lunedì 26 marzo 2012

APRE L'IKEA, BOOM DI RACCOMANDAZIONI. L'AZIENDA: "BASTA PRESSIONI DAI POLITICI"



PESCARA - Una lettera per chiedere di smetterla di mandare pressioni all'ufficio personale, indicando chi assumere. Così Ikea, che a breve aprirà una sede a San Giovanni Teatino, tra Chieti e Pescara, ha scritto una lettera ai politici locali chiedendo di interrompere il teatrino tutto italiano delle "segnalazioni", specialmente sotto le elezioni. A maggior ragione visto che, come riporta Abruzzo24, a spedire il curriculum sono stati in trentamila da tutto il Centro Sud, (i posti a disposizione sono 220).
A svelare il tranello dei politici locali è stato il segretario regionale dei Giovani Idv Giampiero Riccardo sul proprio profilo Facebook. Del resto sin dal primo insediamento in Abruzzo Ikea ha dovuto combattere con la mentalità clientelare locale, tanto che Alessandro Paglia, direttore di Ikea Italia, assicurò che i colloqui sarebbero avvenuti fuori dall'Abruzzo "per evitare possibili pressioni, raccomandazioni locali". 




http://www.leggo.it/news/cronaca/apre_ikea_boom_di_raccomandazioni_azienda_basta_pressioni_dai_politici/notizie/172791.shtml 

Il grande assente nel dibattito sulla riforma: il lavoro. - di Emilio Carnevali



Nell'Italia di oggi la priorità dovrebbe essere quella di creare posti di lavoro, non di facilitare i licenziamenti. Nel libro “Il lavoro prima di tutto” di Stefano Fassina una riflessione originale e appassionata sulla crisi e il futuro della sinistra. Una proposta utile anche per il dibattito in corso. Mai come in questi giorni in Italia si è parlato di lavoro. E presumibilmente si continuerà a farlo per un po', dal momento che è ancora lungo il percorso che attende la riforma del ministro Fornero. Potrebbe suonare come una buona notizia, vista la centralità che il tema dovrebbe assumere nella drammatica situazione sociale dell'Italia – e dell'intera Europa – con l'arrivo della seconda, gravissima recessione nel giro di quattro anni. 

Ma la notizia non è affatto buona, e non solo per la natura della riforma – nel complesso una cattiva riforma, a modesto parere di chi scrive – elaborata dal governo. Indipendentemente dalle possibili correzioni in sede parlamentare, sempre che tali correzioni riescano ad andare in porto, c'è un grande problema fin qui del tutto eluso che dovrebbe costituire la questione fondamentale in qualsiasi dibattito sul lavoro. È il problema che ha messo a fuoco, non senza una certa efficacia retorica, un grande vecchio del sindacalismo italiano come Pierre Carniti in una recente puntata de L'infedele di Gad Lerner: «Il problema del lavoro in Italia è la mancanza di lavoro. Il problema è della domanda e noi stiamo qui a discutere dell'offerta!». Parole cui hanno fatto eco quelle di un altro ex sindacalista come Sergio Cofferati pochi giorni dopo: «Il tema principiale è la crescita: siamo in piena recessione, aumenta la disoccupazione e la povertà e il governo Monti impegna le sue energie a discutere la riorganizzazione di una cosa che non c'è. Questa cosa che manca è il lavoro».

Carniti e Cofferati hanno ragioni da vendere. Di questo si dovrebbe innanzitutto discutete. O, quanto meno, anche di questo si dovrebbe discutere. 
In attesa che il dibattito pubblico possa riposizionarsi su un ordine di argomenti più ragionevole – prima che sia la sempre più stringente morsa della crisi dell'economia reale a condurcelo con le “cattive maniere” – non possiamo fare altro che raccogliere alcuni materiali utili. Fra questi c'è il libro di Stefano Fassina, responsabile economia del Partito democratico, intitolato “Il lavoro prima di tutto” (recentemente pubblicato dalla casa editrice Donzelli, pp.191, euro16,50). 

Il punto di partenza del libro è l'analisi della Grande Recessione scoppiata nel 2008 negli Stati Uniti e propagandatasi ben presto nell'intero Occidente. Due sono i “racconti ufficiali”, profondamente interconnessi fra loro, di questa crisi: da una parte ci sarebbe la finanza malata del mondo anglosassone, responsabile – attraverso la creazione di strumenti di credito sempre più sofisticati e l'esplosione di una componente puramente speculativa praticamente fuori controllo – dell'avvelenamento dell'economia reale e dell'amaro risveglio della classe media americana dal sogno della Ownership Society promessa da George W. Bush. Dall'altra parte, sul fronte europeo, si assisterebbe all'inevitabile collasso di un modello sociale – fondato su alta spesa pubblica, welfare universalistico, politiche fiscali fortemente redistributive e tutela dei diritti sui luoghi di lavoro – ormai incompatibile con i vincoli di competitività imposti dal mercato globale.

