giovedì 15 aprile 2010

Se scompaiono i testimoni della guerra - Barbara Schiavulli

15 aprile 2010
Liberarsi di un testimone, di quello sguardo critico sulla guerra che nessuno vuole avere puntato, non è una nuova offensiva della guerra afgana. La chiusura dell’ospedale di Lashkarg Gah, oltre al danno che subiscono le vittime afgane, toglie di mezzo una voce, un mucchietto di occhi che vivevano radicati in una zona, quella del sud sempre più difficile da raccontare. La guerra in Afghanistan si dovrebbe raccontare in tanti modi esattamente quante le sfaccettature e le contraddizioni di questo paese, seguendo tutti i fronti. Eppure questo non accade più. Resta uno degli eventi che hanno più spazio nei giornali, ma tra quello che si riesce a scrivere e quello che si riesce a vedere, c’è di mezzo una landa desolata di persone che non si possono più incontrare, di terre che non si possono attraversare, di strade minate. Nel 2002, poco dopo la fine dell’invasione americana l’Afghanistan era accessibile a chiunque avesse voglia di visitarlo. Pericoloso, ma non troppo. I pericoli erano ancora quelli che vivevano tutti, le mine nei campi, i banditi, i signori della guerra. Da Tora Bora, dove Bin Laden si nascondeva in qualche caverna, rasa al suolo dagli americani, si poteva scendere verso l’umida Jalabad, spingersi verso la famigerata Kandahar, risalire verso Herat, attraversare quella meraviglia che è il Panshir, proseguire verso la provincia di Bamyan per sentire i fantasmi dei Budda distrutti dai talebani.

Otto anni dopo tutto è cambiato. A Kabul ci si muove con circospezione, fingendo di non vedere i messaggi di allarme che ogni giorno ti manda l’ambasciata. "Segnalata Toyota pericolosa nella zona delle Nazioni Unite", oppure "Segnalato pericolo di attentati agli uffici del ministero degli Interni". Quasi mai la minaccia è reale, ma a volte sì. Un tempo si parlava con la gente, ci si tuffava nei mercati, si andava a mangiare nei ristoranti. Ora l’Afghanistan per molti che lo raccontano si è ristretto. Tutto quello che accade fuori Kabul è difficile da verificare. Mentre una volta si prendeva una macchina, il proprio autista, quello di sempre, di cui ci si fida e che rischia con te, oggi nemmeno loro si azzardano se non è necessario. Lo straniero è diventato una gallina d’oro per i talebani tornati in forze. Ciò non toglie che ci possono essere a volte, con qualche trucco e molta fortuna, delle possibilità. I colleghi stranieri, americani e inglesi, hanno reti di giornalisti locali che lavorano per loro e monitorano la situazione. Ma gli inviati stranieri scalpitano. É frustrante continuare a raccontare senza poter vedere.

Dopo il sequestro
Mastrogiacomo tornare a Kandahar sembrava impossibile, ma non se il giornalista della tv katariota al Jazeera, tra le più viste nel mondo arabo, ti presta il suo traduttore, dicendogli che sei una giornalista libanese e non italiana. Non è impossibile quando ti vesti come loro e sembri una di loro, e non perdi tempo. Ma non si può sempre azzardare. Raccontare la gente è sempre più difficile, perché il rischio di non tornare a scrivere è elevato. Solo qualche mese fa, un giornalista inglese del New York Times, correva nella provincia di Kunduz per cercare di parlare con qualcuno che aveva visto uno degli ultimi massacri della Nato, quando su richiesta dei militari tedeschi gli americani bombardarono un’autocisterna che era stata sequestrata dai talebani, ma nel farlo uccisero decine di civili.

All’inizio negarono, poi davanti all’evidenza dei giornalisti locali che raccontarono, si limitarono ad ammettere e chiedere scusa. I talebani non vogliono i giornalisti tra i piedi perché non riescono a capirne la funzione, i militari della Nato invece auspicano di far vedere il meno possibile le brutture di un’offensiva, perché il sangue sporca anche se è solo scritto sulle pagine di un giornale. Ma i giornalisti li tollerano nelle basi, purché la macchina della propaganda funzioni. Per molti, l’unico aspetto possibile da raccontare l’Afghanistan è "intruppandosi" con i soldati stranieri, che siano italiani nella zona ovest, con gli americani a sud o con gli inglesi nel cuore dei combattimenti. Si ha una visione da dentro il combattimento, ma ne è solo una porzione, che va coperta, ma che non deve essere l’unica per non essere di parte. Tra poco scatterà l’offensiva di Kandahar, la più grande lanciata dagli americani, già ne parlano da settimane, alcuni fortunati saranno con i soldati, altri staranno nelle retrovie ad accontentarsi di veline.

I fondamentali giornalisti locali proveranno a raccontare l’altra parte quella che ogni altro giornalista straniero vorrebbe vedere, ma che non riuscirà a farlo anche perché i giornali che viaggiano sempre più in ristrettezze economiche preferiscono mandare i propri giornalisti con i militari che non costano niente piuttosto che pagare, hotel, traduttori, qualcuno perfino la scorta, che in realtà, diventando più visibili, aumenta il rischio. L’Afghanistan abbandonato quando iniziò la guerra in Iraq, è tornato sulla notizia con la elezioni di
Obama, ma le grandi inchieste, le grandi storie, faticano ad uscire. Ma per quel poco che si può fare, proprio come un ospedale che riesce a curare anche solo un ferito, si deve continuare ad andare, perché come disse Shermeen, una traduttrice straordinaria, "se voi non venite a raccontare, noi, che la guerra la subiamo ogni giorno, per il resto del mondo non esistiamo".

Da
il Fatto Quotidiano del 15 aprile



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