domenica 8 luglio 2012

Regione, Lombardo lo nomina lui non può accettare: è in carcere. - Emanuele Lauria


Regione, Lombardo lo nomina  lui non può accettare: è in carcere
Il commercialista era stato designato a Sicilia e Servizi.

LA NOMINA numero 101 è risultata indigesta a Raffaele Lombardo: il designato era già in carcere da qualche giorno. L'ultima, incredibile, storia del poltronificio Regione riguarda Sicilia e servizi, una delle società più ricche dell'universo parallelo di Palazzo d'Orleans, protagonista negli anni scorsi di appalti milionari e assunzioni politico-clientelari all'ombra del business dell'informatizzazione. Martedì scorso si è riunita l'assemblea dei soci, per eleggere il presidente del collegio dei sindaci che era già stato indicato dal governo: Eugenio Trafficante, commercialista di Burgio, provincia di Agrigento. Su di lui era caduta la scelta di Lombardo e l'assemblea ha solo ratificato la nomina, all'interno di una lista di cinque professionisti (tre effettivi e un supplente) presentata assieme al socio privato, che aveva indicato il proprio componente in Massimo Porfiri. Quello che nessuno sapeva, al momento di votare il nuovo collegio sindacale, era l'impossibilità del designato
di accettare l'incarico. Per un semplice motivo: Trafficante era, dal venerdì precedente, recluso nel carcere di Sciacca. Colpito da un provvedimento cautelare nell'ambito di un'inchiesta condotta dalla procura della Repubblica di Roma. L'accusa è quella di stalking: il commercialista era da tempo destinatario di una misura interdittiva, il divieto di avvicinamento a una donna, ma l'avrebbe violata. Per questa ragione è stato arrestato dai carabinieri, che hanno eseguito un ordine di custodia cautelare della Procura. I legali hanno inoltrato istanza di scarcerazione.
Trafficante, 61 anni, negli anni '80 aveva fatto parte della giunta comunale di Sciacca, su designazione del partito repubblicano, e più recentemente è stato assessore comunale a Burgio. Durante questa esperienza, nel 2005, è stato vittima di un attentato: l'incendio doloso del portone della sua abitazione.
L'episodio ha avuto successivamente risalto nell'ambito del processo antimafia "Scacco Matto". L'attentato è stato ricostruito come un gesto vendicativo da parte di uno degli imputati del processo e ascrivibile a episodi di vita personale di Trafficante. Il professionista ha uno studio a Burgio e uno a Sciacca.
Com'è possibile che al timone di una spa pubblica sia stato indicato e poi eletto un commercialista già in carcere? Il commissario liquidatore di Sicilia eservizi, Antonio Vitale, non se lo spiega: "Guardi, io non sapevo proprio dell'arresto di Trafficante: sto apprendendo da lei la notizia. E nessuno, martedì, era a conoscenza di questo fatto. La cinquina con i nomi dei nuovi sindaci della società era stata depositata sette giorni prima l'assemblea dei soci. Evidentemente, al momento dell'indicazione da parte della proprietà, Trafficante non era ancora stato arrestato.
Ma è indubbio  -  prosegue Vitale  -  che qualcuno avrebbe dovuto comunicarci in tempo utile che il professionista designato era stato colpito da un provvedimento restrittivo. Faremo gli approfondimenti dovuti ". Secondo il commissario, l'arresto di Trafficante comporta la sospensione dalla carica di presidente del collegio sindacale: "Il reato di cui è accusato poco ha a che fare con l'attività di revisore dei conti: l'eventuale revoca è una questione di opportunità che devono valutare i soci ". Ma c'è chi sostiene che Trafficante sarebbe già decaduto per legge e che l'assemblea ha sostanzialmente eletto un ineleggibile. Di certo, si macchia di un "incidente" dai contorni paradossali la marcia di Lombardo costellata da nomine: da quando ha annunciato le dimissioni, a fine aprile, ne ha fatte 101. Questa però, forse, non vale.



http://palermo.repubblica.it/cronaca/2012/07/08/news/regione_lombardo_lo_nomina_lui_non_pu_accettare_in_carcere-38727946/

Gli invisibili e gli intoccabili ecco i convitati di pietra del G8. - Carlo Bonini


Gli invisibili e gli intoccabili ecco i convitati di pietra del G8


Politici e dirigenti delle forze dell'ordine lasciati fuori dall'inchiesta. Dall'allora capo della polizia Gianni De Gennaro al vicepremier Fini, passando per il ministro dell'interno Scajola. E i 400 poliziotti che fecero irruzione sono ancora oggi ignoti.

