lunedì 28 novembre 2011

Milano, il processo Mills si blocca sulla testimonianza dell’avvocato inglese. -



La difesa dell'ex premier chiede che il teste chiave possa non rispondere alle domande, il Tribunale di Milano deciderà il 19 dicembre. Saltano tre udienze, la prescrizione arriva a febbraio. Raffica di dichiarazioni del Cavaliere: "Mi stavo addormentando, finirà tutto in nulla". E sulla politica: "Non ho comprato Btp. Lasciate lavorare Monti. Io non mi ricandiderò".


Berlusconi e l'avvocato inglese David Mills
Il processo Mills è rinviato al 19 dicembre, dopo un’udienza – con l’imputato Silvio Berlusconipresente in aula – consumata nella battagli procedurale sulla testimonianza dello stesso avvocato inglese, il cui esame era previsto in teleconferenza da Londra. I legali di Berlusconi hanno chiesto che David Mills fosse sentito come testimone “assistito”, quindi con il diritto di non rispondere a determinate domande. La Procura di Milano, invece, intendeva interrogarlo come testimone semplice, obbligato pertanto a dire la verità sempre e comunque.

Nella diatriba si sono inseriti i legali di Mills, sollevando differenze procedurali tra Regno Unito e Italia nel trattamento dei testi. Risultato, il processo è stato aggiornato al 19 dicembre, quando il tribunale deciderà se Mills andra ascoltato come testimone semplice oppure come testimone-imputato in procedimento connesso. Il tribunale ha cancellato le udienze del 5, 6 e 10 dicembre, perché la questione deve essere risolta prima dell’ascolto di altri testimoni e dello stesso Berlusconi (il suo interrogatorio, o in alternative le sue dichiarazioni spontanee, erano previste per il 5 dicembre). Di conseguenza, la sentenza prevista per il 16 gennaio ritarderà, con la prescrizione che incombe a febbraio.

Silvio Berlusconi è imputato per corruzione in atti giudiziari, con l’accusa di avere consegnato 600 mila dollari a Mills affinché fornisse testimonianze reticenti ai processi per le tangenti alla Guardia di finanza e All Iberian. Di grande importanza, dunque, l’esame di Mills in calendario oggi. I legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, hanno chiesto che Mills sia sentito come testimone “assistito”, in quanto già imputato nello stesso procedimento (finito con la prescrizione, ma fino alla sentenza d’appello la corruzione operata da Berlusconi nei suoi confronti era stata confermata). Con la facoltà, appunto, di restare in silenzio davanti a domande che coinvolgano la sua posizione personale, strettamente connessa a quella dell’ex premier.

Alla notizia del rinvio, Berlusconi ha commentato: “Avrei voluto vedere Mills in azione, aspetterò la prossima volta. Da lui mi aspetto la verità perché in questo processo se l’è inventata grossa”. Il riferimento è alla versione data da Mills al fisco inglese sui 600 mila dollari che per l’accusa milanese sono il frutto di una corruzione. Mills, ha sostenuto Berlusconi,  ”ha preferito dichiarare, per pagare meno tasse, che si trattava di un regalo e ha chiamato in causa, per primo, il managerCarlo Bernasconi (dirigente del gruppo Fininvest, ndr) che era morto. Poi in Italia si è deciso a raccontare la verità”.

I primi a intervenire in aula erano stati gli avvocati di Mills, con la richiesta che i pm si recassero a Londra domani per fornire tutte le delucidazioni del caso, e solo dopo il loro assistito avrebbe deciso se testimoniare o meno. Ma il presidente del collegio, il giudice Francesca Vitale, non ha condiviso questa impostazione, perché in Italia un testimone deve dire semplicemente la verità a qualunque domanda ed è impensabile che il pm informi in anticipo il teste sul “perimetro” delle sue dichiarazioni.

Il pm Fabio De Pasquale, intervenuto nel pomeriggio, ha aggiunto che in Italia non c’è l’obbligo di mettere a disposizione i documenti su cui si deve esprimere il testimone e ha comunque sottolineato che tutte le carte conosciute dalla difesa di Silvio Berlusconi sono note anche a quella di Mills. Inoltre, ha precisato che a Mills, sono noti i temi dell’esame a cui dovrebbe essere sottoposto.

Berlusconi è entrato a Palazzo di giustizia in auto. “Ho fatto fatica a non addormentarmi”, ha commentato dopo la prima parte dell’udienza. “Quando un processo non può avere effetti giuridici perché a febbraio interviene la prescrizione è evidente che bisogna abbandonare per doverosi motivi di economia processuale”. Per l’ex premier il comportamento del tribunale di Milano dimostra dunque una “pervicacia incomprensibile” del tribunale di Milano per arrivare “al nulla”.

