“Non si tratta, com’è ovvio, di superare la democrazia rappresentativa, ma precisamente di farla evolvere verso una ‘democrazia deliberativa’, in cui la cittadinanza occupi un ruolo più attivo e partecipativo non solo nei processi di promozione del consenso, ma anche in quelli di costruzione della decisione”
(da Política e Democracia na era digital di João de Almeida Santos – Parsifal, 2020 – pag. 150)
Trecentomila euro al giorno. Cento milioni all’anno. Mezzo miliardo in una legislatura. E, anche se fosse solo la metà, scusate se è poco. Ma, quale che sia la cifra esatta, non è questo in realtà il “focus” del referendum costituzionale in programma domani e dopodomani.
Mettiamo pure da parte, per un momento, la querelle sull’entità dei risparmi che la riduzione del numero dei parlamentari comporta. Concentriamoci piuttosto sullo snellimento e sulla maggiore rapidità dei lavori parlamentari che una vittoria del Sì può verosimilmente innescare. Come? Con un effetto di accelerazione favorito dalle tecnologie digitali e dai nuovi strumenti di comunicazione, da Internet ai social network.
Attraverso la Rete, il deputato o il senatore può innanzitutto gestire meglio e più direttamente i rapporti con i suoi elettori via email o WhatsApp. È vero che – la Costituzione – non ha un “vincolo di mandato”, ma il parlamentare deve pur sempre interloquire e confrontarsi con la sua constituency per rappresentarne le legittime aspettative, senza piegarsi a logiche clientelari nell’ottica dell’interesse nazionale. La tecnologia gli consente di ridurre eventualmente i comizi, gli incontri o le visite alle sezioni di partito superstiti, e quindi i trasferimenti logistici, per aumentare piuttosto il numero e l’intensità dei suoi contatti.
Al tempo della democrazia digitale, il deputato o il senatore ha gli strumenti per partecipare di più ai lavori e alle votazioni; per accedere agli archivi o ai documenti e provvedere più agevolmente all’elaborazione e alla stesura delle proposte di legge; per attendere meglio alla comunicazione con i componenti del proprio gruppo o con i propri collaboratori, oltre che con la propria base elettorale. E così si riuscirà forse a contenere la proliferazione delle sedi e degli uffici disseminati intorno a Montecitorio e a Palazzo Madama. Lo smart working e il voto online possono valere anche per i peones, gli assenteisti e i trasformisti.
Per tutte queste ragioni è opportuno che il numero dei parlamentari, in un equilibrato rapporto con la popolazione, diminuisca fisiologicamente com’è accaduto per tante altre categorie: dai dipendenti pubblici agli impiegati o funzionari di banca, compresi i giornalisti e i poligrafici. In qualsiasi campo o settore, oggi meno persone svolgono più compiti, mansioni e funzioni di quelle che svolgevano i loro colleghi sessant’anni fa: cioè quando una legge costituzionale stabilì nel 1963 che i deputati dovevano essere 630 e i senatori 315, per un totale di 945, con tutti i loro privilegi, indennità e immunità. Adesso anche loro sono in condizione di lavorare meglio e produrre di più.
Non è un paradosso, perciò, sostenere che nell’era digitale il taglio dei parlamentari – anziché ridurre la democrazia rappresentativa, come sostengono i fautori del No – possa favorire piuttosto l’avvento di quella “democrazia deliberativa” auspicata dal sociologo e filosofo tedesco Jürgen Habermas, insieme a tanti altri studiosi internazionali. Sì, quindi, a una democrazia più partecipata, circolare ed efficiente. Insomma, più adeguata ai tempi in cui viviamo.
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