Un diario, dove annoto tutto ciò che più mi colpisce. Il mio blocco per gli appunti, il mio mondo.
domenica 11 settembre 2011
Il giudice con il conto alla Arner. - di Paolo Biondani
Il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo e sua moglie Raffaella hanno affidato più di un milione di euro a uno degli istituti più chiacchierati del mondo.
Due conti al di sopra di ogni sospetto in una banca al centro dei peggiori sospetti. Il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo e sua moglie Raffaella hanno affidato più di un milione di euro a uno degli istituti più chiacchierati del mondo: la filiale italiana della Banca Arner, pluri-inquisita da Milano a Palermo e addirittura commissariata nel 2008 da Bankitalia per violazione delle norme antiriciclaggio. Magistrato dal 1971 al 2010, Caliendo è stato uno dei leader della corrente di centrodestra (Terzo Potere, poi confluita in Unicost), che ha rappresentato anche al Csm. Nel 2008 è diventato senatore e vice-ministro di Berlusconi. Ora si scopre che nel 2005 , quando era ancora togato, ha aperto un conto alla Arner, "conferendo" una somma di tutto rispetto, per un magistrato: 570 mila euro. Negli stessi giorni anche sua moglie, Raffaella Ruggiero, avvocata civilista con lussuoso studio a Milano, la città dove il marito era magistrato penale, ha dato in gestione alla banca una somma di poco superiore: 580 mila euro.
Già allora la Arner era ampiamente citata nei processi milanesi sulla montagna di fondi neri imputati a Silvio Berlusconi: almeno un miliardo di euro nascosti in Svizzera per non pagare le tasse, secondo le sentenze definitive di prescrizione dei reati. Paolo Del Bue, uno dei fondatori della banca di Lugano, è coimputato nel dibattimento tuttora aperto contro il premier e l'avvocato Mills.
Garantisti di ferro, i coniugi Caliendo hanno riconfermato fiducia alla Arner anche nel 2008, quando il banchiere italo-svizzero Nicola Bravetti si è visto arrestare come presunto gestore di capitali mafiosi alle Bahamas: 13 milioni intestati alla consorte di un costruttore siciliano condannato dal giudice Falcone. Dopo il commissariamento, nel febbraio 2009 la Arner Italia è stata perquisita anche dai pm milanesi per sospetto riciclaggio. In quel momento al sottosegretario, dopo tre grosse uscite, restavano sul conto circa 90 mila euro, a sua moglie più di 430 mila.
Questo è quanto risulta dagli atti trasmessi dalla Procura di Milano, il 3 dicembre 2010, su richiesta dei pm romani che indagano sulla cosiddetta P3 e sul geometra-giurista Pasquale Lombardi, vecchio amico di Caliendo. Nella comunicazione gli inquirenti milanesi avvertono i colleghi di aver potuto esaminare solo "una documentazione incompleta", perché la Arner ha sostenuto di non riuscire più a trovare interi trimestri di carte bancarie di vari clienti, compresi i coniugi Caliendo.
La Arner, una finanziaria diventata banca, ha la centrale in Svizzera e filiali a Dubai e Bahamas. La controllata italiana è nata attorno a un selezionato gruppo di clienti berlusconiani: il conto numero uno l'ha aperto il premier nel luglio 2004.
Nel febbraio 2005 sono arrivate le holding che controllano la Fininvest e il socio Ennio Doris; in luglio Stefano Previti, figlio dell'ex ministro Cesare condannato per le maxi-corruzioni Mondadori e Imi-Sir; e nel febbraio 2006 l'altro condannato, Giovanni Acampora. Dal giugno 2005 anche l'allora magistrato Caliendo ha aperto un conto e delegato alla banca la gestione dei soldi. Con investimenti a rischio: la signora, stando ai "documenti incompleti" della Arner, sembra averci rimesso centomila euro.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/Il%20giudice%20con%20il%20conto%20alla%20Arner/2160175
E Silvio risparmiò 300 milioni di tasse. - di Lirio Abbate e Gianluca Di Feo
Gli atti dell'inchiesta svelano le trame, a tutti i livelli, per evitare la super-causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvare il premier dalla maxi-multa.
Il capo degli ispettori Arcibaldo Miller che si vanta dei suoi "rapporti personali" con il vertice del Pdl, Silvio Berlusconi incluso. Il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo che cerca notizie sulla causa fiscale da 300 milioni di euro che pende sulla Mondadori "perché poteva avere conseguenze gravi sulla parte privata". L'avvocato generale dello Stato Oscar Fiumara che riceve Niccolò Ghedini "con il quale ci diamo del tu" e subito si adegua alla sua linea sulla questione Mondadori.