ROMA - Il processo è chiuso. Ma il giorno dopo, le parole dell'avvocato Rinaldo Romanelli, difensore del comandante del VII Nucleo Mobile Vincenzo Canterini, hanno il lampo della provocazione. "Se dovessimo ragionare da storici, ma con la logica della sentenza della Corte di appello, direi che, a spanne, alla condanna mancano almeno 500 persone". È un'iperbole, appunto. Che tuttavia tocca il nervo scoperto di questa storia: i suoi convitati di pietra. Uomini degli apparati ed ex ministri della Repubblica di cui, come in certe foto di gruppo ritoccate, è scomparsa la silhouette.

In 11 anni, Claudio Scajola, in quei giorni dell'estate 2001 ministro dell'Interno, non ha mai ritenuto opportuno dover chiarire o riferire quali indicazioni politiche aveva fornito al capo della Polizia Gianni De Gennaro. Quali comunicazioni ebbe con lui la notte della Diaz e nei giorni successivi. Perché non ne chiese le dimissioni o perché non gli furono mai offerte. 

Né è stato mai di alcun aiuto lo stesso De Gennaro, oggi sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e già capo del Dis, il vertice della nostra intelligence. In quel luglio del 2001, intervistato da Enrico Mentana, all'epoca direttore del Tg5, dice: "La Diaz era una semplice operazione di identificazione che si è trasformata in un'azione di ordine pubblico perché gli agenti sono stati attaccati. Se ci sono stati eccessi da parte di singoli saranno verificati. Comunque non ci sono stati errori di valutazione o di comportamento collettivi". 

Nelle parole dell'allora capo della Polizia non c'è una sola circostanza vera, o anche soltanto verosimile, come il processo ha accertato. Ma, da subito, le sue parole definiscono il perimetro entro cui, per anni, l'intera catena di comando di quella notte comincia il suo lavoro di ostruzione alla ricerca della verità.

De Gennaro, evidentemente, scommette su un'inchiesta penale destinata nelle sue previsioni a non andare da nessuna parte. Anche perché il Parlamento decide di ritirarsi in buon ordine rinunciando a un'indagine indipendente, e soprattutto perché l'appoggio del governo è ventre a terra. Non fosse altro perché il disastro del G8 crea un legame malato e indissolubile tra chi, di quei giorni, ha avuto la responsabilità politica e chi quella tecnica e, dunque, dalla verità può solo ottenere un danno. 

Del disastro genovese nessuno sembra portare la paternità. Non De Gennaro, appunto. Non Scajola. Non il ministro della giustizia Roberto Castelli, il solo ad aver visitato la prigione di Bolzaneto nei giorni del G8 senza avere la percezione del lager in cui era stata trasformata. Non il vicepremier Gianfranco Fini, che pure ha ritenuto di essere presente nella sala operativa della questura di Genova non si capisce a quale titolo e con quale utilità. Accompagnato dall'allora maresciallo dei carabinieri e futuro deputato di An Filippo Ascierto.

Anche Arnaldo La Barbera e Ansoino Andreassi, rispettivamente capo dell'Ucigos e vicecapo della Polizia e dunque vertice tecnico-operativo della catena di comando presente a Genova, sembrano, almeno all'inizio, un problema risolto. La Barbera, allontanato dall'Ucigos, viene nominato vicedirettore del Cesis. Andreassi transita al Sisde come numero due del generale Mori. Così come un problema che viene presto risolto è Vincenzo Canterini, il comandante del VII Nucleo, premiato con una ricca sinecura in Romania quale alto rappresentante dell'Interpol. Finché la tela si straccia.

L'inchiesta penale afferra i primi bandoli della matassa e la morte di Arnaldo La Barbera (2002) convince tutti i protagonisti di quella notte che è bene sfilarsi e anche rapidamente da quel disastro. Ansoino Andreassi che, nei giorni successivi alla Diaz, ha arringato gli uomini del VII nucleo nella caserma di Castro Pretorio rassicurandoli che "la polizia italiana non si farà processare", diventa teste di accusa. 