Si tratta di due racconti che Fassina contesta radicalmente, accusandoli di confondere le cause con le conseguenze: «Tra il 2007 e il 2008 si è rotto l'equilibrio, insostenibile sul piano macroeconomico, sociale e ambientale, promosso nel trentennio alle nostre spalle dal paradigma neoliberista. La causa di fondo della rottura non è la finanza. È la regressione del lavoro, dei padri e dei figli, e la conseguente impennata della disuguaglianza di reddito, di ricchezza, mobilità sociale e, inevitabilmente, potere economico, mediatico e politico. Il lavoro, innanzitutto il lavoro subordinato, in tutte le sue forme esplicite o mascherate, è l'epicentro del terremoto». In altre parole il castello della finanza e dell'indebitamento privato sarebbe stato proprio il dispositivo grazie al quale compensare la stagnazione dei salari reali del ceto medio americano negli ultimi trent'anni, sostenere così i loro consumi e, con essi, la domanda globale. Una stagnazione dei salari reali della working class coincisa con una colossale redistribuzione della ricchezza non solo dai salari ai profitti, ma anche all'interno della quota dei salari: fra il 1947 e il 1979 lo 0,1% dei lavoratori meglio pagati percepiva un reddito da lavoro pari a 20 volte il reddito del novantesimo percentile; nel 2006 la proporzione era salita a 77 volte. Sono numeri che conferiscono un non trascurabile significato analitico ad uno slogan apparentemente generico come quello dei ragazzi di Occupy Wall Street: noi 99%, voi 1%.

Sul fronte europeo, a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, si sarebbe riprodotto un equilibro simile, in termini di insostenibilità, fra Paesi del centro (con la Germania, l'Olanda e l'Austria ad interpretare il ruolo di grandi esportatori assunto a livello globale dalla Cina) e paesi della periferia (Grecia, Spagna e Portogallo, ad assumersi il ruolo di “spugna assorbente”). Il tutto in presenza di una moneta unica che non permetteva recuperi di competitività attraverso la svalutazione nei paesi in deficit, e di una impennata della produttività non accompagnata da una proporzionale crescita dei salari reali (e quindi del costo del lavoro per unità di prodotto) nei paesi in surplus. 

È una tesi sulle cause profonde dell'attuale crisi che non è possibile rintracciare nei documenti ufficiali dei vertici europei egemonizzati dal governo conservatore di Angela Merkel, ma che si trova in grande sintonia, ad esempio, con le analisi del più autorevole columnist del Financial Times, Martin Wolf: «I tedeschi individuano fideisticamente nei peccati del debito pubblico l'origine della crisi. Hanno buone ragioni per crederci. Se accettassero la verità, dovrebbero ammettere di aver avuto rilevanti responsabilità nell'infelice situazione in corso», ha scritto Wolf lo scorso 7 dicembre. Il vero punto cruciale sarebbe l'aggiustamento degli squilibri commerciali: in assenza di questi, «i continui tagli al deficit sui paesi più fragili causeranno lunghe e profonde recessioni». L'unica via di uscita, se si esclude l'abbandono dell'euro da parte dei paesi della periferia, risiede nella ripresa dell'economia dell'eurozona tramite politiche di segno nettamente contrario rispetto a quelle fin qui adottate; e la responsabilità ricade in primo luogo su chi è nelle condizioni di svolgere il ruolo di motore europeo della domanda. 

Da qui l'enfasi che Fassina ripone per tutto il libro sulla necessità e la possibilità di una svolta a sinistra dell'Europa a partire dalla vittoria in Francia del candidato socialista François Hollande. Essa dovrebbe segnare una discontinuità immediata con i governi conservatori attualmente predominanti nel vecchio continente, ma anche con l'orizzonte strategico del precedente ciclo di governo di centrosinistra (seconda metà degli anni Novanta). La questione del lavoro diventa allora non solo base dell'analisi, ma fondamento della proposta. Non poche critiche sono indirizzate nel libro verso «i soliti avanguardisti del riformismo» che vedono nella «modernità secondo Marchionne l'unica modernità possibile».

