domenica 1 maggio 2011

Donne e maltrattamenti: non sono fatti vostri. - di Lidia Ravera.


Un deputato, prima di accanirsi contro la Costituzione, si è sfogato con la moglie e l’ha spedita all’ospedale. Un capo di governo ha pagato le prestazioni sessuali di una minorenne e l’ha sottratta alla tutela cui aveva diritto. Un direttore di telegiornale, forse, ha procacciato quarti di carne fresca femminile per una clientela di anziani sessualmente incontinenti. Qualcuno ha qualcosa da dire? No, no, per carità… Se hai qualcosa da dire sei bigotto, bacchettone & liberticida.

La frase degli spiriti illuminati, che tutto comprendono e digeriscono, è questa: “Un uomo in casa sua (o in casa del suo indiretto superiore) può fare quello che vuole”. Variazione spericolata:“Basta che faccia bene il suo lavoro”, che magari è governare. E mettiamo pure che sia bravissimo a governare (sarebbe già un sollievo), siamo sicuri che possa fare quello che gli pare a casa sua? Che cos’è una casa? Uno spazio extraterritoriale, una zona franca, un paradiso morale in cui ogni regola è sospesa, ogni obbligo decade e nessuno paga per quello che fa (o non fa)? Una volta ci regnavano ledonne, sul focolare (almeno lì, almeno a parole). Adesso la donna, nel chiuso delle sue stanze, torna a essere umile ancella. Dietro quella metafisica porta chiusa, quella che separa il privato dal pubblico, l’uomo è padrone. Può coprirti di ridicolo o di schiaffi, ma se tutto avviene lì, in tinello o nella tavernetta, magari nel corso dell’orgiastico riposino del guerriero, nessuno lo “può giudicare nemmeno tu”, come cantava Caterina Caselli, in un’altra era geologica.

È una conquista recente del nostro Paese, questa sanatoria del peggio, estesa a chiunque abbia abbastanza potere per scansare almeno un paio di comandamenti. Dio, evidentemente, è dalla loro parte. Noi laici, costretti a comportarci bene per mancanza di protezioni altolocate, continuiamo a fare i conti con la nostra coscienza. Come ai tempi in cui si gridava contro chi era “a sinistra in piazza, a destra nel letto”. E giù feroci lezioni di perfezione relazionale! Avessimo quattro soldi da parte varrebbe la pena di lanciare un’Opa sulla Famiglia per conquistare il primo fra i suoi “valori”: l’impunità domestica.

Il Fatto Quotidiano, 1 maggio 2011




Angelucci, guai grossi in famiglia. - di Lirio Abbate



La donna, 48 anni, lavorava come fisioterapista in una delle strutture della Tosinvest. Adesso la vicenda finirà con una richiesta di autorizzazione a procedere.

«Mi ha licenziata, minacciata e fatta pedinare. E non paga gli alimenti a nostro figlio». Così il re delle cliniche romane, editore di Libero e parlamentare berlusconiano, è finito sotto inchiesta dopo la denuncia della sua ex compagna.

Il Parlamento potrebbe essere presto chiamato a esprimersi su una vicenda personale e familiare che riguarda un deputato del Pdl, Antonio Angelucci, 67 anni, editore di "Libero" e re della sanità privata italiana. Fatti che hanno rilevanza penale e per la quale la procura di Roma potrebbe chiedere l'autorizzazione a procedere a conclusione dell'indagine che punta sul politico-imprenditore. In questa storia non è coinvolta nessuna nipote di presidenti o dittatori mediorientali, ma l'ex compagna di Angelucci, la donna che pochi anni fa ha dato al "re" della sanità il suo quarto figlio. Lei si chiama Annalisa Chico, 48 anni, e fino a pochi mesi fa lavorava come fisioterapista in una delle cliniche che fanno capo alla Tosinvest, la cassaforte della famiglia Angelucci. La donna è stata licenziata. E non solo: il suo ex compagno l'ha pure cacciata di casa. E in mezzo alla strada sono finiti lei e il figlio.