Accredita la circostanza di essere stato "commissariato" da La Barbera (un morto che non può difendersi) e di aver espresso il suo dissenso nella riunione in questura che precedette l'irruzione nella scuola. Salvo, inspiegabilmente, non chiarire perché quel dissenso, a maggior ragione dopo gli esiti disastrosi di quella notte, non venne mai esplicitato nei giorni e nelle settimane successive. Altrettanto rapidamente si sfila e diventa teste di accusa il vicequestore Lorenzo Murgolo, che, quella notte, è il delegato dell'allora questore Francesco Colucci di fronte alla Diaz. Anche lui armeggia con Gratteri e Luperi intorno al sacchetto con le molotov portate all'interno della scuola. Ma ha più fortuna dei suoi colleghi. Il processo non lo coinvolge e la sua carriera prosegue nel Sismi di Nicolò Pollari.

Sulla notte della Diaz, negli apparati si consuma una resa dei conti che l'autorità politica finge di non vedere o che, se vede, ignora. Tra il luglio del 2001 e il maggio del 2010 si succedono al Viminale quattro ministri dell'Interno: Claudio Scajola, Giuseppe Pisanu, Giuliano Amato, Roberto Maroni. Non uno di loro risulta abbia imposto o anche solo sollecitato che la Polizia consegnasse alla magistratura genovese l'identità dei 400 poliziotti che fecero irruzione in quella scuola e che, ancora oggi, restano incredibilmente degli incappucciati. 
 

http://www.repubblica.it/politica/2012/07/07/news/gli_invisibili_e_gli_intoccabili_ecco_i_convitati_di_pietra_del_g8-38669109/?ref=HREC1-9

Ruby, l’agente delle Olgettine: “Berlusconi sapeva la sua età”. - Davide Vecchi




Parla il manager di Macrì, Noemi, Guerra e Polanco: “Il presidente le paga per il silenzio, è una farsa”. E aggiunge: "So e conosco ciò di cui sto parlando, l’imbroglio c’è eccome: era nota la minore età sia della ragazza marocchina sia della giovane di Casoria".