Alla fine dell’udienza, l’ex presidente del consiglio si è lanciato nell’attualità politica. Sul “Btp Day” ha risposto ai giornalisti: “Io non ho comprato nulla, sono stato qui tutto il giorno”. Quanto al governo di Mario Monti alle prese con la crisi, “non è in ritardo, è appena arrivato e si deve occupare di cose di enorme complessità, ma lasciatelo lavorare”. Berlusconi ha osservato però che “quelle che Monti ha portato in Europa sono misure già varate dal mio governo e per il 55% già approvate dal Parlamento con la legge di stabilità”. Infine il Cavaliere ha smentito di aver detto che sarebbe tornato a occuparsi delle sue aziende, ma allo stesso tempo ha annunciato che non proverà a tornare a Palazzo Chigi: “Non mi ricandiderò, il Pdl farà le primarie”.

Mestieri nobili e lavori ignobili.



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Gli straricchi sono una minoranza ma tassarli frutterebbe 5 miliardi. - di Maurizio Ricci




Il 5,7 per cento delle sostanze possedute nel mondo è in Italia. Nei portafogli ci sono titoli, azioni e depositi ma la proprietà immobiliare rappresenta ancora più della metà di tutte le disponibilità.


ROMA - Delle possibili riforme nel cantiere del governo Monti è la più elusiva. Anche se richiesta a gran voce dalle forze sociali, Confindustria compresa, l'ipotesi di un imposta patrimoniale è al centro di un durissimo scontro fra i partiti della maggioranza, dove il Pdl ha più volte annunciato il proprio veto ad un intervento diretto sulla ricchezza degli italiani. In Parlamento, il presidente del Consiglio è stato attento ad indicare solo l'opportunità di un monitoraggio della ricchezza (e ha voluto ribadire la parola "monitoraggio"), che potrebbe anche voler dire soltanto l'utilizzo di parametri di ricchezza nello stabilire la congruità dei redditi dichiarati. Il terreno, in altre parole, va ancora esplorato.

Sul terreno della patrimoniale ci sono degli ostacoli tecnici. Al di là delle difficoltà di accertamento, sui patrimoni si è già intervenuti o si sta per intervenire. Per gli immobili, tornerà certamente in vigore l'Ici sulla prima casa. Per quanto riguarda i patrimoni finanziari, negli ultimi mesi è stata pesantemente rincarata l'imposta di bollo. L'ottica in cui si discute della patrimoniale, tuttavia, non è quella di colpire, in generale, la ricchezza, ma i ricchi e, in particolare, gli straricchi. Da questo punto di vista, una patrimoniale non universale, ma limitata a "chi ha di più" (un termine usato dallo stesso Monti) consentirebbe di sciogliere una vistosa contraddizione italiana. L'Italia è, infatti, un paese con redditi stagnanti, ma doviziosamente ricco: il 5,7 per cento della ricchezza netta posseduta nel mondo è in Italia, nonostante che gli italiani non siano più dell'un per cento della popolazione globale e il Prodotto interno lordo della penisola sia pari al 3 per cento del Pil mondiale. Una spiegazione corrente è la diffusione della proprietà immobiliare: l'80 per cento degli italiani vive in una casa di cui è proprietario. Ma è solo in parte vero. Secondo le stime della Banca d'Italia, la ricchezza netta degli italiani è pari a 8.283 miliardi di euro, di cui poco più della metà - 4.667 miliardi - è costituita da abitazioni, mentre le attività finanziarie (titoli, azioni, depositi) erano pari, nel 2008, a 3.374 miliardi di euro. 

A spiegare la differenza fra reddito e ricchezza è, piuttosto, l'evasione fiscale, che esaspera l'ineguaglianza crescente della società italiana. La piramide dei redditi (dichiarati) è svelta, sottile, quasi egualitaria. Mentre il grafico della ricchezza (stimata dalla Banca d'Italia) appare pesantemente squilibrato, più un paralume che una piramide: quasi il 45 per cento della ricchezza nazionale, equivalente a 3.700 miliardi è nelle mani di 2,4 milioni di famiglie, il 10 per cento più ricco. Se, come è stato ipotizzato, la patrimoniale si dovesse, tuttavia, applicare solo ai patrimoni superiori a 1,5 milioni di euro, il grosso dei ricchi italiani ne sarebbe fuori. Ma anche una patrimoniale per i soli straricchi darebbe un gettito cospicuo. Il 13 per cento della ricchezza italiana (sempre secondo Via Nazionale) è nelle mani di 240 mila famiglie italiane, l'1 per cento del totale. Si tratta di 1.076 miliardi di euro. Una patrimoniale alla francese, con un'aliquota allo 0,5 per cento della ricchezza, darebbe un gettito di oltre 5 miliardi di euro l'anno. Per ognuna delle 240 mila famiglie significherebbe pagare, su un patrimonio che è in media di quasi 4,5 milioni di euro a famiglia, 22.500 euro l'anno.



http://www.repubblica.it/economia/2011/11/28/news/patrimoniale_straricchi-25708544/?ref=HREA-1

Due Mario italiani per salvare l'euro. - di Eugenio Scalfari




La crisi dei debiti sovrani dell'Europa - di tutta l'Europa, Germania compresa - ha provocato una reazione in Inghilterra e in Usa: le banche di quei due Paesi hanno dichiarato che si stanno preparando alla scomparsa dell'euro dal sistema monetario mondiale. Non è certo un aiuto a resistere, quella dichiarazione, e non è comunque un utile campanello d'allarme, ma piuttosto una campana a martello, di quelle che si suonavano un tempo quando un intero paese andava a fuoco e la popolazione accorreva con le pompe e i secchi d'acqua per spegnere l'incendio.