La grande sconfitta della sinistra, preparata da una débâcle culturale prima ancora che politica, sarebbe maturata con la rinuncia alla rappresentanza degli interessi legittimi del lavoro subordinato in tutte le sue forme a favore di un «interclassismo socialmente devertebrato». La “questione settentrionale”, ad esempio, è stata spesso evocata dai pasdaran del nuovismo riformista come il segnale lampante dell'incapacità da parte della sinistra tradizionale di parlare ai settori più avanzati e dinamici del paese, al popolo delle partite Iva e della piccola impresa. Tuttavia, senza trascurare la necessità di una intelligente strategia delle alleanze, è bene ricordare che in Italia i lavoratori subordinati sono 17,5 milioni su poco più di 23 milioni di occupati; e la maggioranza dei lavoratori dipendenti privati (il 60% circa) risiede proprio al Nord: anche nel ricco e “mitico” Nord Est 3 lavoratori su 4 sono lavoratori dipendenti. 

È vero che con la crisi, quando le aziende chiudono, imprenditori e lavoratori sono sulla stessa barca. Ma quando la crisi non c'era e la ricchezza si spostava sempre più rapidamente dai salari ai profitti, quando le imprese puntavano tutto sulla riduzione dei costi e non sull'innovazione e la ricerca, perché la sinistra ha rinunciato ad offrire un punto di vista autonomo? Rispondere a questa domanda è tanto più urgente se si considera che il populismo delle destre ha, a suo modo, fornito una alternativa al crescente disagio che montava dalle “periferie sociali” del paese: Fassina la chiama «redistribuzione territoriale e interaziendale del reddito». In sostanza territori più forti (vedi il sindacalismo localistico di forze come la Lega Nord) e aziende più forti (vedi la battaglia sulla contrattazione di secondo livello e la manomissione del contratto nazionale promossa dal ministro Sacconi) contro territori e realtà produttive più deboli.

Tuttavia la posizione neo-laburista del responsabile economia del Pd non si può nemmeno sovrapporre a quella “antagonista” che caratterizza pezzi consistenti della sinistra politica e sindacale. Il discrimine è, anche qui, “di analisi” prima ancora che di “programma”. Con riferimento alla vicenda della Fiat, Fassina – che è sempre stato fra i più solidali, all'interno del suo partito, con le tute blu guidate da Landini – scrive: «La Fiom non sembra cogliere fino in fondo lo sbilanciamento dei rapporti di forza nella fabbrica, nella società, nella politica, sopratutto in una fase di drammatica carenza di lavoro e diffusa insicurezza». I metalmeccanici della Cgil sperano di compensare questa debolezza attraverso una sempre più spiccata “politicizzazione” del sindacato e il coinvolgimento dei movimenti (vedi l'alleanza con i No Tav). Ma è un fatto difficilmente controvertibile, purtroppo, che le lotte di “resistenza" fin qui messe in campo hanno fatto registrare un differenziale enorme fra capacità di mobilitazione e risultati concreti ottenuti. Senza la politica, sostiene Fassina, senza l'ambizione di bypassare rapporti sociali oltremodo sfavorevoli tramite un'idea complessiva di Paese – e la capacità di trovare interlocutori adatti a dargli delle gambe sulle quali camminare –, si rischia la risorgenza del populismo e la continuazione di quello “smottamento” del mondo del lavoro che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni.

Il governo Monti, all'interno di questa logica, dovrebbe rappresentare l'inevitabile fase di transizione verso l'alternativa, nella consapevolezza che se da una parte non è possibile sottrarsi ai vincoli imposti dall'emergenza finanziaria da cui quel governo è nato, è tuttavia necessario non rinunciare ad una indipendenza di giudizio e di iniziativa da parte delle forze che si candidano alla rappresentanza del mondo del lavoro. Difficile inserirsi nella scia di una possibile svolta europea se in Italia si è catturati da dinamiche di governo che lasciano dietro di sé macerie sociali. E questo è il grande problema che la proposta di Fassina – e di chi come lui, dentro il Pd, si oppone alla deriva neocentrista e tecnocratica del principale partito della sinistra italiana – si trova di fronte. Ma è un problema che nessuna analisi macroeconomica, nessun grafico, nessuna tabella potrà risolvere. Serve la lotta politica. 



http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-grande-assente-nel-dibattito-sulla-riforma-il-lavoro/ 

Quando Benedetto XVI vola… - di Michele Martelli




Quando è sull’aereo, e vola alto nel cielo, al di sopra delle nuvole (ma con un aereo dell’Alitalia pagato da noi, un altro otto per mille in altra forma), papa Benedetto XVI si sente forse più vicino alla Verità di Dio di quanto lo sia sulla terraferma. Fa ricordare “l’Occhio di Dio” racchiuso nel triangolo sopra le nubi tipico delle figurine devote diffuse nelle parrocchie. Da lassù, forse crede di vedere tutto e meglio. Perciò parla, e molto. E, sia detto senza irriverenza, spesso a sproposito.