“Sinceramente di destra, naturalmente berlusconiano, ma decisamente indignato da come è finito il processo Ruby”. Francesco Chiesa Soprani ci manda una mail che è un grido di rabbia: domenica ha letto l’articolo del Giornale “Fine dell’imbroglio” e, dice, ne è rimasto indignato. Di come ha descritto il processo Ruby? “Certo, non prendiamoci in giro: la fine dell’imbroglio è soltanto l’abile manovra dei legali degli imputati. So e conosco ciò di cui sto parlando, l’imbroglio c’è eccome: era nota la minore età sia di Ruby sia di Noemi. Sono riusciti a comprare il silenzio delle ragazze. Tutto a posto, ma io a passare per fesso non ci sto. Fare sesso a 70 anni sì, ma raccontare la storiella del Burlesque mi sembra eccessivo. Ma gli italiani non si ribellano?”.
Se non arrivasse da una delle “colonne” di Vallettopoli, lo sfogo finirebbe nel cestino. Invece, Soprani l’ambiente del Bunga Bunga non solo lo conosce, ma ha involontariamente contribuito a costruirlo. Q!uarantatré anni compiuti ad aprile, da 12 manager di quasi tutte le ragazze passate per le residenze (e i guai giudiziari) dell’ex premier. Nadia MacrìNoemi Letizia, Barbara GuerraMaristelle Garcia Polanco e molte altre olgettine. Amico di Fabrizio CoronaLele Mora ed Emilio Fede, selezionatore delle meteorine del Tg4. Finito anche ai domiciliari per Vallettopoli nel 2007 per induzione e sfruttamento della prostituzione e “poi assolto”.
Perché vuole parlare?
Non voglio parlare, vi ho mandato una mail di protesta, volete approfondire e sono disponibile a farlo. Quelli del Giornale non sanno nulla di ciò che hanno scritto, io sì. Il mio è uno sfogo, non mi va che passi tutto come nulla fosse. Fede immagino abbia ricevuto una buonuscita importante, Berlusconi sicuro si ricandida e magari vince con qualche idea come quella di tornare alla lira, Corona è in giro e si diverte, Mora esce dal carcere e ha riserve di denaro garantite. Insomma, finisce tutto nel nulla, come sempre in Italia. La giustizia è diventata quasi effimera, inesistente.
Cominciamo da Ruby. Berlusconi conosceva la sua età?Sì. Ho l’ufficio di fronte a quello di Mora dal 2004. Una sera trovai Fede, in attesa con la scorta, e andai a salutarlo: volevo conoscere la ragazza bella e prosperosa che era con lui, Ruby. Il direttore, con conferma della stessa ragazza, mi disse che era minorenne e che quindi non poteva avere un agente, ma che Lele e il presidente al compimento della maggiore età l’avrebbero inserita come meteorina. Capii che era un modo gentile tra addetti ai lavori per chiarirmi che il suo agente era Lele, quindi intoccabile. Per questo dico che la procura sta cercando di accertare ciò che è vero perché io l’ho sentito di persona.
Lei è stato anche il manager di diverse Olgettine.
Barbara Guerra dal 2002, Polanco dal 2001. Seguite fin dall’inizio. Nel 2009 la Endemol mi supplicava, tramite la responsabile casting dell’epoca, di non mandare più Barbara Guerra alle selezioni perché considerata inadeguata. Tempo dopo è inserita nel cast della Fattoria, dopo aver partecipato alle fantomatiche cene dell’allora premier e in concomitanza dell’acquisto di Endemol da parte di Mediaset. Così come Polanco. Tempo fa mi disse che ormai la manteneva il presidente in virtù del suo silenzio, che l’avrebbe fatta lavorare, che l’aveva sistemata. Quindi va bene così. Siamo ancora amici. L’ultima volta che l’ho vista mi ha detto: “Mi mantiene il presidente, sono innamorata e non ho più bisogno di nulla”. Così Noemi.
La ragazza di Casoria.
Sì, lei. L’ho seguita molto. Il padre mi disse di curarne l’immagine puntualizzando che dei soldi non gliene fregava nulla: “Siamo a posto così, chi doveva intervenire ci ha sistemato”. Lei stessa mi raccontò di aver avuto rapporti intimi con Berlusconi. In due episodi. Uno la sera del 31 dicembre 2008 a villa Certosa, lei era ancora minorenne e mi fu confermato anche da un’altra ospite alla festa. Il secondo nei mesi successivi, me ne parlò Noemi in auto di ritorno da una serata. Anche in quel caso le fu promesso che da maggiorenne avrebbe lavorato come meteorina.
Ai magistrati ha mai raccontato queste cose?
Mi chiamarono prima che scoppiasse tutto come persona informata sui fatti. Quindi avevo ben poco da dire all’epoca. Oggi sono disponibile, ma non mi ritengo un testimone piuttosto un italiano indignato. Non ho mai cercato notorietà, altrimenti non avrei aspettato fino a oggi. Polanco mi ha detto che le ragazze sono pagate per non dire la verità. Per loro magari è normale fare sesso a pagamento, ma io mi aspetto giustizia e, comunque, di non essere preso in giro.
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Mappato Dna di un feto utilizzando solo il sangue della madre.


Il nuovo metodo apre le porte alla diagnosi prenatale di malattie genetiche senza esami invasivi.
ROMA
Nuovi passi avanti nella diagnostica prenatale. I ricercatori della Stanford University School of Medicine hanno mappato per la prima volta il genoma di un bebè ancora nella pancia della mamma, usando solo un campione di sangue materno. Dunque senza alcun contributo del papà. E senza analisi invasive e rischiose.

I risultati del nuovo studio, descritto su Nature, sono legati alla ricerca che è stata condotta solo un mese fa presso l'Università di Washington e che ha usato una tecnica - già sviluppata a Stanford - per sequenziare il genoma del feto utilizzando un campione di sangue dalla madre, oltre a campioni di Dna materni e paterni.

L'intero genoma mappato nel nuovo studio di Stanford tuttavia, non ha richiesto il contributo del Dna del padre, «un vantaggio significativo quando la paternità di un bambino non può essere conosciuta - rilevano gli autori - o il padre potrebbe non essere disponibile, o non vuole fornire un campione».