Ma la storia inizia molto prima rispetto a quando la società degli Angelucci ha dato il benservito alla fisioterapista. Tutto parte da quando Annalisa Chico ha denunciato il deputato. Agli investigatori ha raccontato di essere stata minacciata dal suo compagno, di aver subito aggressioni che le hanno procurato lesioni. Storie personali e familiari - finite in un'inchiesta coordinata dal procuratore aggiunto di Roma, Maria Monteleone - in cui la fisioterapista racconta delle minacce ricevute e del fatto che Angelucci l'avrebbe fatta controllare e pedinare da uomini che si sarebbero "qualificati" come appartenenti alle forze dell'ordine, assoldati per uno scopo privato. Un dato preoccupante, se fosse vero, che ha contribuito a creare maggiori timori alla donna. Ma la paura non l'ha fatta tacere e dopo essersi rivolta a un avvocato, ha presentato una dettagliata denuncia contro il padre del suo bambino, accusandolo pure di violazione degli obblighi di assistenza familiare. In poche parole Annalisa Chico sostiene che il magnate delle cliniche private non l'avrebbe solo cacciata di casa insieme al figlio. Il parlamentare le avrebbe tolto pure tutto quello che le aveva dato, licenziandola e azzerando i versamenti di denaro, compresi quelli destinati al piccolo. L'azione giudiziaria ha mandato su tutte le furie l'imprenditore che ha già altri problemi con la giustizia. La fisioterapista avrebbe notato in più occasioni di essere stata seguita, controllata, in qualche circostanza bloccata da uomini che le avrebbero mostrato un tesserino delle forze dell'ordine e l'avrebbero "consigliata" di desistere dal portare avanti le denunce. Consiglio non raccolto e per questo motivo ha segnalato agli investigatori una serie di condotte persecutorie che si sono aggiunte ai fatti che aveva già denunciato.

Una storia che riserverà altri colpi di scena. L'inchiesta è ancora aperta. I magistrati vogliono accertare, fra i tanti episodi da riscontrare, se a monte delle condotte persecutorie c'è Angelucci. Si sa però che Annalisa Chico conoscerebbe molti retroscena degli affari del suo ex compagno. In particolare sulla sanità nel Lazio. In diverse intercettazioni depositate due anni fa dai magistrati di Velletri nell'inchiesta sulle cliniche private in cui venivano chiesti gli arresti domiciliari per il parlamentare - negati dal voto della Camera - emergono le conversazioni fra l'imprenditore e Annalisa Chico. Conversazioni del 2007 in cui il politico-editore parla di incontri con l'allora ministro della Salute Livia Turco. E ancora di quando era fiero di sé, perché sosteneva di aver ottenuto il cambio di un assessore regionale alla Sanità perché "mi aveva fatto la guerra per due anni". In quella inchiesta il gip metteva in evidenza come Antonio Angelucci era "capo indiscusso della Tosinvest", che di fatto è gestita dai tre figli del parlamentare avuti con la prima moglie, deceduta a metà degli anni Novanta.

Oggi le sorprese giudiziarie che Chico può riservare al suo ex compagno sono tante.





Toni Negri strizza l'occhio a B. - di Marco Travaglio



L'ideologo dell'Autonomia considera 'persecuzioni giudiziarie' sia le inchieste sul terrorismo negli anni Settanta sia le indagini che vedono coinvolto il premier.

Gli psichiatri la chiamano "proiezione": il paziente attribuisce agli altri quel che sta facendo e pensando lui. Silvio Berlusconi ne è un caso di scuola. Soprattutto quando accusa i magistrati (non tutti, si capisce: solo quelli che indagano su di lui e sui suoi amici) di "brigatismo giudiziario". e quando telefona la sua affettuosa solidarietà al candidato milanese Roberto Lassini, strapazzato dal presidente Napolitano e dal sindaco Moratti per i manifesti "via le Br dalla procura", scaricato per forza e scandidato per finta dal pdl lombardo. In realtà furono proprio i terroristi i primi a non riconoscere la "giustizia borghese" dei tribunali della repubblica e a difendersi non nei processi, ma dai processi.