Il primo presidente della Cassazione Vincenzo Carbone che accoglie l'istanza dell'azienda berlusconiana e così il procedimento - aperto da 15 anni - viene rinviato di un altro anno. E nel frattempo una leggina permette alla Mondadori di sanare il tutto con soli 8 milioni e mezzo di euro. O gli interventi sull'allora presidente del Tribunale dei ministri Giovanni Fargnoli, spesso al tavolo degli arrestati, per far archiviare l'istruttoria sui voli di Stato con cui il Cavaliere portava amiche e ballerine in Sardegna a spese dei contribuenti. Solo una parte delle decine di magistrati che venivano avvicinati dagli emissari della P3: ricevevano richieste di favori, piccoli o grandi, e offerte di gratificazioni, sponsorizzazioni per la carriera o incarichi ben remunerati per parenti e amici. Una rete di contatti che secondo l'accusa aveva referenti alti e alcuni ostinati peones, come il geometra irpino Pasqualino Lombardi, tanto folcloristico nello storpiare i nomi quanto caparbio nell'infilarsi nelle stanze del potere.
Gli atti della grande inchiesta romana condotta da Giancarlo Capaldo e Rodolfo Sabelli hanno radiografato questo sistema di relazioni, considerato pericoloso e illecito come una loggia segreta. E pronto ad attivarsi negli uffici giudiziari di tutta Italia per esaudire i desideri del premier: il loro imperatore per questo chiamato "Cesare".
LE TENTAZIONI DELL'ISPETTORE
Arcibaldo Miller, pm napoletano di lungo corso, ha l'incarico più delicato di tutta l'amministrazione della Giustizia: vigilare sull'opera dei magistrati. In questi giorni, ad esempio, deve pronunciarsi sull'ispezione nella procura di Bari: dalle intercettazioni del caso Tarantini-Lavitola è emerso il sospetto che l'indagine sulle escort del Cavaliere sia stata insabbiata per evitare la diffusione di documenti imbarazzanti per il premier. Nella sua testimonianza Miller dichiara di conoscere "Denis Verdini personalmente, alla pari di molti esponenti di rilievo del Pdl incluso Berlusconi". L'interrogatorio ruota intorno a una riunione del settembre 2009 a casa di Verdini dove c'erano anche il sottosegretario Caliendo, il senatore Dell'Utri, il faccendiere Flavio Carboni, l'avvocato generale della Cassazione Antonio Martone e Lombardi.
Giacomo CaliendoLì - secondo l'accusa - si sarebbe discusso di come agire sulla Consulta per evitare la bocciatura del Lodo Alfano, che garantiva l'immunità del premier: "Escludo che in mia presenza si sia parlato di interventi sui giudici della Corte costituzionale, non posso escludere che si sia parlato in termini generici del Lodo Alfano", replica Miller. Ma l'argomento chiave per lui è un altro: "Dell'Utri e Verdini mi proposero di valutare la possibilità di una mia candidatura alla presidenza della Regione Campania. Io però lasciai cadere il discorso. Parlando in particolare con Verdini feci intendere, anche se in modo non perentorio, la mia indisponibilità". Partita chiusa? No. Per mesi il capo degli ispettori resta candidato in pectore del Pdl: "Nel dicembre 2009 Cosentino mi chiamò e mi disse che Berlusconi era entusiasta della proposta, che lui stesso aveva fatto, di una mia candidatura alla presidenza della Campania. Io risposi che non ero intenzionato". Piccolo dettaglio: al momento della telefonata, contro Cosentino era già stato emesso un ordine di cattura per camorra. Nel verbale Miller ricorda poi come nel 2005 "Berlusconi mi precisò la proposta di una candidatura al Senato, preliminare a quella di sindaco di Napoli. Io però rifiutai in quanto posi la condizione, ovviamente inaccettabile, che in caso di elezione volevo per la formazione della squadra piene autonomia rispetto ai partiti. Preciso che sin da allora conoscevo bene Berlusconi...".
EDITORIA E PIZZINI
Gli atti dell'indagine romana fanno emergere aspetti discutibili anche nell'operato di Giacomo Caliendo, sottosegretario della Giustizia e senatore pdl dopo avere passato trent'anni nel palazzo di giustizia di Milano. Gli investigatori capitolini hanno individuato conti con oltre un milione di euro intestati a lui e alla moglie nella Banca Arner (leggi).