Insomma, questa nuova tecnica fa fare ai test genetici del feto un passo avanti verso l'uso clinico di routine. «Siamo interessati a individuare condizioni che possono essere trattate prima della nascita o subito dopo» ha spiegato Stephen Quake, autore della ricerca. «Senza queste diagnosi, neonati con malattie metaboliche curabili o disturbi del sistema immunitario soffriranno finché i sintomi diventano evidenti» dice lo studioso. Convinto che, poiché il costo di questa tecnologia continuerà a scendere, diventerà sempre più comune diagnosticare malattie genetiche entro il primo trimestre di gravidanza.

I ricercatori hanno mappato il genoma fetale usando materiale genetico circolante nel sangue materno, dunque azzerando il ricorso a tecniche invasive, che espongono a rischi per la salute di mamma e bebè.

Nel nuovo studio, i ricercatori sono stati in grado di utilizzare le sequenze di interi genomi e hanno potuto scoprire che un feto aveva ereditato la sindrome di DiGeorge, una malattia rara caratterizzata da una serie di diverse malformazioni, mappando l'intero genoma prenatale o l'esoma, la porzione del genoma che contiene le istruzioni per fabbricare le proteine. Cosa che può permettere di eseguire degli screening per individuare le varianti genetiche associate ad alcune patologie.

Corruzione: Cgia, grandi opere ci costano 90 mld in piu' (+40%).

Corruzione: Cgia, grandi opere ci costano 90 mld in piu (+40%)
(AGI) - Roma, 7 lug. - Se le dichiarazioni rilasciate nei giorni scorsi dalla Corte dei Conti corrispondono alla verita', le grandi opere pubbliche che saranno realizzate nei prossimi anni costeranno agli italiani oltre 90 miliardi di euro in piu' (precisamente 93,6)
A queste conclusioni e' giunta la Cgia di Mestre che ha stimato gli effetti della corruzione che, secondo quanto ha denunciato qualche giorno fa il Procuratore generale della Corte dei Conti Salvatore Nottola, farebbero lievitare i costi delle grandi opere pubbliche del 40%. 
Alla luce di cio', i tecnici della Cgia hanno recuperato il programma delle infrastrutture strategiche 2013-2015, redatto dal Governo Monti qualche mese fa, successivamente hanno calcolato la spesa complessiva che l'Esecutivo ha previsto di investire (233,9 miliardi di euro) ed infine hanno aggiunto il rincaro del 40% dovuto agli effetti della corruzione, cosi' come denunciato dalla magistratura contabile. Il risultato ottenuto e' "allarmante": sempreche' siano portate a termine, queste grandi opere costeranno al sistema Paese 93,6 miliardi di euro in piu' che equivalgono a quasi 6 punti di Pil. 
Su ciascun cittadino italiano questi effetti comporteranno un costo aggiuntivo di 1.543 euro. 
"Generalizzare e' sempre sbagliato - esordisce il segretario della Cgia di Mestre Giuseppe Bortolussi - tuttavia molte inchieste giudiziarie hanno messo in luce che le infiltrazioni malavitose negli appalti e nella realizzazione delle grandi opere pubbliche del Paese hanno fatto lievitare i costi in maniera ingiustificata. Cio' ha dato luogo ha forti distorsioni del mercato, minando le piu' elementari norme di democrazia economica. Tuttavia - prosegue Bortolussi - la corruzione e' una piaga sociale ed economica che non riguarda solo l'Italia. Secondo un'indagine realizzata nel settembre 2011 da Eurobarometro in tutti i 27 Paesi che costituiscono l'Ue, il 74% degli europei ha dichiarato che la corruzione e' un grave problema, mentre il 47% ha sostenuto che il livello di corruzione del proprio Paese e' aumentato negli ultimi 3 anni".
  Comunque sia rimane un fatto, prosegue la Cgi, anche se le cause non fossero riconducibili alla corruzione ed in generale ad altre forme di illegalita', le nostre opere pubbliche costano di piu' che negli altri Paesi. Secondo un'indagine condotta nel 2008 dall'Autorita' per la vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture (Avcp), in Italia i costi medi per un chilometro di autostrada sono piu' che doppi rispetto alla Spagna. Se, invece, ci rifacciamo ad uno studio di qualche anno fa di Rete Ferroviaria Italiana (RFI - Gruppo Ferrovie dello Stato), si evince che in Italia un chilometro di rete ferroviaria costa il triplo di quanto si spende in Francia o in Spagna. "Certo - conclude Bortolussi - questi sovra costi sono in parte riconducibili a modalita' di affidamento, prescrizioni ambientali e caratteristiche orografiche del nostro territorio che non si riscontrano negli altri Paesi.
  Tuttavia, un dubbio rimane: perche' spendiamo molto di piu' degli altri?" (AGI) .