Lui si limita a copiarli, anche se lo fa non da un covo clandestino, ma dalla presidenza del Consiglio, e non con volantini ciclostilati, ma con comunicati ufficiali targati Palazzo Chigi e in comizi assortiti. Della prodigiosa analogia si era accorta per tempo una delle teste più fini dell'eversione rossa: Toni Negri, già leader dell'Autonomia a Padova, poi latitante in Francia, poi condannato per partecipazione a banda armata, poi finalmente rientrato in Italia e arrestato.

Il 3 maggio 2003, mentre il premier faceva il diavolo a quattro per sfuggire al processo Sme con leggi Cirami e lodi Schifani, Negri rilasciò illuminanti dichiarazioni a "L'Infedele" di Gad Lerner, riprese due giorni dopo da Alessandro Trocino sul "Corriere della sera". Anzitutto elogiò la buonanima di San Bettino perché «ero a Parigi e Craxi, allora presidente del Consiglio, mi fece sapere che i servizi stavano architettando qualcosa su di me, consigliandomi di essere cauto. Per questo ancora gli sono grato» (quel "qualcosa" che i servizi architettavano era il tentativo di assicurarlo alla giustizia italiana, a cui era sfuggito grazie all'elezione in Parlamento gentilmente offerta da Pannella).


Poi l'ex leader di Autonomia operaia tributò tutta la sua amorevole solidarietà al Cavaliere perseguitato dai giudici in processi per corruzione giudiziaria: «Pur essendo Berlusconi un mio avversario politico, io sono solidale con lui e con chiunque venga condannato ad anni di carcere da una magistratura come quella italiana che si è di volta in volta alleata con la destra e con la sinistra. Le operazioni giudiziarie, condotte contro di me e contro l'Autonomia negli anni Settanta con la complicità della sinistra, sono state una premessa alle successive cospirazioni giudiziarie contro i socialisti ieri e contro i berlusconiani oggi». Solidarietà non solo a Berlusconi, ma anche al compagno Cesare Previti, «perché io non auguro la galera a nessuno».

Sempre sul "Corriere", lo scrittore Claudio Magris commentò quelle tutt'altro che stupefacenti convergenze e invitò il premier a respingere al mittente quell'imbarazzante solidarietà: «Secondo Negri, leader di Autonomia operaia e condannato per partecipazione a banda armata, vi sarebbe una voluta e pianificata continuità tra le persecuzioni inflitte dalla magistratura italiana ai terroristi negli anni di piombo e le persecuzioni inflitte ora da essa a Berlusconi, al quale Negri ha espresso pubblicamente solidarietà e che evidentemente egli considera "vittima della giustizia borghese" come i condannati per la lotta armata, lotta che ha visto cadere assassinati tanti galantuomini. E' strano che un capo di governo non si senta offeso da tale accostamento e non senta il bisogno di respingerlo».

Ma, perfetto allievo del cattivo maestro, Berlusconi non raccolse l'invito di Magris.

Del resto, nemmeno nell'estate del 2009 provò alcun imbarazzo quando Negri tornò a solidarizzare con lui per lo scandalo D'Addario, la escort pugliese che dopo due notti a Palazzo Grazioli si era ritrovata candidata alle elezioni comunali di Bari in una lista fiancheggiatrice del Pdl sponsorizzata dal ministro Fitto. «Mi spiace per Berlusconi. Le persone che si dichiarano perseguitate mi sono simpatiche», disse Negri al "Riformista" il 27 luglio 2009. E anche quella volta il premier, tutt'altro che imbarazzato, incassò (poi, qualche mese dopo, finse di indignarsi perché il governo del Brasile non ci riconsegnava il pluriomicida latitante Cesare Battisti). Dio li fa poi li accoppia.



Quante divisioni ha Grillo?



A Bologna la sua lista è data al 10 per cento. A Milano i suoi voti possono essere decisivi tra Pisapia e Moratti. A Torino sono già sopra l'Udc. E il Pd si divide tra chi non vuole averci a che fare e chi vorrebbe ascoltare le ragioni del suo movimento.

