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mercoledì 2 febbraio 2022

Ora nel Movimento il tema centrale è il terzo mandato. - Peter Gomez

 

Il Movimento 5 Stelle ha un problema molto più grande dello scontro tra Luigi Di Maio e Giuseppe Conte: l’indecisione. Da più di tre anni il Movimento non affronta la questione centrale per il suo eventuale futuro: la regola dei due mandati. Oggi questo principio, che è da considerare fondante per i pentastellati, è ancora in vigore. Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo lo avevano introdotto per garantire un continuo ricambio degli eletti; per consentire alla società civile di aspirare a entrare in Parlamento non per cooptazione come avviene in tutti gli altri partiti e per evitare che all’interno delle Camere si formassero cordate interessate solo alla propria sopravvivenza. Gruppi di potere che gli elettori da sempre non amano e liquidano con una brutta, ma adeguata parola: poltronari. Un termine dispregiativo che però non tiene conto di un altro aspetto della questione: tra tante persone che dopo dieci anni sono disposte a fare di tutto pur di non perdere lavoro, poltrona e stipendio vi può sempre essere chi ha invece maturato esperienze e competenze molto utili alla forza politica che rappresenta.

Attualmente, in base alla regola, alle prossime elezioni non dovrebbero essere ripresentati 67 su 230 parlamentari. Molti di loro sanno già che se anche la norma fosse abolita le loro chance di rielezione sarebbero molto basse. I consensi sono in calo e il numero di posti a disposizione è per tutti diminuito proprio in base a una riforma costituzionale voluta dal Movimento. Ma avere pochissime possibilità è diverso dal non poter partecipare alla competizione elettorale. Sopratutto se la tua figura pesa nella breve storia grillina. Tra i 67 figurano nomi come quelli di Luigi Di Maio, Paola Taverna, Roberto Fico, Federico D’Incà, Danilo Toninelli, Laura Castelli, Giulia Sarti, Stefano Patuanelli e Vito Crimi. È ovvio e scontato insomma che indipendentemente dallo scontro tra dimaiani e contiani (tra i 67 vi sono esponenti di entrambi i fronti) la tensione salga e che anzi in qualche caso sia proprio la causa dello scontro.

Beppe Grillo ha già fatto sapere mesi fa di essere fieramente contrario a modificare la regola. Se lo fate, ha detto, io me ne vado. E si è limitato ad approvare l’introduzione di un terzo mandato (ipocritamente chiamato zero) per i consigli comunali. Un’innovazione utile, tra l’altro, per permettere a Virginia Raggi di correre di nuovo a Roma.

Conte, invece, non si è mai espresso chiaramente. Al netto del necessario assenso di Grillo e del voto vincolante da parte degli iscritti, le soluzioni possibili sono quattro: non cambiare niente; abolire la regola; introdurre un ulteriore mandato, ma solo per quanto riguarda i consigli regionali oltre che comunali; consentire delle deroghe. Cioè dare a Conte, o chi per lui, il potere di stabilire chi sono i meritevoli che però, per essere ripresentati, dovranno prima essere votati dagli aderenti ai 5Stelle. Ogni scelta ha dei pro e dei contro. Fatti chiari li esaminerà in una prossima rubrica. Una cosa però è certa. Rimandare non può che peggiorare le cose in un movimento in cui Di Maio può aspirare ad avere dalla sua parte molti parlamentari, ma al contrario di Conte pochi iscritti. Per questo l’ex premier, per il bene suo e della forza politica che rappresenta (e quindi anche di Di Maio), dovrebbe rileggere una frase del ventiseiesimo presidente degli Stati Uniti, Theodore Roosevelt: “Quando devi decidere, la migliore scelta che puoi fare è quella giusta, la seconda migliore è quella sbagliata, la peggiore di tutte è non decidere”.

https://www.ilfattoquotidiano.it/in-edicola/articoli/2022/02/02/ora-nel-movimento-il-tema-centrale-e-il-terzo-mandato/6477360/?utm_content=marcotravaglio&utm_medium=social&utm_campaign=Echobox2021&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR0BFg3CuLS1Dn1jt7yV-ZcrsL8HtJCaGwbr1IjOEIhgWy7tYT_XEIR_JDk#Echobox=1643791808

venerdì 14 gennaio 2022

Gas e nucleare tra le fonti «green»: perché la Ue ha rinviato la decisione. - Giuseppe Chiellino