Il sottosegretario - che da un anno è sotto inchiesta - ha partecipato al pranzo in casa Verdini ma nega che in sua presenza si sia discusso del Lodo Alfano. "Quella sera stessa io chiesi telefonicamente a Lombardi di cosa altro si era parlato nella riunione e lui mi disse che si era parlato del Lodo Alfano. Aggiungo che in quarant'anni né ho mai fatto né ho mai ricevuto segnalazioni su processi". In questo viene smentito da un ex alto magistrato, Enrico Altieri, che due mesi fa si è presentato al procuratore Capaldo. Altieri era il presidente della sezione della Cassazione che si sarebbe dovuta occupare della causa sulle tasse eluse dalla Mondadori. Dichiara di essere stato colpito da un articolo firmato dal direttore del quotidiano "Milano Finanza" in cui lo si contestava per "avere prodotto una giurisprudenza troppo favorevole al fisco". E spiega di essersi chiesto il perché di quell'attacco: "In seguito a quell'articolo mi è venuto in mente di avere ricevuto un biglietto manoscritto da Caliendo. In una pausa di un convegno dell'ottobre 2009 Caliendo mi avvicinò ed effettuò un sondaggio circa le mie opinioni sulla causa pendente in Cassazione relativa alla Mondadori. Mi disse che quella causa era molto importante e che le conseguenze potevano essere assai pesanti per la parte privata. Quindi cercò di sondare il mio orientamento. Io ovviamente risposi in modo evasivo. A questo punto Caliendo mi diede un foglio su cui erano scritti la data dell'udienza, la causa e il suo numero al quale mi pregò di chiamarlo dopo che avessi terminato lo studio. Effettivamente due giorni dopo sentii Caliendo al quale dissi che la questione era complessa".
Altieri aveva fama di giudice duro ma non si è mai pronunciato sulla Mondadori: la causa è stata trasferita alle sezioni unite - la massima istanza della Cassazione - con un provvedimento voluto dal presidente Vincenzo Carbone. Il rinvio - riconosce lo stesso Carbone, ora finito sotto inchiesta - significa un altro anno di attesa. La vertenza Mondadori - nata da una verifica fiscale della Finanza del 1995 - era ferma dal maggio 2000: fino ad allora lo studio di Giulio Tremonti aveva vinto nei primi due gradi di giudizio. Il verdetto era previsto per ottobre 2009: la contestazione di 173 milioni con interessi e multe rischiava di lievitare fino a 300 milioni di euro. Ma l'avvocatura dello Stato si allinea alla richiesta di rinvio della difesa prima ancora che l'istanza venga presentata. Lo ammette Oscar Fiumara, al vertice dell'organismo che dovrebbe tutelare gli interessi dello Stato: "La persona che mi ha parlato della prossima presentazione dell'istanza è stato probabilmente l'avvocato Ghedini. Conosco bene Ghedini, con il quale ci diamo del tu; credo che sia venuto a trovarmi come ha fatto in qualche occasione. Della vicenda ne ho parlato, credo successivamente, al sottosegretario Gianni Letta".
MISSIONE 'NDRANGHETA
Quando Pasqualino Lombardi, il geometra irpino diventato giudice tributario, si presentava alla loro porta tutti i magistrati lo accoglievano: lui spendeva il nome di Gianni Letta, ma di sicuro era amico del presidente della Cassazione ed aveva ottimi rapporti con l'allora vicepresidente del Csm Nicola Mancino. Tutti sostenevano di fornirgli solo informazioni fasulle, mai nessuno lo buttava fuori. Nemmeno quando sollecitava raccomandazioni o prometteva regalie. A Nicola Cerrato, procuratore aggiunto di Milano, prospetta "un arbitrato per il figlio" ossia un ricco incarico professionale: "Io gli feci una lavata di testa dicendogli che non scivolavo su queste cose", ha messo a verbale il magistrato, sentito come teste. Lombardi gli chiede poi di incontrare Roberto Formigoni, che era indagato in un procedimento condotto proprio da Cerrato: "Disse che poteva essere utile ai fini di un mio impegno politico in Regione e potevo fare anche l'assessore, tanto che risposi "Ma che sciocchezze dici..."".
Molto più singolare la richiesta presentata per conto di Formigoni nel marzo 2010. Lombardi ha cinque nomi e vuole sapere se sono sotto inchiesta per 'ndrangheta, sostenendo che al governatore interessava valutare la loro onestà per inserirli o meno nelle liste. Cerrato dichiara: "Io risposi che non avevo nessun titolo istituzionale a dare quelle informazioni e Lombardi mi chiese se si poteva, a quello scopo, contattare la Boccassini. Io esclusi una simile eventualità. Gli dissi di rivolgersi a due giornalisti autori di un libro sulla 'ndrangheta. Fra i nomi che mi fece ricordo che vi era quello di un certo Ponzoni... Io lì per lì dissi soltanto che Ponzoni era notoriamente indagato. Poi chiesi a uno dei giornalisti notizie su quei nomi e le riferii a Lombardi in occasione di una successiva visita". La lista che preoccupava Formigoni - sequestrata dagli inquirenti romani - comprendeva "Ponzoni, Maullo, Pozzi Giorgio, Boni, Abelli". Ossia alcuni degli uomini chiave del centrodestra lombardo. Ma le intercettazioni per 'ndrangheta che li hanno coinvolti in quella data erano ancora segrete. Eppure Lombardi sapeva già.