http://www.agi.it/in-primo-piano/notizie/201207071237-ipp-rt10046-corruzione_cgia_grandi_opere_ci_costano_90_mld_in_piu_40  

Como, dal prete quasi 1.500 sms in tre anni inviati alla ragazzina. - Anna Campaniello


Don Marco Mangiacasale

Il sacerdote si sedeva vicino alla 13enne con una coperta sulla ginocchia e poi la toccava.

COMO - Cinque capi d’imputazione. Altrettante ragazzine, tutte minorenni che frequentavano l’oratorio, vittime di violenza sessuale continuata. La Procura di Como ha chiuso le indagini su don Marco Mangiacasale, l’ex economo della Diocesi ed ex parroco di San Giuliano accusato di aver avuto «relazioni amorose» con almeno cinque adolescenti. Nei telefonini del sacerdote gli inquirenti hanno trovato quasi 1.500 messaggi sms inviati a una delle ragazzine, oltre a centinaia di mail e immagini inequivocabili.
La scorsa settimana, il pubblico ministero Simona De Salvo ha inviato alla difesa la notifica della chiusura delle indagini. I legali Renato Papa e Mario Zanchetti hanno tre settimane di tempo per presentare eventuali controdeduzioni prima della richiesta, quasi scontata, di rinvio a giudizio. Il sacerdote è stato arrestato il 7 marzo scorso. Come emerso nei giorni successivi, sono cinque le ragazzine che hanno subito violenze sessuali. La più giovane ha solo 12 anni.
L’episodio più eclatante è quello dell’adolescente che per prima ha trovato la forza di denunciare la situazione dopo un incubo iniziato nel 2008, quando aveva 13 anni, e proseguito fino all’arresto di don Marco Mangiacasale. A lei l’ex parroco ha inviato in tre anni quasi 1.500 sms che sarebbero, secondo gli inquirenti, del tutto analoghi a quelli di un adolescente innamorato.
In molti casi, il religioso si sarebbe seduto accanto alla ragazzina coprendosi con una coperta per poi toccare le parti intime della vittima. I contatti sarebbero stati poi via via più intimi, ma senza arrivare a rapporti sessuali completi. Nel fascicolo della Procura ci sono poi le testimonianze di altre due 13enni, la prima palpeggiata al seno più volte durante una vacanza in Piemonte e l’altra vittima di abusi continuati, in una sorta di morbosa relazione amorosa. Episodi di violenza sono stati poi denunciati da una 12enne e da una 15enne. Nel primo interrogatorio in carcere, dopo l’arresto, don Marco Mangiacasale ha già sostanzialmente ammesso tutte le responsabilità, chiedendo scusa alle vittime e alle loro famiglie. Tramite i suoi legali ha anche fatto sapere di voler risarcire le giovanissime.

sabato 7 luglio 2012

DA SCIENZA DELLE FINANZE,1908,FRANCESCO SAVERIO NITTI, PRESIDENTE DEL CONSIGLIO.




LE ENTRATE DEL REGNO ALL'UNITA' D'italia.

Venivano dalla madre Grecia e portarono la civiltà, l'organizzazione, il commercio, l'arte, le scienze, il pensiero.

Quando il Nord dell'Italia viveva ancora nella barbarie e Roma cominciava appena ad uscirne, una serie di città greche sparse lungo le coste dell'Italia meridi
onale e della Sicilia avevano già raggiunto u...n grande livello di civiltà e di prosperità.