 

Slitta dal 12 al 21 gennaio la chiusura della fase di consultazione degli stati membri sull’atto delegato della Commissione europea che deve decidere se e fino a che punto il gas e nucleare possono essere considerate fonti energetiche “verdi” e dunque possono rientrare nella tassonomia, la classificazione che Bruxelles sta mettendo a punto per mobilitare gli investimenti privati sulle fonti più sostenibili per l’ambiente e dunque necessarie per raggiungere la neutralità climatica al 2050.


Le motivazioni del rinvio.

Il rinvio - di cui si parlava da qualche giorno - è stato motivato con l’esigenza di dare più tempo ai governi per valutare la proposta di tassonomia presentata alle capitali il 31 dicembre, poche ore prima dello scoccare della mezzanotte in modo da rispettare anche formalmente l’impegno che Ursula von der Leyen aveva preso con gli Stati membri.

Il rinvio della deadline riguarda solo la consultazione con la Piattaforma sulla finanza sostenibile e con i 27, mentre resta invariata - per ora - la scadenza di fine mese per l’adozione dell’atto che per sua natura non è modificabile: Consiglio e Parlamento hanno quattro mesi di tempo (che molto probabilmente diventeranno sei) per approvarlo così com’è o bocciarlo con una maggioranza qualificata.

Secondo il calendario dei lavori del collegio, la data per l’adozione del controverso provvedimento dovrebbe essere il 26 gennaio, ma è plausibile che venga posticipata anche questa.L’intervento della Commissione dal punto di vista degli equilibri politici tra gli Stati membri è di una delicatezza estrema, come dimostrano le fibrillazioni crescenti delle ultime settimane.

Gas e nucleare secondo Bruxelles.

Bruxelles da tempo ritiene che il gas naturale e il nucleare hanno un ruolo come fonti per la transizione verso un futuro basato prevalentemente sulle rinnovabili. La loro classificazione nella bozza del provvedimento perciò è subordinata a condizioni molto rigorose che stanno facendo molto discutere, e ha creato diversi fronti.

Il primo, guidato dalla Francia, è a favore del nucleare. Per il presidente Macron si tratta di una questione esistenziale: con 58 centrali (molte di vecchia generazione) il Paese è il primo produttore di energia nucleare della Ue (37%) e con essa copre il 75% del proprio fabbisogno energetico.

Il fronte a guida francese.

«Un compromesso è un compromesso. Per noi l’essenziale è che il nucleare figuri nella tassonomia Ue» ha detto il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, dopo aver incontrato il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrovskis.

«Se vogliamo ridurre le emissioni di CO2, servono le rinnovabili, ma anche il nucleare». Posizione identica a quella del commissario al Mercato unico, il francese Thierry Breton: «Non c’è modo per l’Europa di raggiungere l’obiettivo delle zero emissioni nette nel 2050 senza l’energia nucleare» che richiede investimenti per «500 miliardi di euro per le centrali di nuova generazione».

L’opposizione di Berlino.

La Germania, che dopo il disastro di Fukushima ha deciso si smantellare il nucleare entro quest’anno e che riceve il gas russo con i due gasdotti NordStream, conferma la contrarietà all’energia dall’atomo ma Bruxelles spera che non arrivi ad aprire uno scontro con la Francia che ha la presidenza di turno della Ue e con la quale deve discutere altri delicati dossier, a cominciare dalla riforma del Patto di stabilità.

Il governo di Berlino, con dentro i Verdi, dovrebbe dunque astenersi e non seguire il fronte antinuclearista duro e puro guidato dall’Austria che per opporsi al provvedimento si è detta disposta ad impugnarlo davanti alla Corte di giustizia.

Contrario al nucleare è anche il Lussemburgo ma non basta a cambiare gli equilibri in Consiglio dove Spagna e Portogallo sono contrari sia al gas che al nucleare e spingono per una scelta più netta sulle rinnovabili.

