È il maggiordomo del Papa il "corvo" che ha fatto uscire dal Vaticano le carte segrete. Si tratta, secondo l'Ansa, di Paolo Gabriele, aiutante di camera della famiglia pontificia, in sostanza il cameriere del Pontefice. Questa mattina Gabriele sarebbe stato ascoltato in un interrogatorio dal promotore di giustizia vaticano, Nicola Picardi. Le autorità vaticane avevano dato notizia del fermo di una persona «in possesso illecito di documenti riservati». Almeno così aveva riferito in mattinata il responsabile della Sala Stampa della Santa Sede, padre Federico Lombardi, senza però rivelare il nome del "corvo".
Ecco una sintesi dei documenti riservati che il maggiordomo del Papa ha fatto uscire.
«Quando accettai l’incarico al Governatorato il 16 luglio 2009 - scrive Viganò il 4 aprile 2011 al Papa - ero ben conscio dei rischi a cui andavo incontro, ma non avrei mai pensato di trovarmi di fronte ad una situazione così disastrosa. Ne feci parola in più occasioni al Cardinale Segretario di Stato, facendogli presente che non ce l’avrei fatta con le sole mie forze: avevo bisogno del suo costante appoggio». Appoggio che Viganò fa capire non esserci stato. Le finanze sono in uno stato disastroso: «La situazione finanziaria del Governatorato -prosegue -, già gravemente debilitata per la crisi mondiale, aveva subito perdite di oltre il 50/60%, anche per imperizia di chi l’aveva amministrata. Per porvi rimedio, il cardinale presidente aveva affidato di fatto la gestione dei due fondi dello Stato ad un Comitato finanza e gestione, composto da alcuni grandi banchieri, i quali sono risultati fare più il loro interesse che i nostri. Ad esempio, nel dicembre 2009, in una sola operazione ci fecero perdere 2 milioni e mezzo di dollari. Segnalai la cosa al Segretario di Stato e alla Prefettura degli Affari Economici, la quale, del resto, considera illegale l’esistenza di detto Comitato. Con la mia costante partecipazione alle sue riunioni ho cercato di arginare l’operato di detti banchieri, dai quali necessariamente ho dovuto spesso dissentire». In effetti questo gruppo di banchieri opera senza riconoscimento legale e amministra quasi 300 milioni di investimenti ogni anno. Un portafoglio che si è ridotto - per le perdite - negli ultimi anni.
Chi sono questi banchieri? Volti noti della finanza cattolica. A presiedere il comitato c’è Pellegrino Capaldo, banchiere schivo, già presidente della banca di Roma. Era nella commissione segreta vaticana che concordò il «contributo volontario» per sollevare lo Ior da qualsiasi responsabilità nel crac dell’Ambrosiano con Paul Casimir Marcinkus che portò a Ginevra il 25 maggio 1984 insieme a monsignor Donato de Bonis (quello che dieci anni dopo riciclerà la tangente Enimont ricevuta da Luigi Bisignani sempre allo Ior) l’assegno del silenzio da 242 milioni di dollari. Troviamo poi Gotti Tedeschi, nel comitato fino a quando non è andato al vertice della banca del Papa, Massimo Ponzellini, già numero uno della Popolare di Milano, indagato per associazione a delinquere dalla procura di Milano nell’inchiesta sui finanziamenti Bpm al gruppo dei videogiochi Atlantis, e Carlo Fratta Pasini, scupoloso presidente della popolare di Verona.
Viganò taglia i costi e dà sempre più fastidio: «La Direzione dei Servizi Tecnici era quella più compromessa - prosegue -, da evidenti situazioni di corruzione: i lavori affidati sempre alle stesse ditte, a costi almeno doppi di quelli praticati fuori del Vaticano». La lista dei tagli è infinita, sempre documentata al Papa: «I costi dei lavori sono stati quasi dimezzati». Insomma Viganò taglia del 50% medio ogni lavoro nel piccolo Stato. Un caso su tutti? «Il presepe di piazza S. Pietro del 2009 era costato 550.000 euro, quello del 2010 300 mila euro». E anche il bilancio ne guadagna passando dal passivo -7,8 milioni a un attivo di oltre 34 in dodici mesi. Ma l’opera viene «spesso apertamente contrastata, a volte chiaramente boicottata». Tanto che passano pochi mesi e parte «una campagna stampa contro di me e azioni per screditarmi presso i superiori, per impedire la mia successione al cardinale presidente Lajolo, tanto che ormai è stata data per scontata la mia fine». Nel mirino di Viganò degli articoli ritenuti diffamatori usciti su Il Giornale che sarebbero stati confezionati ad hoc per delegittimarlo. Articoli non riconosciuti dal vaticanista del quotidiano dell’epoca, Andrea Tornielli. Articoli non firmati ma Alessandro Sallusti, il direttore, respinge che si tratti di una manovra denigratoria: “Avevamo all’interno del Vaticano un insider che scriveva per noi». Quegli articoli sarebbero uno degli strumenti della congiura denunciata dal monsignore. Nel carteggio, Viganò indica anche i nomi e cognomi dei congiurati. Monsignori e laici che avrebbero tramato per interrompere la pulizia su appalti e forniture. Tra questi Viganò indica anche un nome ormai noto alle cronache, il giovanissimo Marco Simeon, amico del cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone, direttore dei rapporti istituzionali della Rai, consigliere in una fondazione in Vaticano. Simeon batte ogni record in una carriera folgorante: da Genova viene proiettato da giovanissimo all’ombra di Cesare Geronzi prima in Capitalia poi in Mediobanca, tanto da diventare uno dei pontieri da Santa Sede e istituzioni italiane. Non da ultimo persino al professor Mario Monti - ricorda il nostro vicedirettore Franco Bechis durante la puntata - viene raccomandato per incarichi nell’attuale governo. Simeon smentisce, Viganò rimane vittima dell’antico detto «promoveatur ut amoveatur» ed è diplomatico a Washington ma la storia - è questa l’impressione - è solo all’inizio.
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