A partire dagli insediamenti dei Calcidesi a Pithekuossai – l'odierna Ischia – e a Cuma, nella prima metà del secolo VIII a. C., molte altre città greche sorsero nel Sud dell'Italia: Sibari, Napoli, Messina, Selinunte, Agrigento, Gela, Megara-Iblea, Crotone, Paestum, Taranto, Metaponto, Locri, Reggio, Taormina, Catania, Siracusa e costituirono la Magna Grecia.

Esse, come la madre patria, furono "poleis", ciascuna indipendente.

Tutto in quelle città fu greco: la religione, la cultura, i templi, i dipinti, le statue, il modo di abitare, l'acropoli, l'agorà, il calendario, il sistema di pesi e misure.

Cinque secoli di storia straordinaria che costituirono un modello perenne di civiltà che s'irradiò pian piano nel resto della Penisola e in Europa. E fu proprio quella parte della Magna Grecia – oggi Calabria – a regalare il nome storico di "Italia" e porsi, insieme a tutte le altre città come luogo d'incontro tra Oriente ed Occidente.

Era nato un "nuovo uomo". Era nata una nuova grande civiltà. Era nata nel Sud dell'Italia.

Vennero da lontano, anzi da molto lontano i padri fondatori di quell'incredibile "fabbrica politica del Sud".

I loro antenati Vichinghi partirono dalla Scandinavia, "regno di Odino e dei mostruosi Kroll", e scesero verso ovest fermandosi sulle coste settentrionali della Francia che assunse il nome di Normandia.

Quei barbari, rozzi e incolti, nella loro discesa verso Ovest e verso Sud, seppero però, in breve tempo, accettare il credo cristiano, sostituire il primitivo linguaggio con la lingua d'oïl di origine latina e, in poche generazioni, formarono una perfetta società feudale con i loro cavalieri e i loro nobili
I Normanni, dunque, ormai cavalieri, pragmatici ed animati da ideali, scesero nelle nostre terre, cavalcando per pianure e città, addobbati con i loro elmi, i loro spadoni, le loro calzamaglie di fil di ferro, istillando pian piano la loro straordinaria capacità a raggruppare e organizzare popoli e terre, affari e ricchezze, rapporti e modi di vita, in qualcosa che essi chiamarono regno e che noi, oggi, chiamiamo stato.
E saranno gli Altavilla ad avviare quella "fabbrica del Regno"che con alterne vicende durerà molti secoli. Così, Ruggero I cominciò a gettare le fondamenta di uno stato plurietnico e poliglotto, nel quale Normanni e Greci, Saraceni e Latini avrebbero, sotto un controllo centralizzato, conservato le proprie fedi e tradizioni culturali, in perfetta armonia e reciproco vantaggio.

Il "Regno di Napoli" o "delle Due Sicilie" o "Sud" che dir si voglia era diventato nei secoli indipendente da chi lo governava, un vitalissimo organismo geopolitico.
Il Sud disponeva oramai di una sostanziale autonomia, di un'identità forte, fatta di popolazioni amalgamate, di un'economia agricola e marinara, di un vernacolo "consonantico" che era la lingua mediterranea, di tradizioni e costumi.
E sarà proprio Ruggero II, incoronato re nella notte di Natale del 1130, con la sua saggezza e determinazione, a compiere il passo qualitativo più importante nell'opera di edificazione del Regno e, cioè, la definizione di quelle norme valide per tutte le regioni del Sud (Assise di Ariano).

I Normanni, dunque, operarono la "reductio ad unum" sul modello greco-romano, di regioni poste all'incrocio di tre specchi del Mediterraneo. La capacità in altre parole, di edificare un regno sottratto alla parcellizzazione e alla dispersione dei poteri, tipica dell'età feudale, un regno via via più strutturato, un organismo politico con i suoi popoli, le sue lingue destinate a far "koinè", le sue città ricche di storia e d'arte, la sua economia mista tra agricola e mercantile e, ovviamente, le sue leggi e istituzioni.
Un regno, insomma, sganciato dal destino dei suoi re e governatori. Questi passano, il regno resta.

Venne dalla Spagna il giovane Carlo III di Borbone, figlio di Filippo V e di Elisabetta Farnese, con l'incarico di ricomporre il Sud, il Regno delle Due Sicilie.