C’è poi il fronte a Est, dove è ancora forte la dipendenza dal carbone e non ci sono preclusioni al nucleare. Da quelle parti i paletti in termini di riduzione delle emissioni previste dalla bozza di Capodanno non piacciono, vorrebbero quanto meno allentarle se non proprio un “liberi tutti”. E l’Italia?

La posizione italiana.

Il nostro governo non si è ancora espresso apertamente. Il sistema energetico nazionale ha bandito da decenni il nucleare ed è basato sul gas, il che spinge a pensare che il governo possa assumere una posizione molto vicina a quella tedesca che permetterebbe di non mettersi contro la Francia e nello stesso tempo - come ha spesso ricordato il ministro della Transizione ecologica, Cingolani - lascia aperta la porta per la ricerca sui reattori di IV generazione.

Le prossime settimane saranno segnate ancora da incontri, colloqui e trattative, alla ricerca dell’inevitabile «compromesso politico» richiamato da Dombrovskis dopo l’incontro con Le Maire.

https://24plus.ilsole24ore.com/art/gas-e-nucleare-le-fonti-green-perche-ue-ha-rinviato-decisione-AEjWrB7

lunedì 2 dicembre 2019

Fumata nera su Mes. Tensione Pd-M5S, "decidano Camere".- Michele Esposito

Giornalisti attendono fuori palazzo Chigi il vertice di Governo © ANSA                 Giornalisti attendono fuori palazzo Chigi il vertice di Governo

Franceschini, nessun rinvio. Ma Di Maio, no luce verde Gualtieri.

Quattro ore lunghe e tese che portano non ad un accordo ma a quella che è una fumata grigia sul fondo Salva-Stati. Il vertice di Palazzo Chigi convocato dal premier Giuseppe Conte ad una manciata d'ore dal nuovo redde rationem tra il premier e Matteo Salvini in Parlamento non chiude la partita del Mes in maggioranza. Le posizioni di M5S e Pd "sono diverse", ammette lo stesso Luigi Di Maio. E Conte opta per affidare la decisione definitiva sull'ok alla riforma al Parlamento. La data da segnare con il rosso è l'11 dicembre quando, dopo le comunicazioni del premier in vista del Consiglio Ue, la maggioranza sarà chiamata a varare una risoluzione comune. Ed è lì che il governo rischia il baratro. A Palazzo Chigi ci sono il ministro dell'Economia Roberto Gualtieri, i capi delegazione di Pd, M5S e Leu, Dario Franceschini, Luigi Di Maio e Roberto Speranza, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Riccardo Fraccaro e il ministro per gli Affari Ue Enzo Amendola. Presente anche il titolare del Mise, Stefano Patuanelli, visto che nella riunione si parla anche della norma per il prestito ponte a Alitalia. A chiamarsi fuori è Italia Viva.
"Non abbiamo nulla su cui litigare, se la vedessero tra loro. Gli italiani sono stanchi di questi vertici, vogliono risposte", spiega Matteo Renzi. E una risposta definitiva, sul Mes, ancora non c'è. "In vista dell'Eurogruppo del 4 dicembre 2019 il Governo affronterà il negoziato riguardante l'Unione Economica e Monetaria (completamento della riforma del Mes, strumento di bilancio per la competitività e la convergenza e definizione della roadmap sull'unione bancaria) seguendo una logica di "pacchetto", spiegano fonti di Palazzo Chigi specificando che, sulla riforma del Mes, "ogni decisione diventerà definitiva solo dopo che il Parlamento si sarà pronunciato". Ovvero, dopo le risoluzioni che seguiranno alle comunicazioni di Conte in Aula dell'11 dicembre, proprio in vista del Consiglio Ue. Palazzo Chigi, in realtà, non parla di rinvio. E, dopo la riunione, è questo il punto che tiene a sottolineare Franceschini. "Bene l'incontro di stasera sul Mes. Nessuna richiesta di rinvio all'Ue ma un mandato che rafforza il ministro Gualtieri a trattare al meglio l'accordo", spiega il ministro della Cultura specificando, anche lui, come "ovviamente" sarà il Parlamento a pronunciarsi in modo definitivo. A tarda notte, da Palazzo Chigi, escono, uno dopo l'altro, Di Maio e Franceschini. Tirando ognuno acqua al proprio mulino.
"Nessuna luce verde è stata data a Gualtieri finché il Parlamento non si esprimerà", scandisce il titolare della Farnesina anticipando che l'11 dicembre il M5S presenterà una risoluzione in cui si chiederà a Conte di chiedere il miglioramento, al Consiglio Ue di dicembre, dell'intero pacchetto di riforme dell'Unione Economica e Monetaria. Pacchetto in cui, avverte Di Maio, "c'è tanto da cambiare". Dieci giorni, quindi, per trovare una quadra. Dando mandato a Gualtieri di anticipare all'Eurogruppo la trincea italiana. Dieci giorni, per il leader M5S, per trovare una quadra all'interno dei gruppi sul sì ad una riforma sulla quale, in tanti pentastellati, sono disposti a tutto. Con un rischio: che la risoluzione sul Mes diventi un doppione di quella che, sulla Tav, anticipò la fine del governo. "Mi auguro che su questa impostazione emergano le differenze macroscopiche che ci sono tra il M5S e il Pd e quindi si finisca con questo Governo", sottolinea Gianluigi Paragone. In tanti, nel Movimento, gli rispondono via facebook. A testimonianza che, dietro il Mes, la partita che si gioca tra i pentastellati è un'altra: se andare avanti con il governo giallo-rosso