Ma qui ed oggi non c'è una popolazione da chiamare a raccolta, né bastano i pompieri nazionali a sostenere la moneta europea anche se il loro contributo è necessario. Qui ed oggi c'è un solo soggetto che può impedire una frana generale ed è la Banca centrale europea guidata da Mario DraghiMario Monti è il pompiere nazionale ed il suo contributo è necessario ma insufficiente. 
Salvare l'Europa spetta a Draghi; che la Germania sia d'accordo oppure no, nessuno può impedirglielo perché la Bce è indipendente dai governi purché resti nei limiti previsti dal suo statuto il quale gli pone il divieto di finanziare i governi ma non di finanziare il sistema bancario europeo a rischio di insolvibilità.

Draghi conosce perfettamente questo suo diritto-dovere d'intervenire per evitare il cosiddetto "credit-crunch", cioè il passaggio dall'illiquidità all'insolvibilità. Probabilmente avrà bisogno d'un paio di settimane per mettere a punto un intervento di così ampie dimensioni; dovrà contattare le principali banche di credito commerciale dei 17 Paesi dell'eurozona e anche quelle inglesi e americane perché ormai
tra le grandi banche e i grandi fondi d'investimento del risparmio esiste un intreccio intricatissimo di flussi e di reciproci impieghi. Due settimane, ancorché sotto l'infuriare della tempesta sui mercati, sono sopportabili; andare oltre diventerebbe una scommessa andata male, non una battaglia ma una guerra perduta.

Le dimensioni di un salvataggio del genere ammontano almeno a 
1.000 miliardi di euro e forse anche di più, ma sbagliano quanti pensano che basti l'annuncio e la garanzia da parte della Bce per ottenere il risultato senza bisogno di scomodare la cassa. Non è così. Il sistema bancario europeo è già in condizioni di scarsa liquidità e un semplice annuncio non basterebbe. La cassa è indispensabile, la Bce dovrà stampare moneta e iniettarla nel sistema bancario perché è questa la preziosa acqua necessaria per estinguere l'incendio. Non la darà ai governi ma alle banche e non già per una settimana ma per due o tre anni, con unduplice obiettivoassicurarne la solvibilità e rendere possibile il finanziamento delle imprese affinché contrastino la recessione incombente. E qui entrano in scena i pompieri nazionali, cioè i governi, ciascuno responsabile del proprio debito sovrano e della crescita del proprio prodotto interno.
* * *
Il governo italiano è in primissima linea perché, come hanno detto la Merkel e Sarkozy dopo l'incontro di Strasburgo con Mario Monti, gli interventi che il nostro neo-premier ha in programma sembrano a loro perfettamente in linea con le necessità e perché - come hanno aggiunto - se dovesse diventare insolvibile il debito italiano salterebbe l'euro e con esso l'intera costruzione europea.

Monti deve realizzare due obiettivi
il rigore e la crescita e semmai ci fosse da stabilire un prima e un dopo, la crescita verrebbe prima e non dopo. C'è un terzo obiettivo che Monti si propone ed è l'equità che in realtà rappresenta il giusto equilibrio tra crescita e rigore. L'equità si realizza infatti attraverso l'equilibrio tra quei due termini, attraverso la coesione sociale e attraverso lo sforzo di evitare la recessione e la deflazione. Questi sono i compiti di Monti e del suo governo. Il loro fucile ha due soli colpi in canna:crescita e rigore. La prima si ottiene sostenendo il potere d'acquisto delle fasce sociali medio-basse e diminuendo il carico fiscale delle imprese. Il secondo tagliando la spesa improduttiva, i privilegi e le disuguaglianze. In concreto: riformando le pensioni, equiparando le condizioni di lavoro tra precari e lavoratori a tempo indeterminato, destinando i risparmi così realizzati alla fondazione del nuovo "welfare" destinato a tutelare i giovani e a instaurare un patto generazionale a loro favore.