http://espresso.repubblica.it/dettaglio/e-silvio-risparmio-300-milioni-di-tasse/2160132//2
L'arte della fuga di CONCITA DE GREGORIO
NON può ricevere i pm a palazzo Chigi, perché deve andare a Strasburgo. È stata una ricerca frenetica, venerdì sera, a Palazzo Grazioli: tutti lì a cercare fra la posta già buttata le mail cancellate gli inviti nemmeno aperti. Ci sarà pure un invito istituzionale, no? Trovatelo, guardate anche nel cestino. Eccolo presidente, ci sarebbero Barroso e Van Rompuy disponibili. Chi? Van Rompuy, il presidente del Consiglio europeo. Va bene, funziona. Prendete appuntamento con questo. Preparatemi una scheda personale. "Van Rompuy, fiammingo, cultore di poesia ed esperto di Haiku giapponesi, amante dell'ornitologia, nel tempo libero solito ritirarsi in preghiera in un'abbazia benedettina". Sarebbe bello assistere al colloquio riservato, sì. Caldamente sconsigliate battute ornitologiche. Meglio, nel caso, la zia suora.
Meglio improvvisare un haiku piuttosto che spiegare ai due magistrati napoletani perché tiene a libro paga due ceffi del calibro di Lavitola e Tarantini. Parte offesa, certo. In questo caso Silvio B. è la vittima: ricattato, si suppone. Ma la figura del ricattato in giurisprudenza, glielo avrà spiegato Ghedini, è diversa da quella del concusso. È una tipologia precisa e di confine. Un ricatto si esercita su qualcuno che sa di essere ricattabile: si chiede a chi si sa che dovrà dare, per qualche motivo noto ad entrambi. Infatti il ricattato dà: paga. In caso contrario, se non ha niente da temere, denuncia il tentativo e fa arrestare i malfattori proclamando la sue estraneità al motivo del ricatto. Questo non è avvenuto, assolutamente no. Al contrario: i due stipendiati avevano con lui un filo diretto, accesso continuo al suo numero di telefono privato del resto in possesso di moltitudini di transessuali brasiliane e giovani bisognose di aiuto di varie nazionalità. Al contrario, all'impressionante direttore dell'Avanti! già visto in azione nel reperimento di carte sul conto di Fini e assai spesso in viaggio di lavoro per conto della vittima del ricatto medesimo, ha detto proprio al telefono: "Resta dove sei". Non tornare in Italia, ti stanno per arrestare, non hai letto Panorama? Te lo dico io: resta lì, lontano da questo "Paese di merda".
Il telefono, che dannazione. Si convochi subito una riunione a Palazzo per scrivere questa maledetta legge bavaglio. Presto, Verdini. Presto Lupi, Alfano, che vi ho nominati a fare? Vogliamo smetterla di leggere sui giornali quel che dico? Sono due anni che ve lo chiedo, e allora? Perché vedete, se uno è parte lesa - vittima di un ricatto, appunto - non rischia nulla in teoria ma c'è sempre la possibilità che cada in contraddizione durante il racconto, che so?, che non sappia spiegare bene perché Marinella dava i soldi a quel tipo o perché gli ha detto di non tornare, appunto, se era vittima di un sopruso. E allora, in flagranza di reato, ti arrestano. Scoprono che menti, e non ci sono immunità che tengano. E' automatico, proprio. Meglio non rischiare. Meglio gli uccelli di Van Rompuy.
Sarebbe grottesco, tutto questo, se non fosse tragico. Tragica l'indifferenza degli italiani cullati nel sonno dagli editoriali del Tg1 per cui l'arte della fuga si declina solo in musica, altrimenti è una parola tabù. Silvio B. è un uomo in fuga, invece. L'Italia ha un presidente del consiglio che molto probabilmente un giorno sparirà. Se falliranno scudi, legittimi impedimenti, lasciapassare concordati con le opposizioni - sottovoce da tempo se ne parla - un giorno fuggirà. Il referendum di maggio è stato un segnale ignorato. C'è una parte del Paese che lo sa. Come diciamo da tempo, oltre e prima che politico il danno devastante di questo esempio di condotta è culturale. Noi qui a convincere i nostri figli che la decisione dei professori non si discute, che se in greco o in disegno ti bocciano non si fa ricorso ma si studia di più, che se ti fanno la multa perché hai parcheggiato in terza fila la devi pagare, che le regole si rispettano, che non si salta la coda con un trucco e non importa se gli altri lo fanno. Che le decisioni delle autorità si rispettano. Un lavoro di resistenza improbo, nel mondo dei Lavitola. Facciamolo per i nostri figli, per il tempo che verrà: resterà traccia, sappiatelo, di chi ha detto di no. Mandiamo una mail a Van Rompuy, che a Berlusconi martedì una domanda la faccia anche lui: what about Tarantini, mr. president?
