mercoledì 18 luglio 2012

Trattativa Stato-mafia, i pm indagano sulla villa venduta da Dell’Utri a Berlusconi. - Marco Lillo e Davide Vecchi



Per ordine della Procura di Palermo, la Guardia di Finanza acquisisce il rogito che sancisce il passaggio di proprietà del lussuoso immobile sul lago di Como. I sospetti cadono sulla data della cessione, alla vigilia della sentenza di Cassazione sull'accusa di concorso esterno, e la cifra, quasi 21 milioni. L'ex premier ne aveva già pagati oltre dieci all'ex braccio destro "per un aiuto nella ristrutturazione"

La Procura di Palermo sta indagando sull’ultimo affare immobiliare di Silvio Berlusconiperfezionato, con tempismo sospetto, proprio il giorno prima della sentenza della Cassazione sulla condanna a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell’Utri. I pm Antonio IngroiaAntonino Di Matteo e Lia Sava, che indagano sul ruolo che avrebbe avuto Marcello Dell’Utri nella trattativa con la mafia nei primi anni Novanta, vogliono vederci chiaro sul passaggio della villa sul lago da Marcello all’amico Silvio. Ben prima che i giornali pubblicassero l’avvenuta vendita come se fosse solo gossip (il Giornale si è distinto con articoli nei quali si svelava una vera ossessione del Cavaliere per una villa sul lago finalmente individuata, per fortuita coincidenza, proprio nella casa del suo sodale Dell’Utri) i pm si interessavano alla transazione immobiliare da tutt’altra prospettiva.
Ieri, gli uomini del nucleo valutario della Guardia di finanza di Palermo, coordinati dal maggiore Pietro Vinco, hanno acquisito presso lo studio milanese del notaio Arrigo Roveda l’atto di acquisto della villa di Dell’Utri da parte di Berlusconi. Appena due settimane dopo la stipula del rogito, i magistrati che indagano sulla trattativa Stato-mafia hanno potuto leggere le quaranta pagine dell’atto. Il Fatto Quotidiano è in possesso del voluminoso documento di vendita ed è in grado di rivelarne i particolari, a partire dal prezzo abnorme: 20 milioni 970 mila euro.
Certo, la villa sul lago di Como è una residenza da sogno. Quattro edifici con 40 stanze complessive, campo da tennis, piscina, due darsene, un parco da tremila ettari. Ma l’assegno che Berlusconi ha staccato l’ 8 marzo per comprarla dal senatore del Pdl appare comunque esagerato. Soprattutto se si pensa che la perizia più recente (nel 2004) l’aveva stimata 9, 3 milioni; che i periti non erano pregiudizialmente ostili essendo tecnici del Credito cooperativo fiorentino guidato dall’altro amico Denis Verdini e, inoltre, che l’ex premier nel 2011 aveva già versato 9, 5 milioni sui conti correnti di Dell’Utri, in parte usati per ristrutturare la villa.
A insospettire i magistrati sono una serie di circostanze. Innanzitutto le somme: Berlusconi ha versato al senatore Dell’Utri, sotto processo con l’accusa di essere stato il mediatore o l’ambasciatore della mafia presso l’impero Fininvest, una somma che supera i 30 milioni di euro. Il 22 maggio 2008 dal Monte Paschi arriva il primo milione e mezzo. Nel 2011 il 25 febbraio dal conto Banca Intesa piove un altro milione sul senatore che l’ 11 marzo incassa altri 7 milioni. Dell’Utri, intervistato dal Corriere della Sera, giustifica così tanta benevolenza: “Sono un principe decaduto, ristrutturo e poi vendo la villa”. Ma gli investigatori ieri hanno scoperto che nell’atto non si fa alcun riferimento a quei versamenti, che quindi si sommano ai quasi 21 milioni pagati due settimane fa.
Il giorno del rogito dal conto corrente della Banca popolare di Sondrio partono cinque bonifici. Quattro per sanare i debiti del senatore ed estinguere le ipoteche sulla villa: tre milioni vanno al Credito cooperativo fiorentino e 2, 5 alla Abbey National. Il quinto bonifico va sul conto di Miranda Anna Ratti, moglie di Dell’Utri, che riceve il versamento più imponente: 15, 7 milioni. In tutto sono 21. Un’iniezione di liquidità provvidenziale per le finanze dei Dell’Utri e un esborso improvviso e rilevante anche per un miliardario in euro come Berlusconi che arriva in una data molto particolare: l’ 8 marzo 2012, esattamente il giorno prima della sentenza della Corte di Cassazione sulla condanna emessa in appello a sette anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di Dell’Utri (dal giorno dopo il senatore fu irreperibile per 48 ore, chi dice all’estero).
Un tempismo che ha insospettito i pm di Palermo, titolari dell’inchiesta che vede il senatore indagato per minaccia a corpo dello Stato. Il giorno dopo l’atto, il 9 marzo, Delll’Utri poteva essere condannato a sette anni di galera con due conseguenze non indifferenti: la perdita della libertà e il rischio dell’apertura di un procedimento di misure di prevenzione reali con il possibile sequestro delle proprietà immobiliari, cioè la villa: unico bene intestato al senatore. Le cose, grazie al sostituto procuratore generale Francesco Iacoviello e al collegio presieduto da Aldo Grassi, hanno preso un’altra piega: Dell’Utri si è visto annullare la condanna con rinvio e vede a portata di mano la prescrizione nel giugno 2014, ma l’ 8 marzo questo nessuno poteva saperlo.
Dal notaio Roveda a firmare l’atto ci sono la moglie di Dell’Utri e Salvatore Sciascia, nominato appena due giorni prima procuratore speciale di Berlusconi. Sciascia è un uomo di fiducia dell’ex premier. Senatore del Pdl ed ex ragioniere della Fininvest, Sciascia è stato condannato in via definitiva dalla Cassazione a 2 anni e 6 mesi per aver versato tangenti ad alcuni membri della Guardia di finanza così da ottenere verifiche fiscali blande alle società di Berlusconi. L’ 8 marzo Sciascia rispetta la volontà del Cavaliere che nella procura speciale aveva dato mandato di acquistare a un prezzo “non superiore a 21 milioni”. L’amicizia.
Precedenti di questo articolo