giovedì 24 ottobre 2019

Sanno quello che fanno - Marco Travaglio - IFQ - 24 OTTOBRE 2019


Siccome non c’è limite al peggio, la Corte costituzionale ha seguito quelle europee e ha deciso che in Italia l’unico ergastolo possibile è quello finto. In tutto il mondo, da che mondo è mondo, l’ergastolo significa “fine pena mai”. Da noi invece “fine pena forse”. Tant’è che nel 1992, dopo Capaci e di via D’Amelio, si dovette escogitare la ridicolaggine dell’“ergastolo ostativo” per affermare un principio che dovrebbe essere ovvio: l’ergastolo è incompatibile con permessi, sconti di pena e altre scappatoie, per tener dentro a vita almeno qualcuno, cioè i criminali più pericolosi, irriducibili e irredimibili (mafiosi e terroristi). L’8 ottobre i giudici di Strasburgo avevano bocciato questa norma di puro buonsenso e tutti avevano spiegato che, essendo provenienti perlopiù da Paesi immuni dalla mafia, non sanno che un mafioso è per sempre, salvo che parli o muoia. E ritenere l’ergastolo vero come una negazione del principio di rieducazione della pena è una doppia fesseria: intanto perché uno può rieducarsi restando in carcere (ci sono svariati casi di ergastolani che lavorano, studiano, si laureano senza mettere piede fuori); e soprattutto perché per redimersi davvero il mafioso deve innanzitutto recidere i legami col suo clan, e può farlo solo se collabora.
Ma questi elementari principi sembrano sfuggire anche ai giudici costituzionali italiani, che un’idea della cultura e della prassi mafiosa dovrebbero averla. Quindi sanno quello che fanno. Perciò la loro sentenza è ancor peggio di quella europea: perché non può essere giustificata neppure con l’ignoranza. Affidare alla discrezionalità dei giudici la decisione pro o contro un permesso premio a un mafioso irriducibile li espone a lusinghe, minacce e vendette mafiose: se oggi nessun ergastolano “ostativo” ottiene permessi premio è perché la legge li vieta; domani gli ergastolani “ostativi” (tipo i fratelli Graviano, condannati per tutte le stragi del 1992-’94) chiederanno permessi e, se non li otterranno, sarà “colpa” del giudice che li ha negati pur potendoli concedere. Dunque proveranno a comprarlo e a intimidirlo e, in caso di diniego, a punirlo. L’accesso ai permessi premio è la prima breccia nel muro finora impenetrabile del decreto Scotti-Martelli (41-bis, ergastolo vero e benefici ai pentiti) battezzato 27 anni fa col sangue di Falcone, di Borsellino e delle altre vittime delle stragi. Un muro che i boss provano da allora a scalfire con le buone (la trattativa) e con le cattive (le bombe, le minacce e i ricatti). Dopo Capaci e via D’Amelio, il Ros domandò a Riina, tramite Ciancimino, cosa volesse per una tregua.