sabato 10 settembre 2011
I 5 Stelle rilanciano il Parlamento pulito Beppe Grillo porta in piazza il “cozza day”. - di Luigina D'Emilio
“Tutti in fila indiana, silenziosi ed ordinati”. Queste le prime parole che Beppe Grillo pronuncia ai manifestanti di piazza Navona, arrivati da tutta Italia per il “Cozza day”. Come un gran cerimoniere, corredato di maglia tricolore, il comico genovese si rivolge a una piazza che da stamattina ha invaso la Capitale per protestare contro la manovra del governo e il silenzio sulla legge ‘Parlamento pulito’, 350mila firme che giacciono in Senato dal 2007. Per evitare che sieda in aula chi ha condanne penali e chi ha già fatto più di due mandati.
Una “v” umana per mandare a quel paese il Parlamento. E’ iniziato così, con quattro flash-mob itineranti in luoghi simbolo di Roma, appunto, il “Cozza day”, il giorno contro le “cozze parlamentari abusive” organizzato dal Movimento 5 Stelle. Dal Colosseo, al Campidoglio, a piazza di Spagna, fino a piazza del Popolo, la protesta prende forma con slogan e cartelloni, il tutto condito dai cori dei manifestanti che attaccano la Casta dei politici. La scelta della lettera “v” è anche in memoria del V-day di tre anni fa, spiegano gli organizzatori: “Da allora non è cambiato nulla in questo Paese e, se è possibile, la situazione peggiora di giorno in giorno, con l’aggravante di un totale disinteresse nei confronti dei cittadini, di quello che hanno chiesto a gran voce con la legge di iniziativa popolare che è finita a fare la muffa nelle aule del Senato”.
A srotolare un lungo striscione con la scritta “a casa i molluschi”, durante il presidio di piazza di Spagna, molte persone che quella proposta di legge l’avevano firmata e che oggi portano per le vie di Roma la loro indignazione. Spiega Silvana di Nicolò mentre dà il via all’ultimo flash-mob della mattina: “La legge porcata di Calderoli fu approvata dal governo Berlusconi nel 2006, gli successe Prodi che in due anni non la cambiò, e neppure ci provò. Nessuno protestò. Ora, invece di portare la legge Parlamento pulito in discussione al Senato, gli stessi che non hanno mosso un dito quando erano al governo, propongono un referendum abrogativo che non risolverebbe nulla”. Anche se il porcellum venisse abrogato, chi ha condanne penali potrebbe rimanere comunque in Parlamento assieme a chi ha già superato i due mandati.
Piazza Navona è stata trasformata per l’occasione in una grande agorà pubblica delimitata da tre tagli di stoffa, lunghi 12 metri l’uno che formano la bandiera italiana. Tante le scritte in giro che ricordano anche le lotte del Movimento 5 Stelle, come i cartoncini che fanno bella mostra delle poltrone parlamentari posizionate sotto la lunga bandiera. Ecologia, informazione, acqua pubblica, onestà, queste le parole che si ripetono con più frequenza e questi i messaggi che i manifestanti porteranno oggi a Montecitorio. Da Piazza Navona, infatti, dopo l’attesissimo intervento di Grillo, è partita una lunga processione, in fila indiana, fino alla sede della Camera, dove ogni manifestante ha deposto una cozza simbolica in un grande cesto davanti la porta di accesso della Camera. Perché come ha spiegato Grillo, “la deposizione della cozza a Montecitorio è un esercizio catartico, simbolico. Servirà per purificare l’aria, per respirare profondamente e guardare in alto verso l’eterno cielo azzurro. Le cozze stanno formando una muraglia. Un groviglio di mitili avariati attaccati allo stesso scoglio”. E per chi volesse, carta e penna per la ricetta dell’impepata di cozze parlamentari.
Standing ovation, quando la politica si mischia alla satira con un Grillo che, da un palco improvvisato inizia il comizio show mostrando una grande rete con migliaia di cozze dentro: “Neanche Pinochet, o il generale Franco avrebbero agito così nascondendo le firme di 350 mila cittadini. Avrebbero almeno come intelligenza dato una risposta. Ricordando che i militanti del 5 Stelle non sono un movimento politico ma un’idea collettiva coadiuvata dalla rete per lottare assieme su dei progetti”.