Sandro Pertini.



Lui si che era il MIO PRESIDENTE!


https://www.facebook.com/photo.php?fbid=416667508368619&set=a.169672253068147.28641.165188200183219&type=1&theater

Quirinal party. - Marco Travaglio


Giustamente Eugenio Scalfari si è risentito per la sanguinosa calunnia del pm Antonio Ingroia, che dice di perdonargli le inesattezze giuridiche sul caso Napolitano-Mancino in quanto “non è laureato in giurisprudenza”. Ma come, ribatte Scalfari, “mi sono laureato in Giurisprudenza nel 1946 con il voto di 100 e lode”! Ora però quella laurea, risalente peraltro a prima della Costituzione, rischia di diventare un’aggravante. Perché, nella jungla di norme e normette citate da Scalfari a sostegno della sua bizzarra concezione della legge sulle intercettazioni e dell’immunità presidenziale, c’è una sentenza della Consulta che, a suo dire, taglia la testa al toro e sancisce una volta per tutte il “gravissimo illecito” commesso dagli inquirenti di Palermo intercettando, sul telefono di Mancino, due conversazioni con Napolitano: la sentenza n.135 del 24 aprile 2002. Siamo andati a leggerla e abbiamo scoperto un sacco di cosette interessanti.
Intanto, fra i membri di quella Corte, c’era Gustavo Zagrebelsky, editorialista di Repubblica, a cui il Fondatore avrebbe potuto chiedere un aiutino prima dell’incauta citazione e della conseguente figuraccia. Già, perchè la sentenza in questione riguarda il caso di una discoteca di Alba (Cuneo), in cui furono nascoste dagli inquirenti alcune microspie e telecamere per immortalare “i rapporti sessuali tra i clienti e le ballerine dell’esercizio”. Dopodiché “il gestore del locale fu sottoposto ad arresti domiciliari” per “favoreggiamento e sfruttamento della prostituzione”. Ne nacque un’intricata controversia giuridica fra i vari magistrati interessati al caso a proposito di chi dovesse autorizzare le telecamere, visto che la saletta dove si svolgevano i convegni carnali era un “luogo di privata dimora”. Bastava l’autorizzazione del pm, come dice una corrente giurisprudenziale e com’era avvenuto in quel caso; oppure occorreva quella del gip, come ritengono altri giuristi; o ancora le “riprese visive ai fini di indagine in luoghi di privata dimora” vanno “escluse in radice dal principio di inviolabilità del domicilio”, come opinano altri? E, se basta l’ok del pm, non è incostituzionale la legge sulle intercettazioni che garantisce la privacy dei cittadini molto più per intrusioni meno invasive, come i controlli telefonici e ambientali, che per quelle più invasive come le videoriprese?
La Consulta, nella sentenza firmata dal presidente Cesare Ruperto e dal giudice Giovanni Maria Flick, concludeva che la questione di incostituzionalità sollevata dal gip di Alba era “non fondata e veniva rigettata”, a tutto scapito del povero proprietario della discoteca. Abbiamo cercato col lanternino, nelle sei pagine della sentenza, un sia pur minimo accenno alla prerogative del Capo dello Stato invocate da Scalfari, ma purtroppo invano. Anche perchè il contesto della disco, della lap dance e delle cene eleganti con allegri dopocena parrebbe più confacente a un’altra carica dello Stato, sia pur “ex”. E parrebbe escludere, anche qui “in radice”, una sia pur minima attinenza con gli stili di vita di Napolitano e di Mancino (peraltro intercettati al telefono nei rispettivi domicili e non videoripresi in discoteca). Infatti il procuratore Messineo, nella sua costernata replica, fa notare pudicamente che “non sembra pertinente la citazione della sentenza Corte Costituzionale del 24 aprile 2002 n. 135 che non riguarda affatto la materia delle intercettazioni a carico di soggetti tutelati da immunità”. E, per carità di patria, evita di specificare quale materia riguarda. Resta da capire che cosa sia saltato in mente al laureato Scalfari, dottore in Giurisprudenza dal lontano 1946, di infilare fra le fonti giuridiche della sua reprimenda ai pm di Palermo un caso di sesso fra discotecari e ballerine. Ma forse, ancora una volta, vale la domanda che da qualche giorno ripetiamo inascoltati: in quelle due telefonate c’è qualcosa che noi non sappiamo e non dobbiamo sapere?
Ti potrebbero interessare anche