Come quando, in volo per l’Africa, si esibì nel memorabile “discorso del preservativo”: peccato grave usarlo, anche se sei malato di Aids, anche se sai che, se non lo usi, infetti mortalmente la donna e il nascituro. Ecco dove giunge l’ossessione del peccato carnale, che il furioso sessuofobico Agostino insufflò nella Chiesa, e di cui è erede anche Benedetto XVI, peraltro studioso e grande estimatore del santo.
Ma veniamo all’ultimo volo celeste del papa teologo. Quali, questo volta, le sue memorabili sentenze? Due, l’una legata all’altra in un groviglio di contraddizioni.

1) «La Chiesa non è un potere politico, non è un partito ma non rinuncia alla sua missione. La Chiesa sta sempre dalla parte della libertà, libertà di coscienza, di religione. Anche la politica però deve essere una realtà morale ed è in questo che la Chiesa ha fondamentalmente a che fare con la politica. Il primo compito è educare le coscienze sia nell’etica individuale, sia nell’etica pubblica».

“La Chiesa non è un partito, non è un potere politico”? È molto di più. Il suo capo è Benedetto XVI: qualche premuroso giornalista sull’aereo poteva ricordarglielo? Quello stesso Benedetto XVI che è anche il monarca dello Stato Vaticano: perché questa amnesia generale, tutta italiota? Dunque, la missione del papa a Cuba e in Messico, è, e non potrebbe essere diversamente, politica e religiosa al tempo stesso. Va a difendere la libertà religiosa, di coscienza? Ma di chi? In Messico, e a Cuba (almeno, a quanto sembra, dopo la storica visita di Wojtyla), nessuno la mette in dubbio. Ma allora che senso ha rivendicarla recandosi in missione in quei due paesi?

E poi, se la libertà religiosa va difesa, domanda lapalissiana per un laico, credente o non credente che sia, perché non difenderla, o meglio, perché non introdurla anche nello Stato Vaticano, dove c’è una sola religione che è religione di Stato, e tutte le altre sono messe al bando? Perché non guardare, evangelicamente, la trave nel proprio occhio, invece che la pagliuzza nell’occhio altrui? Perché non ricordare in modo coerentemente autocritico, con un pubblico altisonante mea culpa, le centinaia di encicliche papali e di documenti ecclesiastici dal Seicento ad oggi, che hanno condannato la libertà religiosa, anzi la libertà tout court?

Infine, se “anche la politica è realtà morale”, mi sembra chiaro che in democrazia lo è in senso pluralistico: che mille religioni e mille morali fioriscano, purché sia salva la libertà di tutti e di ciascuno. E invece no. La Chiesa di Benedetto possiede la vera morale, la vera etica, sia per la sfera privata del singolo sia per quella pubblica dello Stato. E poiché, secondo la dogmatica cattolica, ciò che è vero lo è in senso assoluto, perché viene da Dio, e ciò che è opposto al vero, il falso, lo è in senso altrettanto assoluto, perché viene da Satana, – tutti, singoli e Stati, se non vogliono deviare, si lascino, docili pecorelle, guidare sulla “retta via” dalla Chiesa e dal papa.

Orsù dunque, Cuba deviante e peccatrice, inginocchiati devota, e bacia l’anello di Benedetto, l’aspirante Gregorio VII o Innocenzo III dell’era globale!

2) «Oggi è un tempo in cui l’ideologia marxista, come concepita, non risponde più alla realtà. Occorre trovare nuovi modelli, con pazienza, in modo costruttivo. Vogliamo aiutare in uno spirito di dialogo, per evitare traumi e per contribuire ad andare verso una società giusta come la desideriamo per tutto il mondo».

Dunque il marxismo prima (quando, dove, quale: quello stalinista, polpottista, maoista, o fidelista?) rispondeva alla realtà. Dunque era vero, corretto, condivisibile? Ma allora perché papi, vescovi e cardinali l’hanno combattuto e anatemizzato, in tutte le forme e in tutte le salse, per oltre 150 anni? Perché, si può rispondere, era ateo, materialista, nemico della Chiesa, della vera religio, della Verità di Dio, e perciò falso.

Ma se era falso anche prima, la frase del papa ha poco senso. E poi, incredibile a dirsi!, quella frase si sposa perfettamente con la teoria della verità professata dalle scuole di partito e dai manuali di Diamat staliniani: «La verità è la corrispondenza delle nostre idee con la realtà esterna», che riproduce e aggiorna in senso scientista e positivista la vecchia aristotelico-tomistica adequatio rei atque intellectus.