Un anno fa, alle elezioni regionali del 2010, il loro exploit colse di sorpresa tutti i sondaggisti e in qualche caso fu decisivo: in Piemonte, per esempio, costò la poltrona di presidente della Regione all'uscente Mercedes Bresso del Pd. Ora tutti i ricercatori si sono fatti prudenti: sulle liste del Movimento a Cinque Stelle, benedette da Beppe Grillo, circolano rilevazioni molto positive, alcune addirittura clamorose. Il candidato sindaco di Milano, il giovane Mattia Calise, appena 20 anni, riccioli neri e una certa sfrontatezza di esposizione, si presenta come un semplice studente di Scienze politiche, ma nelle (rare) apparizioni televisive ha sfoderato la faccia tosta del veterano.

All'"Infedele" di Gad Lerner ha fatto infuriare il senatore berlusconiano Giampiero Cantoni con i dati del World Economic Forum sull'inefficienza del governo e si è rifiutato di rivelare per chi voterebbe al ballottaggio, sgusciando come un andreottiano dei bei tempi. Funziona, però: i sondaggi lo collocano tra il 4 e 5 per cento, sarebbe determinante nel caso di un secondo turno Moratti-Pisapia, così come il Nuovo Polo di Manfredi Palmeri, che è all'attenzione di tutta la politica nazionale. E non sarebbe neppure una novità: alle regionali di un anno fa a Milano città l'ignoto candidato dei grillini Claudio Crimi prese più voti di un combattente di mille battaglie come Savino Pezzotta, ex segretario della Cisl e deputato dell'Udc: 3,4 contro 3,1. Più o meno come a Torino, dove i grillini presero un punto in più dei centristi di Casini, che anche in quel caso si credevano decisivi e furono irrilevanti.

Percentuali positive ma ancora lontane da quelle toccate nella vera roccaforte del grillismo, l'ex capitale rossa Bologna. Un anno fa Giovanni Favia arrivò in città a 18 mila voti, il 9 per cento, terza lista dopo Pd e Pdl, più della Lega e di Idv, Sinistra e libertà, Rifondazione ecc. Ora i Cinque Stelle ci riprovano con il fotografo Massimo Bugani, caricato a molla dal comico-leader: "Con te non c'è speranza per gli avversari".

Qualche sondaggio lo dà addirittura intorno al 10 per cento: se fosse così si avvicinerebbe il ballottaggio per il candidato del Pd Virginio Merola, contro lo sfidante della Lega. E a quel punto, altro che aperture al centro, per il Pd la sfida diventerebbe acchiappare i voti di Grillo. Difficile. Perché un movimento che si definisce anti-casta non controlla pacchetti di voti, non è in grado di trasferire il consenso su altri. Con candidati giovani, che sventolano programmi carichi di richiami all'innovazione, alla difesa ambientale, al risparmio energetico, più simili ai Verdi tedeschi che alla logora sinistra radicale italiana. Se corteggiarli è inutile, sarebbe più vantaggioso provare a capire cosa vogliono gli elettori grillini, l'ha proposto nel Pd il consigliere regionale Giuseppe Civati. Per ora abbastanza isolato.



La Chiesa approvò Guantanamo. - di Gianluca Di Feo e Stefania Maurizi



I cablo di WikiLeaks rivelano che, ai tempi di Wojtyla, in Vaticano si discusse dei trattamenti disumani inflitti nel campo di prigionia illegale: e alla fine fu deciso di appoggiare comunque la mano dura degli Usa.

Guantanamo? La Santa Sede sta con gli americani. Lo assicura monsignor Mariano Montemayor nel gennaio 2002, pochi mesi dopo l'inizio della guerra al terrorismo. L'alto prelato in quei giorni era responsabile vaticano per Pakistan ed Afghanistan mentre oggi è stato promosso nunzio in Senegal. E sembra fare di tutto per aiutare gli Stati Uniti: li informa delle manovre russe e del dibattito interno a San Pietro, con uno zelo che sorprende anche gli interlocutori statunitensi. Perché? "Figlio di un alto ufficiale della Marina argentina, Montemayor ha detto che in passato lui e la sua famiglia hanno vissuto sotto scorta della polizia per le minacce. Il suo background argentino appare essenziale nel feroce giudizio sul terrorismo di al Qaeda".