“Gli italiani bombardano l’Afghanistan”. Lo scoop di “E” prima della chiusura. - Thomas Mackinson

afghanistan combattenti_interna nuova


Nell'ultimo numero in edicola, il mensile di Emergency raccoglie la conferma del portavoce del nostro contingente: "Gli Amx vengono impiegati con sgancio di bombe". Quello che non era riuscito al ministro La Russa è stato ottenuto dal "tecnico" Di Paola. Senza dibattito parlamentare.

Coi cacciabombardieri a fare la pace, nessuno ci aveva creduto davvero. Ora arrivano una serie di conferme dirette dagli alti comandi impegnati a Herat che riaccendono le polemiche sui bombardamenti italiani in Afghanistan: si torna a parlare di violazione dell’articolo 11 della Costituzione (L’Italia ripudia la guerra…) e delle regole della democrazia parlamentare. Il governo viene chiamato da qualcuno a riferire in aula, ma la vicenda rischia di passare sotto silenzio. Era questione di tempo.
L’assalto è partito da lontano con l’ex ministro La Russa che per primo aveva incautamente proposto di armare i bombardieri italiani trovandosi davanti una levata di scudi. Cosa che è riuscita invece al ministro “tecnico” della Difesa Giampaolo Di Paola, che a gennaio ha deciso autonomamente di rimuovere completamente i “caveat”, cioè i limiti alle regole di ingaggio dei soldati in missione. E’ il via libera ai bombardamenti aerei del 51esimo stormo dell’Aeronautica militare fino ad allora erano stati impiegati come semplici ricognitori, senza neppure le bombe sotto le ali. Una scelta dall’enorme significato politico ed etico che avrebbe suggerito almeno un passaggio in aula, giusto per verificare che gli italiani l’Afghanistan lo vogliono bombardare davvero. Quella del ministro-ammiraglio fu invece una comunicazione alla commissione Difesa di Camera e Senato, nessun dibattito e nessun voto a ratificare l’uso delle bombe.
Peggio, un ordine del giorno del senatore Pd Marco Perduca impegnava il governo a rimettere al Parlamento la decisione ma è stato respinto svuotando di fatto le prerogative parlamentari. E ora quel vuoto solleva accuse all’indirizzo del governo. Sei mesi dopo, infatti, sono arrivate le prime ammissioni sui bombardamenti tricolore e le prime domande sugli effetti devastanti degli ordigni da 250 chili. L’ultimo a confermarne l’uso è stato il colonnello Francesco Tirino, portavoce del contingente italiano in Afghanistan. Al mensile di Emergency “E” (prossimo alla chiusura) Tirino ha confermato che nelle ultime settimane si sono intensificate le azioni di bombardamento dei quattro Amx dispiegati nella provincia di Farah per piegare la resistenza talebana nei distretti del Gulistan e di Bakwa entro l’autunno.
La domanda di Enrico Piovesana è senza scappatoie: “Colonnello, conferma l’offensiva militare con l’uso di Amx in missioni di bombardamento?”. “I nostri assetti, compresi gli Amx, sono utilizzati al cento per cento della loro capacità di difesa (…) Nell’ambito dell’operazione congiunta ShrimpNet gli Amx vengono impiegati con sgancio di bombe per le attività appena dette o per azioni preventive: ad esempio, le bombe a guida laser sganciate hanno distrutto un’antenna collocata in una zona impervia di montagna e usata dagli insorti per le loro comunicazioni radio”. Ma in zona non ci sono solo tralicci, ripetitori e parabole da colpire e fonti di stampa afghane riferiscono di decine di militari uccisi dal “fuoco amico”… “Non ho notizia di questo, non posso commentare”.
Prima della dichiarazione di Tirino l’impiego di bombe era rimasto un sospetto. Il Sole24Ore aveva avanzato il sospetto citando fonti anonime che poi il generale Luigi Chiapperini, comandante della missione italiana, non ha potuto smentire incalzato dai giornalisti italiani al seguito a Camp Arena, la base Nato di Herat sotto il comando tricolore. Bomba o non bomba che l’Italia fosse in guerra era chiaro da tempo. Lettera22 a colloquio con il generale Fabio Mini non si lascia scappare che il potenziale offensivo dispiegato in elicotteri “è ancora più distruttivo peché gli elicotteri Mangusta possono fare anche più male. Hanno fatto almeno 300 missioni. Proprio qualche settimana fa un collega mi ha parlato di un’operazione con 60 “insorti” uccisi. Non erano Amx ma elicotteri».
A Roma le parole dei colonnelli sono sale su una ferita aperta che pochi vogliono sentire. Prova ad alzare la voce il capogruppo Idv in Commissione Difesa Augusto Di Stanislao: “Ho depositato un’interpellanza urgente affinché il Governo ci spieghi che cosa stiamo facendo esattamente laggiù perché armare gli aerei e tirare bombe dovrebbe aiutare la transizione democratica”.