E così, nel luglio del 1734 iniziò l'avventura dei Borbone del Sud. Un'avventura durata 126 anni, fino al 1860, che creò uno stato indipendente con le sue leggi, la sua economia, il suo esercito, le sue tradizioni, la sua bandiera, la sua dignità.

Carlo – "il re perpetuo" – fu uno dei più saggi, autorevoli ed illuminati sovrani d'Europa. Si circondò di uomini illustri ed esperti, a cominciare da Bernardo Tanucci, sostenne la cultura, migliorò le leggi, costruì grandi opere come la Reggia di Caserta dotata di un acquedotto di ventisette miglia e il Teatro San Carlo, massimo d'Europa. Si avviarono gli scavi di Ercolano e Pompei, si costruì l'Albergo dei Poveri, commissionato a Ferdinando Fuga, dove furono accolti gli indigenti di tutto il Regno e che rimane oggi il più grande edificio del settecento esistente. Commissionò la stesura di un codice ad autorevoli giuristi, fondò nelle province scuole ed accademie, tutelò le arti e il commercio, incentivò l'agricoltura ma, soprattutto, limitò i privilegi dei baroni.
Carlo III, dunque, seppe continuare, rafforzandola, quell'identità nazionale iniziata nel 1130, regalando al Sud e a Napoli uno di periodi più splendidi della loro storia, con una definitiva indipendenza ed autonomia che sarebbe continuata , con alterne vicende, con luci e ombre, anche con gli altri sovrani fino al 1860, quando il processo di unità nazionale italiano pose fine a quella straordinaria vicenda storica durata quasi otto secoli.

Vennero dall'ostile Piemonte i liberatori sabaudi, i fratelli d'Italia che, tradendo gli ideali democratici e risorgimentali che pur avevano animato tenaci, convinte e tal volta eroiche minoranze intellettuali, imposero la loro logica di annessione e di ampliamento territoriale.
E fu l'Inferno!

Una feroce guerra civile lunga quasi dieci anni. Migliaia di morti. Migliaia di prigionieri rinchiusi nei lager del Nord Italia. Intere città rase al suolo. Atti di barbarie, come le avvisaglie prenaziste del generale Cialdini. Il saccheggio dell'intera ricchezza di quello che era stato, in assoluto, il più ricco degli stati italiani.
Per Mafia e Camorra, poi, cui fu affidato subito l'ordine pubblico e la gestione del plebiscito, si aprì una nuova epoca: il potere pubblico – nella nascente Italia unita – aveva bisogno "istituzionalmente" dei loro servizi e pagava…pagava bene, come nel caso dei trentaquattro miliardi (a valore di oggi) girati alla Camorra.
Venne, poi, l'emigrazione forzata. Nel solo periodo che va dal 1876 al 1920, circa un milione e ottocentomila meridionali furono costretti ad emigrare in lontane terre, con il loro carico di dolore e di nostalgie.
Ma venne soprattutto l'incomprensione. La demonizzazione del meridionale, la "razza maledetta", "la palla al piede", le teorie razziste, giunte come si sa fino ai giorni nostri.
Ma sia ben chiaro: tutto ciò è potuto accadere anche grazie alle gravi responsabilità di molti meridionali presenti nella politica, nelle istituzioni, nell'economia, nell'informazione, che hanno tradito il loro popolo, svendendo per i propri tornaconti la dignità di milioni di persone. Ignobili figure da relegare nella discarica della storia.

Il Sud, però, dato più volte per spacciato è sempre riuscito a sopravvivere, a rialzarsi anche nei momenti più drammatici della sua lunga vicenda storica.
È rimasto vivo e geloso della propria identità, rigettando spesso inconsciamente, ogni sostanziale forma di adattamento estranea alla sua tradizione.

Una lunga storia quella della nazione meridionale che deve ritornare a guardare al futuro con la consapevolezza di aver avuto un grande passato.
Nuovi uomini, nuove donne, nuove sane energie che debbono oggi unirsi per costruire una "Comunità Politica" del Mezzogiorno, sviluppando un progetto di rinascita e di ricostruzione dell'identità territoriale.
Un esercito delle coscienze motivato e determinato pronto a marciare verso i sentieri delle future generazioni.



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