E' uno dei documenti più impressionanti dell'ultima ondata di cablo diffusi da WikiLeaks, che "l'Espresso" pubblica in esclusiva, sul campo di concentramento costruito per custodire e interrogare i presunti combattenti fondamentalisti. In questo cablo inedito, l'ambasciatore Jim Nicholson, l'ex colonnello dei berretti verdi mandato da Bush in Vaticano, riporta i commenti del monsignore, descritto come una sorta di nostalgico della dittatura di Buenos Aires: "Come argentino, Montemayor si trova in acque familiari, legalmente ed eticamente, nello sviluppo del suo approccio a Guantanamo. E si è chiesto se i tribunali militari argentini del passato potranno presto trovare i loro equivalenti americani".

Erano le settimane in cui talebani e terroristi venivano catturati a centinaia in Afghanistan. E il mondo si interrogava sul loro destino. "La questione del trattamento dei prigionieri potrebbe diventare importante all'interno del Vaticano, dove un dibattito interno teso si è chiuso con un solido sostegno - con qualche riserva - alla campagna guidata dagli Stati Uniti.

Montemayor ha ripetuto i commenti iniziali secondo i quali alcune voci vaticane, temendo un disastro umanitario per i raid in Afghanistan, hanno spinto per una posizione della Santa Sede meno disponibile verso gli Usa. Ma ha notato con soddisfazione che, contrariamente alle previsioni dei soliti pessimisti, l'intervento statunitense ha chiaramente migliorato le condizioni umanitarie in Afghanistan".

Il prelato inoltre mette in allerta gli americani sui progetti segreti di Mosca per sfruttare la vicenda di Guantanamo: "Montemayor ci ha parlato più volte di conversazioni con un diplomatico russo ritenuto un elemento dell'intelligence, Dmitry Shtodin. Ha spiegato che la Federazione russa sta studiando con attenzione il trattamento inflitto dagli Stati Uniti ai detenuti in cerca di un precedente che giustifichi il modo in cui trattano i prigionieri ceceni". Dmitry Shtodin è ancora primo consigliere dell'ambasciata russa a Roma, spesso impegnato in iniziative benefiche come il restauro di chiese e monumenti danneggiati dal terremoto in Abruzzo.








Monica Rizzi, la saga dell’assessore leghista continua: dalla maga ai dossier. - di Gianni Barbacetto.



Nuovo capitolo della saga di Monica Rizzi, la leghista della Valcamonica già levatrice elettorale di Renzo Bossi poi diventata assessore regionale lombardo allo Sport, e della sua maga di fiducia,Adriana Sossi. Capitolo perfino più inquietante delle puntate precedenti, raccontate sulle pagine di questo giornale già dall’aprile dell’anno scorso: ora compaiono sulla scena accuse di dossieraggio ai danni degli avversari politici interni alla Lega.

Protagonista, un sottufficiale della Guardia di finanza in forza al Comando provinciale di Brescia, il maresciallo Francesco Cerniglia, in contatto con l’assessora e la sua maga. Avrebbe creato dossier illegali su esponenti del Carroccio considerati “traditori” della Lega o comunque concorrenti o avversari personali di Monica Rizzi. Tra le vittime del dossieraggio ci sarebbero l’ex consigliere regionale Ennio Moretti, il vicesindaco di Salò, un dirigente dalla Asl di Mantova e due giornalisti, Marco Marsili, ex addetto stampa di Monica Rizzi, e Leonardo Piccini, collaboratore del “Fatto Quotidiano”. Sono gli ultimi due a sostenere che il maresciallo avrebbe redatto dossier illegali, anche attingendo informazioni da banche dati delle forze di polizia.