Tonno Riomare sostenibile nei supermercati: realtà o illusione?




Ieri tra gli scaffali del supermercato ho trovato una confezione di scatolette Riomare con la dicitura “Tonno pescato a canna”. Finalmente! Il colosso italiano del tonno ha deciso di offrire un prodotto sostenibile anche sul mercato italiano, dopo quello tedesco e austriaco. E con tutte le informazioni che Greenpeace chiede da tempo sulla confezione! 

Vuol dire che quando sono i consumatori a chiederlo l’industria può davvero cambiare. Più di 43 mila persone, infatti, hanno firmato la nostra petizione per chiedere  al tonno “che si taglia con un grissino” di muoversi verso metodi di pesca sostenibili.

Oggi i consumatori italiani possono scegliere - insieme al tonno pescato con canna di AsdoMar  - anche un prodotto Riomare che garantisca la salvaguardia delle popolazioni di tonno e tutto l’ecosistema marino. Quell’ecosistema che la pesca industriale eccessiva sta distruggendo fino a farlo diventare un deserto.

Ma Riomare è diventato davvero “responsabile” o è soltanto un’illusione, come quell’isolata confezione al supermercato? I prodotti sostenibili dell’azienda sono purtroppo una minima parte: Riomare non si è ancora impegnato a vendere solo tonno pescato in maniera sostenibile.

Greenpeace chiede all’azienda di garantire in tutti i suoi prodotti solo tonno pescato con canna e senza metodi distruttivi come i FAD, così come ha fatto per il 45% della sua produzione.

Riomare ha dimostrato che se vuole può cambiare, ecco perché noi consumatori dobbiamo continuare a chiederglielo. Firma anche tu la petizione.


http://www.greenpeace.org/italy/it/News1/blog/tonno-riomare-sostenibile-nei-supermercati-re/blog/41356/

Sicilia a rischio crac, ma da “Arraffaele” Lombardo piovono nomine last minute. - Giuseppe Pipitone

Raffaele Lombardo


Il presidente, imputato per concorso esterno in associazione mafiosa, ha annunciato le dimissioni per il 31 luglio. Ma negli ultimi mesi ha dato il via libera a un centinaio di nuovi incarichi. Mentre sulla Regione grava l'ombra del default.

