputati per corruzione.
E c'è da chiedersi perché, mentre alla Camera la "convergenza tripartita" si applica a questa nuova ipotesi di compromesso "ad personam", al Senato il Pdl è pronto a mitigare di molto le norme di un altro disegno di legge che ha spaccato le istituzioni e il Paese, quello sulla responsabilità civile dei magistrati. Un blitz del leghista Pini, nella prima lettura di Montecitorio, lo aveva incattivito in modo intollerabile, aggiungendo alle cause di responsabilità diretta e personale delle toghe non solo il dolo e la colpa grave, ma anche la "manifesta violazione del diritto".
Ora il Popolo delle Libertà, come ha annunciato Alfano al vertice di giovedì sera da Monti, fa retromarcia e ri-rompe l'asse con la Lega. Ridicolo pensare che lo abbia convinto il parere unanime del Csm, che giudica questa norma tanto "devastante" da causare "l'implosione del sistema giudiziario". E allora perché lo fa? Cosa è cambiato dal mese scorso, quando la ex maggioranza forzaleghista si ricompose per un giorno, mandando sotto il governo?
Sono domande che per ora non hanno risposta. Ma se i fatti hanno ancora una logica, una risposta si può trovare. Nello schema da Grosse Koalition all'italiana, che pure sta obiettivamente salvando l'Italia dalla tempesta finanziaria, forse c'è ancora bisogno di un altro salvacondotto per il Cavaliere. C'è ancora bisogno di un ultimo atto da "stato di eccezione", che ha drammaticamente segnato il quasi Ventennio berlusconiano. Se è così, almeno lo si dica ai cittadini italiani. La politica ci metta la faccia. Alla luce del sole. Non al buio dei vertici notturni della "non-maggioranza".
"Mai preso un centesimo" ribatte Rutelli in merito all'inchiesta del settimanale, secondo cui l'ex tesoriere sotto inchiesta avrebbe stornato 866mila euro della Margherita a favore della fondazione del leader di Api, tra 2008 e 2011. Il leader di Api annuncia procedimento legale per diffamazione.
ROMA - "Falsità, mai avuto un euro della Margherita". E ancora: "Lusi è strumento di inquinamento e depistaggio". "Inqualificabile l'accusa di finanziamento occulto ad Api". Queste, in sintesi, le dichiarazioni di Francesco Rutelli, affidate a una nota del suo ufficio stampa, in risposta all'inchiesta de L'Espresso, secondo cui l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi 1 avrebbe versato alle casse della fondazione di cui il leader di Api è presidente 866mila euro tra 2008 e 2001. Rutelli annuncia querela nei confronti del settimanale. "E' stato Lusi a fornirgli le informazioni, vere e false".
Il merito al servizio de L'Espresso, l'ufficio stampa di Rutelli precisa che le "informazioni, quelle vere e quelle false, sono state certamente fornite dall'ex tesoriere Lusi, come parte della sua azione di inquinamento del procedimento penale in corso contro di lui, già sanzionata dagli inquirenti della Procura della Repubblica di Roma".
I magistrati, sottolinea l'ufficio stampa di Rutelli, hanno definito precedenti articoli "assai verosimilmente ispirati dallo stesso indagato", "segnali preoccupanti", poiché contengono "circostanze che non emergono dagli atti e dai documenti acquisiti al fascicolo processuale e che, qualora veritiere, sarebbero probabilmente note al solo Lusi." Proprio tali attività hanno "reso necessario procedere senza indugi al sequestro", lo scorso 8 marzo, di ulteriori beni di Lusi e dei suoi familiari indagati. Per lo stesso motivo i magistrati hanno acquisito al processo la registrazione dell'intervista di Lusi alla trasmissioneServizio Pubblico.
"Dunque - conclude la nota - L'Espresso sapeva di rendersi strumento di una condotta di inquinamento e depistaggio dell'indagine e del tentativo, vano, di intimidazione delle persone offese".
Questa, dunque, la controffensiva di Rutelli, che secondo l'inchiesta del settimanale sarebbe in realtà il primo a pagare la volontà di Luigi Lusi a non fare da unico caprio espiatorio per lo scandalo dei soldi sottratti alla Margherita. Volontà deducibile proprio dalle minacce ben poco velate indirizzate da Lusi a quanti furono ai vertici della Margherita proprio attraverso un fuori onda trasmesso da Servizio Pubblico3.
Le casse della Margherita hanno continuato a beneficiare di abbondanti rimborsi elettorali anche quando il partito era ormai sparito ufficialmente, ma non contabilmente, dalla politica italiana confluendo nella fondazione del Pd. Lusi di quei soldi ha fatto ampiamente uso personale, per l'acquisto di beni e lussuosi svaghi 4. Ma il senatore ha lasciato intendere con parole fin troppo chiare che nell'affaire potrebbero saltare ben altre teste.
Parole che fanno vibrare la struttura portante del centrosinistra, quelle dell'ex tesoriere. A cui l'ex partito di Francesco Rutelli ha risposto con la querela e la richiesta di danni da quantificare tra i 5 e i 10 milioni di euro. Ma è proprio Rutelli il primo a essere tirato di peso nell'affaire.
Come rivela l'inchiesta de L'Espresso, il tesoriere della Margherita Luigi Lusi avrebbe girato centinaia di migliaia di euro della Margherita alla fondazione di Francesco Rutelli, Centro per il futuro sostenibile (Cfs). A partire dal momento in cui Rutelli lascia il Pd per fondare il suo nuovo partito, Alleanza per l'Italia (Api).
Soldi dirottati da Lusi nelle casse di Cfs attraverso una serie di bonifici, mai superiori ai 150mila euro per aggirare il comma 7 delle "disposizioni finali" dello statuto della Margherita. Che prevede come, durante la fase di costituzione del Pd, "gli atti di straordinaria amministrazione e quelli di ordinaria amministrazione di importo superiore a 150 mila euro" siano adottati "congiuntamente dal Tesoriere e dal Presidente del Comitato Federale di Tesoreria".
"La norma - spiega L'Espresso - è stata inserita nel maggio 2007 e avrebbe dovuto rafforzare il ruolo di controllo del Comitato su Lusi. Peccato che quasi tutte le uscite del tesoriere siano state inferiori a quella somma". Il primo bonifico di Lusi a Cfs, ammontare di 48mila euro, è datato 13 novembre 2009: due giorni prima era nato l'Api. Al luglio 2011, quando sui conti di Cfs piovono 200 mila euro in due distinti versamenti, alla fondazione sarebbero arrivati complessivamente 866 mila euro. In media, oltre 43 mila euro al mese.