Ma Benedetto agostiniano non dovrebbe professare l’opposta teoria del santo di Ippona, per cui in interiore homine habitat veritas? Che cosa c’entra quindi la concezione meccanicistica, aristotelico-tomistico-sovietica della corrispondenza tra idee e realtà? Evitiamo qui una discussione filosofica antiquata, di cui oggi nessuno o pochi sentono il bisogno. Ci basta rilevare la strana (ma non tanto!) analogia tra due dogmatismi opposti e simmetrici: quello del Partito-Stato e quello della Chiesa-Stato.

“Nuovi modelli” alternativi al marxismo? Ma quali? Benedetto conosce un solo modello universalmente valido (ne ha parlato egli stesso in altre occasioni), opposto sia a quello marxista sia a quello liberal-democratico moderno: il modello gelasiano (di papa Gelasio I, V secolo d.C., figuratevi!), che prevede la sottomissione dell’imperium al sacerdotium, dell’imperatore e dei governanti al papa, del potere temporale al potere spirituale, religioso, dello Stato alla Chiesa. Benedetto l’ha tradotto in due formule: a) «l’ingresso di Dio nella sfera pubblica»; b) «agire veluti si Deus daretur, come se Dio ci fosse». In uno Stato, e in un supposto “giusto” ordine politico mondiale confessionale all’ombra del Vaticano, primato e privilegi della Chiesa cattolica sarebbero al sicuro.
È questo l’oggetto del “dialogo” del papa col governo cubano? Lo scalpo che il papa chiede al vecchio e debole ottantenne Fidel? Convèrtiti, figliolo; se lo fai, passerai alla storia come un nuovo piccolo Costantino Magno; io, che siedo sul trono di Pietro, ti assicuro, pregherò san Pietro che ti apra le porte del Paradiso.



http://temi.repubblica.it/micromega-online/quando-benedetto-xvi-vola%E2%80%A6/

Chi controlla i controllori?



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domenica 25 marzo 2012

L’ultimo viaggio di Ilaria Alpi e Milan Hrovatin in Somalia e quell’ombra di Gladio. - di Andrea Palladino e Luciano Scalettari



Parole in codice, presenze anomale e 'possibili interventi': in alcuni messaggi inediti partiti dal comando carabinieri presso il Sios della Marina militare di La Spezia, nuovi scenari sull'agguato costato la vita alla reporter del Tg3 e al suo operatore, uccisi a Mogadiscio, in Somalia, il 20 marzo 1994.

Un anno d’inchiesta “vecchio stile”, cercando conferme, incrociando fonti, analizzando migliaia di documenti. Un archivio di Gladio che si apre, con nuove esplosive piste su alcuni misteri d’Italia, ad iniziare dall’omicidio Alpi-Hrovatin. 
Il Fatto quotidiano ricostruisce oggi in esclusiva la presenza a Bosaso, in Somalia, di alcuni reparti “informali” della nostra intelligence il 14 marzo del 1994, quando Ilaria Alpi e Miran Hrovatin stavano preparando l’ultima loro inchiesta. Un messaggio inedito partito dal comando carabinieri presso il Sios della Marina militare di La Spezia definiva i due giornalisti “presenze anomale”, ordinando un “possibile intervento”.




Ilaria Alpi, l’ombra di Gladio.
Sono le tre del pomeriggio a Bosaso, porto strategico del nord della Somalia. E’ un martedì di un mese di marzo che rimarrà scolpito nella storia italiana. E’ il 1994, anno indimenticabile. Il nostro esercito a Mogadiscio stava preparando la smobilitazione, lasciando al proprio destino il Paese che aveva dominato per anni. Prima come colonia, poi come protettorato, quindi come zona di influenza silenziosa, infine con l’Operazione Ibis, inserita nel più ampio intervento Onu “Restore Hope“, riportare la speranza. Mancavano pochi giorni alla fine di una guerra mascherata dall’etichetta dell’intervento umanitario, che per due anni ha accompagnato il periodo più oscuro del nostro Paese, stretto tra le stragi e le trattative sotterranee con il potere mafioso, con l’apparato politico ed economico messo sotto scacco dalle inchieste e dagli arresti. Solo quattro mesi prima di quel marzo del 1994 il presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro aveva parlato di “un gioco al massacro”. Stragi, massacri, esecuzioni. Parole che hanno segnato gli anni oscuri della Repubblica, in un momento dove riappare l’ombra delle strutture riservate dei servizi, derivate – secondo alcuni documenti inediti – direttamente da Gladio.