Il governo ha ormai in avanzata preparazione la riforma pensionistica e quella del lavoro, attingerà risorse immediate dall'Iva e dall'Ici (che è di per sé un'imposta patrimoniale) nonché dalla vendita dei beni pubblici. Rilancerà i lavori pubblici con un pacchetto che vede insieme il ministero di Passera e quello di Barca (Infrastrutture e Coesione territoriale). Due colpi in canna. Ha preso tempo fino al 5 dicembre, una dilazione che coincide con quella di cui ha bisogno Draghi. Neanche a Monti bastano gli annunci, anche lui deve muovere la cassa e non può sbagliare. Dieci giorni sono sopportabili, il di più sarebbe del Maligno e quindi va escluso.
Intanto siano nominati domani i vice-ministri e i sottosegretari affinché il Parlamento possa lavorare. Qui la dilazione non è permessa.
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I debiti sovrani hanno un calendario di aste da tempo stabilito. Quello italiano prevede nel 2012 emissione di titoli in gran parte pluriennali per 270 miliardi. Quello degli altri Stati dell'eurozona ne prevede altri 800, metà dei quali emessi dalla Germania. Nel complesso sarà un anno terribile che si inaugura con un'asta italiana di 40 miliardi nella prima decade di febbraio. Draghi, quand'era ancora in via Nazionale, aveva consigliato Tremonti nel 2010 di anticipare le aste ma il consiglio non fu seguito, erano ancora i tempi nei quali il governo di allora negava la crisi o sosteneva che comunque ne saremmo usciti prima e meglio degli altri. Adesso Cicchitto e La Russa si sbracciano a dimostrare che il loro governo non ha nulla a che fare con quella che Giuliano Ferrara chiama Lady Spread. 
Ma Lady Spread è stata svegliata proprio da quel governo e dalla sua micidiale immobilità. Tre anni d'immobilità, di cui paghiamo adesso il durissimo scotto.
Se Draghi e Monti faranno quel che debbono entro la coincidente scadenza, anche l'anno terribile potrà essere padroneggiato. Ma per quanto riguarda l'Italia, noi abbiamo una scadenza tra pochi giorni, modesta per tempi normali ma assai scabrosa per l'oggi: un'asta di 5 miliardi di titoli pluriennali.

Si potrebbe cancellarla e rinviarla perché il Tesoro può farne a meno, ma sarebbe un pessimo segnale per i mercati. Il rimedio, se si vuole, c'è: la Banca d'Italia, imitando la Bundesbank, potrebbe prendere in parcheggio i titoli in scadenza e collocarli gradualmente sul mercato secondario. Le banche, una volta che la Bce avesse varato il suo programma di prestiti, sottoscriverebbero senza problemi quel ricollocamento come dovranno fare per una buon parte delle aste successive. Questo è il solo modo per trasmettere gli effetti della politica monetaria a sostegno dei debiti sovrani, in attesa che i Trattati siano riveduti, il fisco diventi appannaggio dell'Europa e gli Eurobond siano accettati anche dalla Merkel. Allora intoneremo il "Magnificat" e ne saranno contenti anche i cattolici di Todi e del governo dei tecnici.
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Questa storia del governo dei tecnici continua ad esser vissuta malamente da una parte notevole dell'opinione pubblica, anche da quella vastissima (75 per cento) che appoggia Monti riconoscendo l'esistenza di ragioni di urgenza e di emergenza. Nel mio articolo di domenica scorsa avevo ricordato tre illustri precedenti per collocare l'attuale governo in un contesto storico: i 15 anni di governo della Destra storica (1861-1876), i due anni del governo Fanfani delle "convergenze parallele" (1960-62), la proposta di Bruno Visentini d'un governo istituzionale come soluzione permanente prevista dalla Costituzione (1980).

Dedico la conclusione di quest'articolo al tema sollevato da Visentini, per renderne più chiari i lineamenti e la sua attualità.
1. I governi sono tutti politici se avvengono nel quadro della democrazia parlamentare poiché la loro esistenza e la loro permanenza dipendono dalla fiducia che il Parlamento gli accorda o gli ritira.
2. Il governo istituzionale cui pensava Visentini prevedeva che i partiti non fossero agenzie di collocamento dei loro dirigenti e clienti, ma organi di generale indirizzo politico e di raccolta del consenso popolare sulla base d'una loro visione del bene comune.
3. La legge elettorale doveva (dovrebbe) offrire lo "spazio pubblico elettorale" ai candidati dei partiti o di qualsivoglia associazione o individuo che volesse cimentarsi. Il Parlamento uscito dalle elezioni esprime una sua maggioranza che risponde agli elettori così come ne risponde la minoranza di opposizione.
4. La formazione del governo spetta al presidente della Repubblica il quale, a termini della Costituzione, "nomina il presidente del Consiglio e, su sua proposta, i ministri". Il governo così nominato deve ottenere entro pochi giorni la fiducia del Parlamento.
Il risultato di questo "combinato disposto" consiste nel fatto che nella formazione del governo il capo dello Stato tiene necessariamente conto della maggioranza parlamentare dalla quale l'esistenza del governo dipende, ma lo nomina senza trattarne la composizione con le segreterie e i gruppi parlamentari dei partiti.