(video di Irene Buscemi e Paolo Dimalio)
Precedenti di questo articolo
- Parlamento pulito, 350mila firme dimenticate dalla Casta. "Il 16 aprile tutti in piazza"
- Parlamento pulito, 5 stelle all'attacco
Domani tutti in piazza per il Cozza Day - Popolo Viola e indignati in corteo,
"Facciamo piazza pulita in Parlamento" - Cozza day, Grillo: "I politici? La crisi sono loro"
Nessun governo e il paese va. La formula magica del Belgio.
I partiti incapaci da oltre un anno di trovare un’intesa. Ma amministrazione ed economia funzionano.
C’è un paese nel cuore di quest’Europa sofferente che se la cava meglio degli altri. Il suo deficit pubblico è in netto miglioramento: era del 4,6 nel 2010, è del 3,6 nel 2011, sarà del 2,8 nel 2012. La sua crescita è superiore alla media: nel 2010 era stata del 2 per cento contro l’1,7 della zona euro, nel primo trimestre di quest’anno è stata dell’1 per cento contro lo 0,8 e il trend continua. Crolla la Grecia, trema l’Italia, persino la Francia sente franare il terreno sotto i piedi e la Germania cammina sulle uova. Ma il Belgio no, offre cifre virtuose e comportamenti diligenti. Quelli della Standard&Poor’s sono frustrati: avevano pronto il pollice verso, ma hanno dovuto rimettere la mano in tasca. Qual è il segreto del Belgio? Semplice, vien da dire: è senza governo dalla bellezza di 452 giorni. Una vacanza di potere che neanche l’Iraq dopo la guerra, che ce ne mise 289 per formare un esecutivo. Il Belgio è dunque acefalo, ma non per questo paralizzato. Nessun ictus istituzionale, nessuna paresi della macchina pubblica, nessun meccanismo fuori controllo. Le pensioni vengono regolarmente pagate, le immondizie puntualmente (quasi) raccolte, i malati normalmente curati e rimborsati, l’ordine pubblico decentemente garantito. I treni sono un po’ in ritardo, ma questo da sempre. Che il buon governo corrisponda a nessun governo?
In verità un governo c’è, guidato dal signor Yves Leterme. Sta lì dal 13 giugno del 2010, che fu giorno di elezioni politiche. Avrebbe dovuto curare gli “affari correnti” per qualche settimana in attesa di un esecutivo pienamente politico, figlio legittimo delle urne. Come si sa, la situazione s’imballò: nelle Fiandre il partito separatista fiammingo N-Va aveva sfiorato il 30 per cento, e gli altri non trovavano un punto di mediazione. Mentre Yves Leterme fungeva da “reggente”, si apriva un negoziato parallelo che dura tuttora, affidato all’intelligenza politica di Elio Di Rupo, socialista vallone di origini italiane. Sotto la sua guida, ogni tanto si ritrovano attorno ad un tavolo otto leader di partito. Senza fretta, per carità.
La settimana scorsa, per esempio, la riunione è saltata perché il verde Jean Michel Javaux, che è anche sindaco dell’amena cittadina di Amay, doveva imperativamente partecipare al consiglio comunale: si trattava di votare l’acquisto di una nuova macchina per i vigili e di un nuovo computer, mica bubbole. Di Rupo ha ancora una mesetto per concludere. Dopodiché, o partorisce un nuovo esecutivo di cui sarà il primo ministro (il primo vallone francofono da 32 anni a questa parte, e anche il primo omosessuale dichiarato al vertice di un paese europeo), oppure si torna alle urne.
Come si vede, non è che manchi il governo in senso stretto. Manca piuttosto il gioco politico dei partiti, confinato da un anno e mezzo nella stanza degli otto leader. Di conseguenza manca il conflitto parlamentare in tutta la sua gloria, che in Italia conosciamo bene. La reggenza di Yves Leterme sarà anche un vulnus per la democrazia belga, ma comporta alcuni vantaggi. Primo: le spese ministeriali sono ridotte al minimo. Secondo: il primo ministro reggente lavora al riparo dalle baruffe parlamentari tra valloni e fiamminghi, può quindi operare in base al buonsenso e non al punto minimo di mediazione. Terzo: lo stesso Leterme è esentato dall’adozione di misure di carattere elettoralistico, e ha potuto presentare una finanziaria non inquinata (per intendersi, priva di assatanati emendamenti localistici o corporativi: anche questi in Italia li conosciamo bene).