Alle tre del pomeriggio del 15 marzo Ilaria Miran erano seduti in un albergo non distante dal porto, registrando una delle ultime interviste della loro vita, al Sultano di Bosaso. “Perché questo è un caso particolare”, aveva annotato la giovane reporter del Tg3 su uno dei pochi block notes arrivati in Italia dopo la sua morte a Mogadiscio. Nei pochi minuti rimasti di quella intervista Ilaria parla di navi, chiede di un battello rapito, incalza il sultano cercando di capire i legami tra i traffici somali e l’Italia. Che stava accadendo in quel luogo, sperduto ma strategico? E’ la domanda chiave che potrebbe spiegare l’agguato mortale del 20 marzo 1994, quando i due giornalisti furono uccisi nelle strade di Mogadiscio.

Diciotto anni dopo, forse il muro impenetrabile che ha impedito di capire cosa rappresentava la Somalia per l’Italia nel 1994 inizia a mostrare qualche piccola breccia. Un documento inedito racconta una storia parallela, una trama che potrebbe incrociarsi con quel viaggio a Bosaso di Ilaria e Miran. E’ un messaggio dattiloscritto su un modulo militare, partito il 14 marzo del 1994 dal comando carabinieri del Sios di La Spezia, il servizio segreto della Marina militare sciolto nel 1997 e confluito prima nel Sismi e poi nell’Aise. Una comunicazione diretta a un maggiore in servizio a Balad, sei giorni prima dell’ammaina bandiera e dell’evacuazione delle nostre truppe: “Causa presenze  anomale in zona Bos/Lasko (Bosaso Las Korey, nda) ordinasi Jupiter rientro immediato base I Mog”. Presenze anomale, a Bosaso. Quel 14 marzo Ilaria Alpi e Miran Hrovatin erano appena arrivati nella città al Nord della Somalia, zona dove i due giornalisti non potevano passare inosservati. E’ di loro che si sta parlando? Con ogni probabilità sì, è difficile formulare altre ipotesi.“Ordinasi spostamento tattico Condor zona operativa Bravo possibile intervento”, prosegue il messaggio. Che stava accadendo in quella città il giorno dell’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin? Chi è Jupiter? E chi è Condor? E poi, perché l’intelligence italiana ha sempre assicurato di non avere nulla a che fare con la città di Bosaso?

DOCUMENTO: GLI ORDINI DEI SERVIZI A “JUPITER”

Il generale Carmine Fiore è stato l’ultimo alto ufficiale a guidare l’operazione Ibis in Somalia. Era lui al comando in quei giorni, quando i nostri reparti si preparavano a ritornare in Italia. Osserva a lungo il documento partito dal Sios. Legge e rilegge quegli ordini, intuendo chi potesse essere quel maggiore che riceve il messaggio, il cui nome è parzialmente coperto da un omissis. “Non ho mai visto questo ordine, nessuno me ne ha mai parlato”, spiega. E aggiunge: “Se questo documento è vero vuol dire che esisteva una struttura occulta, non nota al comando del contingente”. Un gruppo particolare, in grado di svolgere operazioni coperte.

I tanti militari e agenti del Sismi interpellati per capire meglio il senso del messaggio partito da La Spezia non hanno contestato l’autenticità. Qualcuno – chiedendo l’anonimato – si è chiuso dietro l’obbligo del segreto al solo sentir parlare di Somalia. Per tutti appariva chiaro un dato di contesto: quel linguaggio, quel tipo di comunicazione e le strutture coinvolte hanno un marchio di fabbrica ben noto, Gladio, o meglio SB, cioè Stay Behind, come ufficialmente veniva chiamata. Un’organizzazione che nel 1994 in teoria non esisteva più, ma che per un ex agente della Struttura SB (che chiede l’anonimato per ragioni di incolumità personale) ha continuato a operare, cambiando semplicemente nome.

Una storia che non sorprende Felice Casson, oggi senatore del Pd, che da magistrato ha condotto due importanti indagini sul traffico internazionale di armi e su Gladio: “Ricordo che a cavallo di quelle due inchieste mi venne a trovare Ilaria Alpi, voleva più informazioni – racconta – le avevo promesso che ci saremmo rivisti. Avevo conservato il suo biglietto”. Per l’ex magistrato il messaggio sulle “presenze anomale” è sicuramente un documento importante: “Non posso affermare o escludere l’autenticità, servirebbe una perizia, ma posso dire che è compatibile con la struttura Gladio”.

La Somalia di Jupiter.