E il boss rispose con un papello di richieste: via l’ergastolo, il 41-bis, i pentiti, le supercarceri di Pianosa e Asinara. Nel ’93 il 41-bis fu ammorbidito, con la cacciata del capo del Dap Niccolò Amato e la revoca del carcere duro a 334 mafiosi. Nel ’94 B. tentò col decreto Biondi di abolire l’arresto obbligatorio per i reati di mafia, poi la norma fu bloccata da Bossi e Fini (perché liberava anche i mazzettari di Tangentopoli); ma nel ’95 fu approvata da destra e sinistra insieme. Nel ’97 il centrosinistra chiuse Pianosa e Asinara, nel ’99 abolì l’ergastolo per due anni, poi nel 2001 ci ripensò, ma in compenso introdusse i benefici e aumentò i limiti ai pentiti. Poi tornò B. e i suoi uomini al Dap aprirono alla “dissociazione” dei boss irriducibili (benefici senza confessare nulla né denunciare nessuno), ma furono bloccati. Il 12 luglio 2002 Leoluca Bagarella, cognato di Riina, prese la parola in un processo, collegato dal carcere dell’Aquila, e lesse un comunicato a nome degli altri detenuti in sciopero della fame contro i politici che non mantenevano “le promesse” sul 41-bis: “Siamo stanchi di essere strumentalizzati, umiliati, vessati e usati come merce di scambio dalle varie forze politiche”. Con chi ce l’aveva? Lo svelò il Sisde: Cosa Nostra minacciava di tornare a sparare, stavolta senza “fare eroi”: “L’obiettivo potrebbe essere una personalità della politica percepita come compromessa con la mafia e quindi non difendibile a livello di opinione pubblica”. Chi? Il Sisde mise subito sotto scorta Dell’Utri e Previti.
Il 19 dicembre 2003 il governo B. riformò il 41-bis, rendendone più facili le revoche. Ma i mafiosi lo volevano proprio abolito. Il 22 dicembre allo stadio di Palermo, durante la partita fra la squadra di casa e l’Ascoli (il club della città dov’era detenuto Riina), comparve un mega-striscione: “Uniti contro il 41-bis. Berlusconi dimentica la Sicilia”. La risposta arrivò nel 2006, in campagna elettorale, quando B. esaltò Mangano come “eroe”. Ma evidentemente le promesse erano ben altre. Ancora nel 2016-2017 Giuseppe Graviano si sfogava col compagno d’ora d’aria Umberto Adinolfi: nel 1992 “Berlusca” gli aveva chiesto “una cortesia” (le stragi?) perché aveva “urgenza di scendere” in campo e “lui mi ha detto: ci vorrebbe una bella cosa”. E accusava B. di ingratitudine: “Pigliò le distanze e ha fatto il traditore… 25 anni fa mi sono seduto con te, giusto è?… Traditore… pezzo di crasto… ma vagli a dire com’è che sei al governo… Ti ho portato benessere. Poi… mi arrestano, tu cominci a pugnalarmi… Dice: non lo faccio uscire più e sa che io non parlo perché sa il mio carattere e sa le mie capacità… Mi sono fatto 24 anni, ho la famiglia distrutta… Alle buttane glieli dà i soldi ogni mese. Io ti ho aspettato fino adesso… e tu mi stai facendo morire in galera…”. Graviano affidava poi ad Adinolfi – in procinto di uscire – un messaggio ricattatorio per un misterioso intermediario col mondo berlusconiano a Milano2. E discuteva col compare dell’opportunità o meno di dire ai magistrati tutto ciò che sa. Ma sbagliava destinatario. Bastava aspettare le due Corti. Quod non fecerunt berluscones, fecerunt ermellini.