Accuse gravi. Sarà ora la Procura di Brescia, a cui i due giornalisti si sono rivolti, a verificare se le loro denunce sono fondate. Una prima conferma la dà Giulio Arrighini, ex parlamentare del Carroccio poi uscito dal partito e oggi segretario nazionale della Lega Padana. Racconta di aver ricevuto la visita di un misterioso personaggio che non si è presentato, ma gli ha fatto vedere un faldone pieno di cartelline con notizie sulla vita privata di esponenti della Lega. Arrighini ha annusato odor di vendette interne al partito e ha detto di non essere interessato alla merce. Non ha alcuna certezza, naturalmente, che si trattasse di Cerniglia o di materiale riconducibile a lui. Secondo i due giornalisti che hanno presentato la denuncia, però, il maresciallo collabora, nel tempo libero, con la Cagliostro

Investigazioni, un’agenzia privata di Brescia che fa capo proprio ad Adriana Sossi, la maga di Monica Rizzi nonché autrice dell’imperdibile libro “La mia vita con gli spiriti”: Adriana è in contatto, beata lei, con “un extraterrestre della galassia di Oron”, ma è anche beneficiaria di una collaborazione remunerata (4 mila euro) con la Regione di Roberto Formigoni. Ottenuta naturalmente grazie a Monica Rizzi, che già da mesi deve affrontare cattiva stampa a causa di alcune sue mosse false. La prima è l’esibizione di un titolo di “psicologa e psicoterapeuta infantile”, specializzata nel “recupero dei minori abusati”, senza ahimè essere iscritta all’Albo degli psicologi, né avere uno straccio di laurea. La seconda è una letteraccia, rivelata dal “Fatto Quotidiano” il 10 marzo, inviata all’assessore al lavoro della Provincia di Brescia per protestare contro una funzionaria dell’ispettorato provinciale del lavoro colpevole di aver fatto i controlli di legge in aziende in cui è coinvolto il suo fidanzato, l’imprenditore Alessandro Uggeri. Ora arriva la storia dei dossieraggi. L’assessora della Valcamonica nega tutto: “Smentisco in maniera categorica le illazioni, totalmente prive di fondamento, circa fantasiosi dossier”. E promette querele.

Da Il Fatto Quotidiano del 28 aprile 2011

Libia, ambasciata italiana in fiamme La Farnesina: “Noi andiamo avanti”.


Sotto assedio anche le sedi dell'Onu nella capitale libica. In nottata è arrivata la notizia della morte del figlio più giovane del Colonnello. I ribelli hanno festeggiato con grida di giubilo. Preoccupazione da parte del nostro ministro dell'Interno dopo la dichiarazione di guerra all'Italia da parte del Raìs.


Prima la morte (presunta) del figlio più giovane del Raìs, ora un incendio all’ambasciata italiana a Tripoli confermato poco fa dalla Farnesina. La notizia inquieta e non poco alla luce delle parole pronunciate ieri da Gheddafi: “Porteremo la guerra in Italia”. Frasi considerate preoccupanti dal ministro Maroni. ”Gli attacchi contro gli edifici della nostra ambasciata – si legge, invece, in una nota del ministero degli Esteri – non indeboliranno la determinazione dell’Italia a continuare la propria azione, insieme agli altri partner, a difesa della popolazione civile libica in ottemperanza alla risoluzione 1973 delle Nazioni Unite”. La situazione, però, preoccupa e non poco. Oltre alla nostra ambasciata, infatti, sono state attaccate le sedi dell’Onu. Da qui l’annuncio delle Nazioni Unite di ritirare tutto il proprio personale internazionale dalla capitale libica. La Gran Bretagna, intanto, ha deciso l’espulsione dell’ambasciatore di Libia, “in seguito ad attacchi contro le missioni diplomatiche a Tripoli”, fra cui “l’ambasciata britannica”. Lo ha annunciato oggi il ministro degli esteri William Hague.

La morte del figlio del Raìs sembra aver rinforzato la controffensiva lealista. L’artiglieria del Colonnello ha di nuovo sparato contro la città tunisina di Dehiba, al confine con la Libia. Nei giorni scorsi, nell’area c’erano stati scontri con i ribelli per la conquista di una postazione alla frontiera tra i due Paesi. Nel frattempo i ribelli fanno sapere che l’esercito sta tentando di avanzare su Zenten, città a sud ovest della capitale.

La situazione si complica. E non solo sullo scacchiere libico. Decisivo, a questo punto, è il voto di martedì prossimo sulle tre mozioni presentate da Pd, Idv e Lega. Tema sul quale è intervenuto proprio oggi Umberto Bossi annunciando, senza tanti giri di parole, che se il Pdl “non voterà la nostra mozione, il governo cade”. Eppure uno dei paletti del Carroccio, la data della fine del conflitto, sembra lo scoglio maggiore. “Fissare una data certa è complesso”. Questa la posizione del ministro Frattini.