C’è un riscontro immediato e importante del messaggio partito dal comando carabinieri del Sios di La Spezia. Jupiter è l’alias di un italiano, un civile, Giuseppe Cammisa. Era il braccio destro di Francesco Cardella, il guru della comunità Saman, morto lo scorso 7 agosto a Managua, dove si era rifugiato da diversi anni per sfuggire alla giustizia italiana. Cammisa era sicuramente in quella zona, come dimostrano alcuni documenti ritrovati nell’archivio milanese di Saman. C’è una fotocopia del suo passaporto, con il visto per Gibuti; c’è la prenotazione del viaggio aereo, con partenza da Milano il 5 marzo 1994; e c’è un documento molto importante, la lettera di accreditamento per il viaggio fino a Bosaso con un aereo Unosom, il comando Onu della missione Ibis/Restore Hope. Un volo fondamentale per la ricostruzione degli ultimi giorni del viaggio dei due reporter della Rai: quell’aereo, partito da Gibuti il 16 marzo, è lo stesso che avrebbe dovuto riportare a Mogadiscio Ilaria e Miran. I due giornalisti persero quell’opportunità, forse perché secondo fonti della nostra stessa intelligence presente in Somalia, minacciati e trattenuti per il tempo sufficiente a far perdere loro il volo. Un altro dato sicuro è il soprannome di Cammisa, il nomignolo che ancora oggi usa: Jupiter, Giove.

Anche il servizio interno, il Sisde, si era occupato della strana missione di Jupiter nella zona di Bosaso. Un appunto datato 12 marzo 1994, diretto alla “segreteria speciale” del ministero dell’Interno, descrive nei dettagli quanto stava avvenendo nei giorni che precedono l’arrivo di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin: “Come da espressa richiesta, si conferma nelle aree adiacenti il villaggio somalo di Las Quorey, un vasto perimetro recintato già in uso per la lavorazione di prodotti ittici e derivati e adoperato in precedenza dalla Stasi/DDR (il servizio segreto dell’allora Germania orientale, ndr) per operazioni militari non convenzionali nel territorio somalo. In detta area peraltro riutilizzata tutt’oggi da personale italiano è stata notata senza dubbio alcuno nei giorni scorsi la presenza di detto ‘Jupiter’ appartenente alla ben nota struttura della Gladio trapanese”. Jupiter, dunque, era noto come membro di Gladio anche per il Sisde, che – andando oltre i compiti istituzionali – monitorava quanto stava avvenendo in quei giorni attorno alla città di Bosaso.

IL DOCUMENTO DEL SISDE DEL 12 MARZO 1994

Secondo la versione ufficiale di Saman, quella missione di Cammisa e del medico somalo Omar Herzi (che in quel periodo collaboarava all’organizzazione di Cardella) serviva a creare un ospedale a Las Korey (nome di un villaggio a cento chilometri da Bosaso, richiamato nel messaggio del 14 marzo). Così lo ricorda Francesco Cardella, intervistato via email pochi giorni prima della sua morte a Managua: “L’idea di base – discussa con il giornalista e profondo conoscitore della Somalia  (nonché caro amico mio) Pietro Petrucci - era di produrre una missione umanitaria nella zona dell’ex Somalia britannica. Con questo scopo andammo a Las Korey io, lo stesso Petrucci e il dottor Hersi”. Un primo viaggio realizzato alla fine del 1993. Prosegue il racconto: “Mandai Cammisa e Hersi prima a Dubai – dove avrebbero acquistato un fuoristrada ed altre attrezzature necessarie ad un primo intervento e dove avrebbero ricevuto medicinali inviati da Milano – e da lì – via Gibuti – nella zona di Las Korey”. Dunque la presenza di Cammisa, alias Jupiter, a Bosaso quella settimana prima dell’agguato di Mogadiscio è confermata da più fonti.

C’è di più. Uno degli attuali dirigenti di Saman, Gianni Di Malta, ricorda con precisione un episodio molto importante: “Quando Cammisa tornò dalla Somalia mi raccontò di aver incontrato Ilaria Alpi, in un albergo di Bosaso”. Parole che oggi Jupiter smentisce, assicurando di non aver mai incontrato la giornalista rimasta uccisa a Mogadiscio diciotto anni fa. Per poi aggiungere: “E poi, non so neanche cosa sia questa Gladio”.