Questo è lo schema del governo istituzionale e costituzionale. Chi non capisce che esso non confisca affatto la democrazia e non umilia affatto il Parlamento, al quale anzi affida piena centralità svincolandolo anche dalla sudditanza ai voleri del "premier" (com'è accaduto nell'appena trascorso decennio berlusconiano) e potenziando il suo diritto-dovere di controllare il governo e la pubblica amministrazione; chi non capisce queste lapalissiane verità è in palese malafede oppure mi permetto di dire che è un perfetto imbecille.



http://www.repubblica.it/politica/2011/11/27/news/due_mario_italiani_per_salvare_l_euro_di_eugenio_scalfari-25666637/index.html?ref=search

Asilo Mariuccia, zero soldi e comunità chiuse. Ma gli uomini di Cl ci guadagnano lo stesso. - di Luigi Franco






Nel 2010 il Cda ottiene da Regione Lombardia 600mila euro. Contemporaneamente sborsa la stessa cifra per ristrutturare la sede di una sua ex comunità poi affittata alla Esae, fondazione dello stesso presidente del Mariuccia Valter Izzo.


Le comunità dell’Asilo Mariuccia chiudono una dopo l’altra. I soldi della storica istituzione milanese per l’assistenza ai minori sono sempre meno. Eppure gli uomini legati a Comunione e liberazione che la gestiscono riescono a fare i loro interessi. Grazie anche ai finanziamenti pubblici. Il consiglio di amministrazione, nominato da Regione Lombardia e Comune di Milano, ha infatti ottenuto nel 2010 un finanziamento straordinario di 600mila euro dalla giunta lombarda. E nello stesso periodo ha sborsato una cifra analoga per ristrutturare un edificio a Milano. Dove prima c’erano adolescenti disagiati. Che ora hanno lasciato il posto a Esae, una fondazione che opera nel sociale e che è guidata dallo stesso presidente dell’Asilo Mariuccia, Valter Izzo. Ciellino come il governatore Roberto Formigoni, Izzo è vice presidente della Compagnia delle Opere non profit e in Lombardia fa la parte del leone in campo sociale con il gruppo La Strada di cui è a capo: “Una holding di imprese sociali”, la definisce Ferruccio Pinotti in La lobby di Dio (ed. Chiarelettere). Contattato da ilfattoquotidiano.it, Izzo afferma che “ora l’asilo ha un bilancio in pareggio, grazie anche a quelle che più che chiusure di comunità sono riconversioni che hanno reso possibile il potenziamento dei centri per ragazze madri”.

Facciamo un passo indietro. Quando Ersilia Bronzini Majno fonda a Milano un istituto per il recupero di bambine e adolescenti “traviate” è il 1902. Lo dedica alla figlia Mariuccia, morta a soli 13 anni di difterite. Col tempo l’asilo inizia ad accogliere anche i maschi. E se fino a tre anni fa nel capoluogo lombardo ci sono quattro comunità e alcuni gruppi appartamento (più altri centri a Sesto San Giovanni e, nel varesotto, a Porto Valtravaglia), nel 2009 iniziano in rapida successione le chiusure. Nei primi mesi dell’anno si conclude l’attività della comunità di pronta accoglienza maschile di via Porpora. Nell’aprile 2010 è la volta delle comunità femminile di via Jommelli. “E’ chiaro – spiega Izzo in quel periodo al Corriere della Sera – che se in una comunità tarata su dieci ragazze, ce ne sono solo tre, non riesco più a pagare le spese del personale e sono costretto a chiudere”. Ecco la replica del Comune, che paga le rette: “E’ un dato oggettivo che sia calato il numero di stranieri non accompagnati e noi stiamo lavorando con la Regione per individuare comunità più leggere che permettano con più facilità l’integrazione delle giovani ragazze”.

Qualcosa però non torna, visto che solo due mesi prima, nel febbraio 2010, l’Asilo Mariuccia ha ottenuto dalla Regione un contributo straordinario di 600mila euro e tra le motivazioni c’è “l’aumento di minori, inviati dai servizi pubblici, con patologie anche gravi della sfera psichica”. E poi, si legge sempre nella delibera della giunta, “l’aumento di minori che, prevalentemente rinvenuti sul territorio della città di Milano, vengono condotti dalle forze dell’ordine nella sede principale di Milano, quale sede storicamente presente sul territorio”.

Insomma, da un lato Izzo si lamenta perché nelle comunità ci sono sempre meno ragazzi, dall’altro riceve un finanziamento dalla Regione anche per compensare l’aumento del numero di adolescenti che hanno bisogno di essere ospitati. Ottiene 600mila euro per far fronte alle spese, ma passa qualche mese e dopo la chiusura dell’aprile 2010 ce ne sono altre: a fine 2010 è la volta di un gruppo appartamento in via Pacini, a inizio 2011 della comunità maschile di via Jommelli.