Nel contempo il premier può svolgere senza patemi i compiti di competenza del governo federale, reggente o meno che sia: ha presieduto l’Unione europea nel secondo semestre dell’anno scorso, e ha anche spedito qualche F-16 in Libia con l’approvazione unanime del parlamento.Esteri e difesa, infatti, come la sicurezza sociale, il 95 per cento della fiscalità, gli indirizzi economici, le telecomunicazioni, insomma tutto ciò che tocca l’“interesse nazionale”, è di competenza del governo centrale. Il resto, è bene sapere, è affidato ad altri cinque governi, regionali e comunitari. È il federalismo che tiene in piedi il corpaccione belga, o quantomeno che gli assicura un’agevole sopravvivenza da 452 giorni. Non lo mette al riparo, invece, da una possibile evaporazione statuale e politica di tipo jugoslavo, pur in assenza di conflitto armato. Evitarlo sarebbe compito delle forze politiche, per ora in naftalina. Ma questa è un’altra storia, né amministrativa né contabile.
In verità un governo c’è, guidato dal signor Yves Leterme. Sta lì dal 13 giugno del 2010, che fu giorno di elezioni politiche. Avrebbe dovuto curare gli “affari correnti” per qualche settimana in attesa di un esecutivo pienamente politico, figlio legittimo delle urne. Come si sa, la situazione s’imballò: nelle Fiandre il partito separatista fiammingo N-Va aveva sfiorato il 30 per cento, e gli altri non trovavano un punto di mediazione. Mentre Yves Leterme fungeva da “reggente”, si apriva un negoziato parallelo che dura tuttora, affidato all’intelligenza politica di Elio Di Rupo, socialista vallone di origini italiane. Sotto la sua guida, ogni tanto si ritrovano attorno ad un tavolo otto leader di partito. Senza fretta, per carità.
La settimana scorsa, per esempio, la riunione è saltata perché il verde Jean Michel Javaux, che è anche sindaco dell’amena cittadina di Amay, doveva imperativamente partecipare al consiglio comunale: si trattava di votare l’acquisto di una nuova macchina per i vigili e di un nuovo computer, mica bubbole. Di Rupo ha ancora una mesetto per concludere. Dopodiché, o partorisce un nuovo esecutivo di cui sarà il primo ministro (il primo vallone francofono da 32 anni a questa parte, e anche il primo omosessuale dichiarato al vertice di un paese europeo), oppure si torna alle urne.
Come si vede, non è che manchi il governo in senso stretto. Manca piuttosto il gioco politico dei partiti, confinato da un anno e mezzo nella stanza degli otto leader. Di conseguenza manca il conflitto parlamentare in tutta la sua gloria, che in Italia conosciamo bene. La reggenza di Yves Leterme sarà anche un vulnus per la democrazia belga, ma comporta alcuni vantaggi. Primo: le spese ministeriali sono ridotte al minimo. Secondo: il primo ministro reggente lavora al riparo dalle baruffe parlamentari tra valloni e fiamminghi, può quindi operare in base al buonsenso e non al punto minimo di mediazione. Terzo: lo stesso Leterme è esentato dall’adozione di misure di carattere elettoralistico, e ha potuto presentare una finanziaria non inquinata (per intendersi, priva di assatanati emendamenti localistici o corporativi: anche questi in Italia li conosciamo bene).
Nel contempo il premier può svolgere senza patemi i compiti di competenza del governo federale, reggente o meno che sia: ha presieduto l’Unione europea nel secondo semestre dell’anno scorso, e ha anche spedito qualche F-16 in Libia con l’approvazione unanime del parlamento.Esteri e difesa, infatti, come la sicurezza sociale, il 95 per cento della fiscalità, gli indirizzi economici, le telecomunicazioni, insomma tutto ciò che tocca l’“interesse nazionale”, è di competenza del governo centrale. Il resto, è bene sapere, è affidato ad altri cinque governi, regionali e comunitari. È il federalismo che tiene in piedi il corpaccione belga, o quantomeno che gli assicura un’agevole sopravvivenza da 452 giorni. Non lo mette al riparo, invece, da una possibile evaporazione statuale e politica di tipo jugoslavo, pur in assenza di conflitto armato. Evitarlo sarebbe compito delle forze politiche, per ora in naftalina. Ma questa è un’altra storia, né amministrativa né contabile.
STRISCIONE Berlusconi la merda sei tu Via da questo paese..
Lui può offenderci, noi non gli possiamo restituire la "cortesia"
Berlusconi, le voci e i timori sul "colpo finale" dei magistrati. Il retroscena.
Passerà la mano, ma non ora. Perché non intende sottomettersi ai «diktat» della politica e delle procure, «che dal '94 sono all'opera per togliermi di mezzo».
Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.
I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.
Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».
All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.
Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».
Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.
Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...
Ma dopo diciassette anni di conflitto con la magistratura, Berlusconi teme ciò che in pubblico dice di non temere affatto. E l'immagine che consegna ai fedelissimi è quella di un uomo provato da una lunga guerra di trincea.
I segni degli scontri risaltano sul volto del Cavaliere e ne minano la voce, che trasmette l'inquietudine di chi mette nel conto un'ipotesi estrema, un evento che cambierebbe il corso della storia politica italiana e marchierebbe quella personale di Berlusconi. I suoi uomini non osano nemmeno pensare ciò che il premier - abbandonato su un divano - arriva invece a dire, come a voler esorcizzare un traumatico finale di partita.
Il timore di un provvedimento restrittivo della libertà personale lo accompagna da giorni e non lo abbandonerà fino all'appuntamento di martedì con i magistrati napoletani, titolari al momento dell'inchiesta sul «caso Tarantini», una faccenda di presunti ricatti che ruota attorno all'ennesima storia di festini e di donnine in cui è coinvolto il Cavaliere. Nel modo in cui protesta la «libertà di fare ciò che voglio nella mia sfera privata», nel modo in cui rivendica «un diritto che andrebbe tutelato», si avverte come Berlusconi sia consapevole del danno che si è arrecato lasciandosi andare a «certe leggerezze», che non sono contemplate tra i suoi «fioretti» e che però nulla hanno a che vedere con «i reati».
All'esame di coscienza prevale tuttavia l'indignazione verso il sistema giudiziario, un potere che secondo il premier si fa gioco di ogni altro potere, e che nella fattispecie dell'inchiesta ha disseminato una tale serie di indizi da rendere manifesto - a suo giudizio - «l'intento politico e persecutorio». Del «caso Tarantini» Berlusconi contesta infatti la competenza della Procura di Napoli, le procedure usate dagli inquirenti e anche - anzi soprattutto - le modalità dell'interrogatorio a cui si dovrà sottoporre.
Perché passi che «Napoli non c'entra nulla» con reati che si sarebbero consumati tra Roma e Bari. Passi che «se io sono vittima di un'estorsione, vengo interpellato per capire se così stanno le cose, e non si arrestano le persone per fare trapelare le intercettazioni sul mio conto». Ma è il rendez-vous di martedì che - agli occhi del Cavaliere - rappresenta la vera insidia, e che gli fa capire come i magistrati abbiano studiato l'ultimo affondo nei suoi confronti. È nel faccia a faccia con i pubblici ministeri, da persona informata dei fatti, che Berlusconi intravvede la prova di come stiano preparandosi a infliggergli «il colpo di grazia».
Senza l'assistenza di un legale, solo davanti all'emblematico e storico «nemico», il premier scorge la minaccia, la contestazione della ricostruzione dei fatti, l'accusa di falsa testimonianza, e il conseguente e clamoroso provvedimento. Se così fosse, il fantasma che lo insegue dal '94 si farebbe carne. Se così fosse, per il Cavaliere sarebbe «un colpo di Stato». Non è dato sapere se abbia esplicitato i propri timori per alleggerirsi da un presentimento che lo opprime. Oppure se si sia mosso da abile regista della comunicazione per bloccare anzitempo una simile conclusione dell'interrogatorio.
Di sicuro il palazzo della politica ne è stato messo a parte, avversari e alleati sanno dell'ansia di Berlusconi. Tra i primi c'è chi gli ha proposto maldestramente uno «scambio», che al Cavaliere è parso «un ricatto». Tra i secondi c'è chi si defila per celare il proprio imbarazzo, sebbene i giudizi severi sui costumi di Berlusconi non cancellino i giudizi altrettanto severi sui metodi di certe procure.
Nel Pdl invece la solidarietà pubblica verso il premier è stata accompagnata da un senso di stordimento e di incredulità che in privato è tracimata fino a diventare rabbia. Perché davvero stavolta il Cavaliere «non poteva non sapere» che sarebbe stato intercettato, e l'imprudenza è arrivata così a sconfinare nell'impudenza. Per un Gianni Letta provato e senza più parole, c'è un partito preoccupato per le proprie sorti politiche, che inevitabilmente coincidono con quelle di Berlusconi.
Ma al destino del Cavaliere è accomunata un'intera classe dirigente: «Quando crollerà lui - disse Casini in tempi non sospetti - c'è il rischio che sotto le macerie ci si finisca tutti». Ecco perché tutti stanno con il fiato sospeso. Dopo diciassette anni di conflitto, Berlusconi si prepara alla sfida finale con la magistratura. Almeno, così sembra...
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