Giuseppe Cammisa è uno dei pochi che oggi potrebbe spiegare quello che stava avvenendo a Bosaso in quei giorni, visto che quasi tutti i protagonisti di quella missione di Saman sono morti. Tutti meno uno, l’ex giornalista Pietro Petrucci, esperto fin dagli anni ’80 di questioni somale, che, secondo Francesco Cardella, fu uno degli ideatori del presunto progetto sanitario di Saman. Oggi vive in Francia, dopo aver lavorato per anni come esperto della commissione europea. Di quella vicenda, però, non vuole parlare. Ha evitato di citare il progetto Saman anche davanti a due commissioni parlamentari d’inchiesta, quella sulla cooperazione della fine degli anni ’90 e quella diretta da Carlo Taormina sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Per ben due volte confermò la sua presenza a Bosaso alla fine del 1993, senza però raccontare nulla, neanche un cenno, del progetto Saman. Nulla disse, poi, del viaggio di Cammisa/Jupiter e di Herzi – suo amico – nel marzo del 1994.

Lo stesso Sismi - in una nota del 10 novembre 1997, firmata dall’allora direttore del servizio Gianfranco Battelli – non credeva alla versione ufficiale della missione umanitaria di Saman: “Nulla, invece, è noto circa il suo impegno nella costruzione di un ospedale o di altra struttura a Bosaso”. Un progetto sanitario avviato mentre era in corso un intervento massiccio del nostro esercito, sconosciuto alla nostra intelligence: qualcosa decisamente non torna. Una cosa è in ogni caso sicura: troppi omissis impediscono ancora oggi di ricostruire la verità sull’agguato del 20 marzo 1994, quando un commando uccise Ilaria e Miran, appena tornati da Bosaso.

Quello strano centro Scorpione a Trapani.

C’è un secondo messaggio del Sios di La Spezia che cita Jupiter. E’ datato marzo 1989, diretto questa volta ad una struttura di Gladio, il Cas Scorpione di Trapani. Annuncia la visita di un onorevole – il nome non è chiaramente leggibile sulla copia consultata – e chiede la disponibilità di Jupiter e di Vicari, ovvero il nome in codice di Vincenzo Li Causi, l’agente del Sismi che all’epoca dirigeva il centro Scorpione. E’ un passaggio importante, visto che quella base di Gladio utilizzava il campo volo di Trapani Milo, pista dismessa distante appena quattro chilometri dalla comunità Saman, dove Cammisa lavorava come uomo di fiducia di Francesco Cardella; la stessa pista dove di nascosto il giornalista e sociologo Mauro Rostagno, nell’estate del 1988 (una paio di mesi prima di essere assassinato), aveva filmato il caricamento di casse di armi dirette in Somalia su un aereo militare.

Vincenzo Li Causi non era un agente qualsiasi. Maresciallo dell’esercito, era stato addestrato per anni per compiere missioni difficili e riservate, dalla liberazione di Dozier fino a operazioni sotto copertura in Perù. Secondo alcuni fonti aveva conosciuto Ilaria Alpi durante un corso di lingua araba in una scuola di Tunisi. Un nome che riporta di nuovo alla Somalia, terra dove Li Causi verrà ucciso il 12 novembre 1993, quattro mesi prima dell’agguato di Mogadiscio, durante una missione a Balad. Ancora oggi su quella morte rimangono molti dubbi non risolti: un unico colpo lo raggiunse sotto il giubbotto antiproiettile, mentre rientrava verso la base degli incursori. Secondo l’ex appartenente a Stay Behind, Vincenzo Li Causi sarebbe stata la fonte di Ilaria Alpi, che ben sapeva cosa stava avvenendo a Bosaso.

Sul centro Scorpione si sono concentrate diverse inchieste, senza mai definire con chiarezza quale fosse il vero scopo di una base di Gladio in Sicilia. Secondo le deposizioni raccolte dai magistrati l’unico rapporto che sarebbe stato prodotto dagli agenti di Stay Behind tra il 1987 e il 1990 (periodo di funzionamento del gruppo di Trapani) avrebbe riguardato proprio la Saman. Era proprio così? Alcuni documenti provenienti dall’archivio Gladio parlano di operazioni legate al traffico di armi e di esercitazioni con esplosivo e mute di sommozzatori nel giugno del 1989. Ovvero nei giorni del fallito attentato dell’Addaura, che tanto inquietò Giovanni Falcone. Forse solo suggestioni, forse coincidenze, peraltro rimaste racchiuse nei cassetti dei servizi segreti italiani, negando alla magistratura la possibilità di analizzare tutte le piste possibili.

L’omicidio di Ilaria Alpi Miran Hrovatin potrebbe dunque nascondere qualcosa che va al di là di ogni ipotesi immaginata fino ad oggi, traffici che hanno visto il coinvolgimento di apparati dello Stato, coperti per diciotto anni, grazie a silenzi e depistaggi.



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