A incuriosire poi è un particolare, che potrebbe essere solo una coincidenza, ma lascia qualche interrogativo. Il 20 gennaio 2010, tre settimane prima di ottenere il contributo della Regione, l’Asilo Mariuccia pubblica un bando di gara per la ristrutturazione dell’edificio di sua proprietà in via Porpora, lo stesso dove è stata mandata via la comunità di pronta accoglienza maschile: lavori per la “realizzazione di opere edili ed impiantistica” da eseguirsi in quattro mesi per 478.900 euro, cifra che si avvicina a quella incassata dalla Regione. Il rinnovamento dei locali è totale: sono previsti nuovi sanitari, un nuovo impianto di condizionamento, un nuovo impianto elettrico e vengono ridisegnati tutti gli spazi interni. Perché lo stabile non servirà più a ospitare adolescenti in difficoltà. Ma verrà dato in affitto per 18mila euro all’anno alla fondazione Esae, per i suoi servizi di consulenza e formazione in ambito sociale. Izzo smentisce che il finanziamento della Regione sia stato usato per la ristrutturazione: “Quei soldi – dice – sono serviti a chiudere i buchi della gestione corrente. Per i lavori è stato usato quello che l’Asilo Mariuccia ha in conto patrimonio”. Cioè quanto derivato dalle vendite di alcuni immobili di proprietà dell’istituzione, che secondo Izzo “non può essere utilizzato per la spesa corrente”.

Però c’è un’altra coincidenza: il presidente di Esae, una fondazione che nel suo comitato di indirizzo ha Regione Lombardia, Comune e Provincia di Milano, è sempre Valter Izzo. E nel suo consiglio di amministrazione ci sono Maurizio Faini e Diego Montrone. Legati anche loro a Comunione e liberazione, sono rispettivamente il direttore dell’Asilo Mariuccia e uno dei membri del cda.

L’edificio di tre piani in via Porpora cambia quindi la sua destinazione, ma rimane in famiglia. Inoltre Izzo, che da presidente dell’Asilo Mariuccia il 20 gennaio 2010 firma il bando per i lavori edili, un mese prima (il 9 dicembre 2009) ha già firmato, da presidente della fondazione Esae, un altro bando: quello da 60.845 euro Iva esclusa per “la fornitura in opera di arredi vari per un centro servizi e formazione” destinati proprio ai locali che verranno ristrutturati e ceduti in affitto dall’Asilo. Nuovi spazi per accogliere chi seguirà i corsi e tutta una schiera di docenti pagati per tenerli. Mentre Izzo continuerà a essere uno dei padroni dei servizi sociali in Lombardia.

Lo scandalo delle case di Mostacciano nelle carte dell’inchiesta sul crac del San Raffaele. - di Marco Lillo



A fine 2009, il Fatto Quotidiano scoprì la storia di tre ville comprate a peso d'oro dall'Ifo: due sono rimaste inutilizzate, una è stata venduta a Niccolò Pollari a prezzo stracciato. Ora la vicenda è tra gli incartamenti dei pm di Milano che indagano sul fallimento dell'ospedale di don Luigi Verzè.

La villa di Niccolò Pollari
Finalmente una Procura si interessa della storia delle ville del San Raffaele di Mostacciano, uno scandalo denunciato due anni fa dal Fatto. Due delle tre ville sono state comprate nel 2009 dall’Ifo di Roma (ente regionale che gestisce l’ospedale Regina Elena) al prezzo stratosferico di 10 milioni. Quei soldi, stanziati dal ministero diretto da un dirigente del San Raffaele,Ferruccio Fazio, potevano essere usati per curare i malati di tumore con macchine e sale operatorie più moderne e invece sono finiti nel buco nero del crac del San Raffaele. Il direttore dell’Ifo che firmò quell’acquisto inutile, Francesco Bevere, è stato promosso dall’ex ministro Ferruccio Fazio nel dicembre 2010 direttore generale della programmazione sanitaria del ministero della salute, un ruolo di prestigio.

Non meno scandalosa la storia della terza villa, svenduta quattro anni prima a mezzo milione di euro a un altro amico di don Verzé: Niccolò Pollari, allora capo dei servizi segreti militari. Il Fattosi era già occupato della doppia vendita due anni fa. Ora qualcosa si muove, ma a Milano. La società di consulenza Deloitte, incaricata dalla nuova amministrazione di far luce sui conti del San Raffaele, dedica un paragrafo della sua relazione, finita agli atti dell’inchiesta dei pm milanesi sul crac, a questa vicenda immobiliare. Al di là della sua rilevanza penale, la storia delle tre ville merita di essere raccontata perché rappresenta un oltraggio ai malati di tumore in cura al San Raffaele di Milano e al Regina Elena di Roma.