Il figlio di Gheddafi ucciso e le critiche russe.

Nella notte i raid della Nato hanno ucciso Saif al-Arab Gheddafi, ultimogenito del leader libico. Nell’attacco, secondo quanto racconta un portavoce del governo di Tripoli, hanno perso la vita anche tre nipoti del colonnello. Il leader libico Muammar Gheddafi si trovava nell’edificio colpito da un raid della Nato, ma è rimasto illeso. L’attacco dell’alleanza atlantica ha sollevato dure critiche da parte del governo russo, per il quale, è stato fatto un uso sproporzionato della forze, andando così oltre la risoluzione dell’Onu. E mentre monta la polemica internazionale, sempre oggi il ministro dell’Interno Bobo Maroni è tornato sulla dichiarazione di guerra del Colonnello all’Italia. “Le parole di Gheddafi – ha detto il capo del Viminale – confermano che la situazione è da tenere sotto controllo, lo stiamo facendo e abbiamo intensificato azioni di verifica sul territorio nazionale”. In più la notizia della morte di Saif al-Arab Gheddafi “farà arrabbiare Gheddafi ancora di più”. Da quando è scoppiata la crisi libica comunque “noi abbiamo intensificato le attività di controllo per evitare che succeda qualcosa”.

La notizia della morte del figlio del Raìs è giunta nella notte. I ribelli di Bengasi hanno accolto l’uccisione dell’ultimo figlio di Gheddafi, con urla di giubilo e continue salve di mitra sparate in aria. “Sono così contenti che Gheddafi abbia perso suo figlio che stanno sparando in aria per celebrare (l’evento)”, ha dichiarato il colonnello Ahmed Omar Bani, portavoce militare del Consiglio Nazionale Transitorio di Bengasi.

Saif al-Arab Gheddafi era il sesto ed ultimo genito del leader libico. Nato nel 1982, è il figlio di Safia Farkash, la seconda moglie di Gheddafi. Saif al-Arab era anche il figlio più gaudente e meno coinvolto nella gestione dello Stato. Dal 2006 ha studiato a Monaco di Baviera alla Tecnische Universitat. Qui è rimasto coinvolto in una rissa con una guardia del corpo di un night club per difendere la fidanzata che era stata allontanata dal locale. La polizia tedesca nel 2008 gli sequestrò la potente Ferrari 430 per l’eccessivo rumore del motore che si divertiva a mandare fuori giri di notte. Lo stesso anno fu sospettato di contrabbandare armi da Monaco a Parigi in un’automobile con targa diplomatica. Il caso però fu lasciato cadere dalla procura del capoluogo bavarese.

Era Muammar Gheddafi il vero obbiettivo del raid della Nato. Lo ha detto il portavoce del governo di Tripoli, Mussa Ibrahim, in una conferenza stampa. “L’operazione mirava ad assassinare direttamente il leader di questo paese”, ha detto Ibrahim ai giornalisti. “La Guida (Gheddafi) è in buona salute, non è rimasto ferito, sua moglie è anche lei in buona salute e non è rimasta ferita ma altre persone sono state colpite”, ha detto Ibrahim. “L’attacco ha provocato il martirio del fratello Saif al-Arab e quella di tre nipotini della Guida”, ha aggiunto il portavoce. Saif, ha poi detto, aveva 29 anni. In precedenza il portavoce aveva accompagnato i giornalisti stranieri a vedere un edificio bombardato a Tripoli. Visti i danni, molti dei giornalisti hanno dato per scontato che non ci fossero sopravvissuti.

Muammar Gheddafi per la seconda volta sopravvive a un bombardamento aereo. La prima volta perse la figlia, anche se adottiva. Era il 15 aprile 1986 i caccia-bombardieri F111 Usa su ordine dell’allora presidente Ronald Reagan effettuariono un bombardamento su Tripoli ma anche quella volta il Colonnello se la cavò.