Per capire perché, bisogna prima andare al catasto e poi a Mostacciano per vedere il diverso prezzo e destino delle ville comprate dall’Ifo e da Pollari. Delle due ville comprate con soldi pubblici, la costruzione più grande è completamente abbandonata. Nella piscina (cosa se ne dovevano fare i malati di tumore è un mistero) cresce l’erba e gli operai usano il giardino come base dei lavori nel complesso del Regina Elena che si trova alle spalle. L’altra villa più piccola è usata solo per una minima parte per gli uffici tecnici dell’Ifo, l’ente regionale che ha sperperato i 10 milioni. Il 21 luglio 2009 Francesco Bevere, il direttore generale dell’Ifo, l’istituto pubblico controllato dalla Regione Lazio che gestisce gli ospedali Regina Elena e San Gallicano, delibera l’acquisto. A mettere i soldi è il ministero della Salute diretto da Ferruccio Fazio, che il 26 marzo 2009 assegna con un solo decreto ben 19 milioni all’Ifo: 10 milioni e 260 mila euro per l’acquisto di due ville e dei suoli annessi, più altri 4, 5 milioni per comprare un macchinario modernissimo per la tomoterapia e altri 3,8 milioni per l’adeguamento alle norme antincendio delle sale operatorie.

A prescindere dai conflitti di interesse di Fazio (come Il Fatto ha scritto, la tomoterapia rappresenta la specialità dell’azienda di famiglia del ministro) sarebbe stato meglio spendere i dieci milioni di euro per quella macchina e per le sale operatorie, invece che per una villa con piscina nella quale oggi si tuffano le rane di Roma. L’ex direttore dell’Ifo, Francesco Bevere, nonostante lo stato delle ville dopo due anni dalla sua scelta, continua a difendere l’operazione. “Quando ero all’Ifo ho presentato un progetto e ho ottenuto da tempo”, spiega Bevere, “un finanziamento di 5 milioni dalla Regione per la realizzazione, nella nuova proprietà immobiliare, di un Hospice, di un moderno Reparto di terapia del dolore e di interventi di riabilitazione a favore dei malati oncologici. Un’altra porzione della proprietà acquistata era finalizzata all’installazione di una modernissima apparecchiatura di protonterapia“.

Al Fatto risulta però che in Regione la pratica è ferma. Se le ville comprate con tanti soldi pubblici sono inutilizzate, quella comprata da Pollari con pochi soldi privati è stata ristrutturata alla grande dalla famiglia dell’ex generale, ora consigliere di Stato, che può tuffarsi in piscina alla faccia dei pazienti e dei creditori del San Raffaele. Il villino Anselmo, ora villa Pollari, era stato comprato per 1, 2 milioni di euro dal San Raffaele nel 18 luglio 1994 e svenduto a Pollari 11 anni dopo a 500 mila euro. L’ex capo del Sismi giustificò il prezzo ridicolo per 27 vani catastali con una perizia che attestava lo stato fatiscente. Ma i consulenti di Deloitte scrivono: “Risultano disponibili tre perizie di valutazione”. L’ultima è quella dell’architetto Munari “che stimava il villino in data 22 luglio 2005 in prossimità della cessione in euro 498 mila”, ma prima ce n’erano altre due. Nel dicembre 2003 l’architetto Moauro stimava il valore dell’immobile in 2, 1 milioni. Pollari giustificò il prezzo basso con la necessità dei lavori. Ma i consulenti annotano che nella terza valutazione, fatta dall’Ufficio del territorio su richiesta dell’Ifo, il prezzo era ridotto proprio “in ragione dei costi stimati di ristrutturazione a 1, 4 milioni di euro”. Non solo: “E’ stata rinvenuta una comunicazione datata 11 febbraio 2004 indirizzata dall’amministratore della Fondazione San Raffaele Mario Cal all’agenzia del territorio, nella quale Cal sosteneva che la perizia da 1, 4 milioni meritava di essere rivista in ragione del trend di forte incremento dei valori immobiliari”. Altro che mezzo milione.

domenica 27 novembre 2011

«Vi racconto perché Bossi è prigioniero di Berlusconi». - di Marco Sarti



Umberto Bossi vuole le elezioni? Alla fine dovrà fare quello che gli dice Silvio Berlusconi. Anche perché già da qualche anno il simbolo della Lega Nord appartiene al Cavaliere». La storia non è nuova. Un’indiscrezione che gira da tempo a Palazzo: nel 2005 il premier avrebbe finanziato il Carroccio, a un passo dalla bancarotta. In cambio, avrebbe chiesto e ottenuto la titolarità del logo del partito. Lo «spadone» di Alberto da Giussano. A confermare la vicenda è Rosanna Sapori, già consigliere comunale della Lega, membro del direttivo provinciale di Bergamo e, soprattutto, (ormai ex) celebre giornalista di Radio Padania Libera. «Nessuna invenzione - spiega la diretta interessata - l’ho detto più volte, anche in tv. E finora nessuno si è mai permesso di smentirmi». E dire che fino a pochi anni fa Rosanna Sapori e Umberto Bossi erano grandi amici. «Con lui - continua la giornalista - ho sempre avuto un rapporto bellissimo. Una relazione che, a differenza di altre donne all’interno della Lega, non aveva alcuna implicazione sessuale». Il legame tra i due termina nel 2004, quando Rosanna viene cacciata da Radio Padania. Alla base di quella epurazione, racconta lei, ci sarebbe proprio il legame con il Senatur. «La nostra amicizia aveva creato molta invidia a via Bellerio. Non è un caso che mi licenziarono proprio durante la sua malattia». Nonostante tutto, Rosanna Sapori conserva un ottimo ricordo del leader della Lega: «Nella vita di tutti i giorni non era mica quello di Pontida. Lì recitava un ruolo: urlava e le sparava grosse perché la gente lo voleva così. Ma lui era tutt’altro. Una persona furba e capace. Con una enorme lungimiranza. Figurarsi che già sei anni fa odiava Gianfranco Fini. A Berlusconi lo diceva sempre: “Vedrai che questo qui prima o poi ti tradirà”». Un politico di razza, insomma. Ma anche un padre padrone. «Era un profondo conoscitore della psiche umana e del linguaggio del corpo. I suoi erano terrorizzati. Se ne prendeva di mira uno, lo massacrava. Lo insultava, lo umiliava. Godeva nel vederli prostrati davanti a lui». La presunta compravendita del simbolo? A sentire la Sapori, i problemi per la Lega iniziarono con la creazione di Credieuronord. «Per carità - rivela la giornalista, che ha raccontato questa vicenda nel libro “L’unto del Signore” di Ferruccio Pinotti - probabilmente quell’istituto di credito è nato con tante buone intenzioni. Anche se Bossi non ci ha mai creduto più di tanto». In realtà, in quegli anni il maggior sponsor di Credieuronord è proprio il Senatur. È Bossi a scrivere una lettera in cui invita i vertici del partito a sottoscrivere le quote della banca. «Sarà - continua la Sapori - ma lui in quel progetto ci mise solo 20 milioni di lire. Calderoli, per esempio, investì 50 milioni. Ricordo che molti parlamentari, anche per paura di non essere più ricandidati, ci buttarono un sacco di soldi». Il sogno bancario della Lega sfuma in poco tempo. Il bilancio 2003 dell'istituto di credito si chiude con 8 milioni di perdite. Nello stesso anno, un’ispezione di Bankitalia fa emergere il dissesto. «A quel punto Bossi, che forse aveva perso il controllo della banca - continua la Sapori - chiamò Giancarlo Giorgetti, suo confidente in materia finanziaria. Lo ricordo benissimo. Gli chiese: “Fammi capire cosa sta succedendo”. Giorgetti si recò nella sede della banca, a due passi da via Bellerio, entrò e non ne uscì per una settimana. Quando portò i conti a Bossi, gli disse molto chiaramente che rischiavano di andare tutti in galera». Misteriosamente, la Lega trova una via d’uscita. Nel 2005, la Banca Popolare di Lodi di Gianpiero Fiorani interviene per rilevare Credieuronord. E Silvio Berlusconi cosa c’entra in tutta questa storia? «Fu lui a permettere l’intervento di Fiorani - spiega la Sapori -. In ogni caso i conti dissestati della Lega non derivavano mica solo dalla banca. C’erano già i problemi finanziari dell’Editoriale Nord, l’azienda cui facevano capo la radio, la tv e il giornale di partito. Il primo creditore di Bossi, poi, era proprio il presidente Berlusconi. Le innumerevoli querele per diffamazione che gli aveva fatto dopo il ribaltone del ’94, le aveva vinte quasi tutte. La Lega era piena di debiti. Si era imbarcata in un’interminabile serie di fantasiosi e poco redditizi progetti come il circo padano, l’orchestra padana. Non riuscivano a pagare i fornitori delle manifestazioni. Ricordo che allora erano sotto sequestro le rotative del giornale e i mobili di via Bellerio». Così, secondo il racconto della Sapori, il Cavaliere decide di ripianare i debiti del Carroccio. Facendosi dare, in cambio, la titolarità del simbolo del partito. «Glielo suggerì Aldo Brancher - ricorda la Sapori -. La titolarità del logo di Alberto da Giussano era di Umberto Bossi, della moglie Manuela Marrone e del senatore Giuseppe Leoni. Furono loro a firmare la cessione del simbolo. È tutto ratificato da un notaio». E aggiunge: «Fini questa storia la conosce benissimo - taglia corto la Sapori -. Qualche anno fa lui e il premier si incontrarono a cena a Milano. C’erano anche altri parlamentari del centrodestra. Quando qualcuno si lamentò del comportamento della Lega, il Cavaliere si alzò in piedi e annunciò: “Non preoccupatevi di Bossi, lui non tradirà più. Lo spadone è mio”». Secondo indiscrezioni, il simbolo del Carroccio costò a Berlusconi circa 70 miliardi di lire. Sulla cifra, però, Rosanna Sapori non si espone. «So solo che il Cavaliere tolse le querele, si preoccupò di salvare la banca. Ma non saldò tutto con un unico versamento. Non gli conveniva. Decise di pagare a rate.