All’inizio del suo mandato gli oppositori gli avevano affibbiato l’appellativo di “Arraffaele”, per la presunta capacità di piazzare i suoi fedelissimi nei posti chiave dell’amministrazione siciliana. Adesso che il governo di Raffaele Lombardo volge al termine quell’irriverente soprannome è tornato prepotentemente a circolare negli ambienti della Regione Sicilia
Il governatore imputato per concorso esterno a Cosa Nostra aveva annunciato nell’aprile scorso che si sarebbe dimesso il 31 luglio. Da quell’annuncio i vertici della Regione si sono messi in moto sfornando nuove nomine a cadenza quasi quotidiana. Tra assessoridirigenti, capi di gabinetto, commissari e manager delle Asp i nuovi incarichi assegnati dal governatore dimissionario hanno superato quota cento in meno di tre mesi: decisamente troppi. Soprattutto per un governo a breve scadenza.
A fare scalpore soprattutto la nomina del commercialista agrigentino Eugenio Trafficante come presidente del collegio dei sindaci della Sicilia E-Servizi, la società informatica che fa capo alla Regione. Trafficante però non aveva potuto accettare l’incarico essendo detenuto da qualche giorno per stalking. Qualche polemica aveva creato anche la nomina dell’ex deputato Mpa Tony Rizzotto al vertice di Lavoro Sicilia, una delle tante società del sottogoverno regionale. Rizzotto è stato l’animatore del movimento Chiama la Città, lista civica che sosteneva Alessandro Aricò, il candidato sindaco di Palermo appoggiato da Lombardo. Neanche Rizzotto, però, aveva potuto accettare l’incarico perché era incompatibile con il suo lavoro di dirigente comunale. Al suo posto era stata quindi chiamata la sua compagna, Salvina Profita, candidata con la stessa lista civica di Rizzotto, che si era subito difesa sottolineando come tra lei e l’ex deputato Mpa ci fosse soltanto “un rapporto d’affetto”.
Le controversie sulle nomine di Lombardo sono continuate anche quando Amleto Trigilo è stato indicato come nuovo assessore ai Beni culturali a pochi giorni dalle annunciate dimissioni del governo. Trigilio è stato segnalato come uomo di Confindustria, ma il vicepresidente degli industriali Ivan Lo Bello ne ha preso immediatamente le distanze: “Sono pronto a querelare chi fa passare il messaggio di un coinvolgimento di Confindustria in queste manovre: Trigilio è un oscuro imprenditore associato a Confindustria, uno dei diecimila associati. Per quel che ne sappia, è uomo vicino al deputato Mario Bonomo, con il quale non abbiamo rapporti”.  L’onorevole Bonomo è esponente del Movimento popolare Siciliano. il partito nato da una costola del Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo.
Le nomine del governatore etneo non si sono fermate qui però. Dopo la promozione del suo ex capo di gabinetto Patrizia Monterosso a segretario generale della Regione, il governatore si è concentrato sulla sanità. L’obiettivo sembrerebbe quello di rendere duraturi gli incarichi che potrebbero invece decadere dopo le dimissioni del governatore. È forse per questo che Carmelo Pullarà, ex candidato sindaco di Licata con il Movimento per l’Autonomia, è stato promosso da commissario a dirigente dell’Arnas Civico di Palermo. Una promozione non da poco, visto che l’incarico di dirigente dura per tre anni.  Nuovi vertici anche per la Asp di Catania, Agrigento e Messina dove il presidente ha indicato nell’ordine Gaetano Sirna, Salvatore Messina e Manlio Magistri.
“Questo è l’ultimo atto di pirateria del governo Lombardo” ha commentato fuori di sé l’europarlamentare del Pdl Salvatore Iacolino. Le nomine dei nuovi manager, però, per diventare operative dovranno essere votate dalla commissione affari istituzionali dell’Assemblea Regionale Siciliana. La stessa commissione che non è ancora riuscita a far passare il decreto “blocca nomine”, l’inedita proposta di legge formulata con l’obiettivo di bloccare l’elargizione di incarichi di Lombardo a fine legislatura.
“Quella sulla nomine è una polemica strumentale e vergognosa, basata su falsità”, è  stata la reazione decisa del presidente Lombardo. “Su questa storia è stato montato volutamente un gran fracasso ed è stato deliberatamente rappresentato un sistema che potesse far gridare allo scandalo, quando, invece, facciamo solo il nostro dovere”. Addosso al governatore ora è precipitatala tegola dei fondi Fesr (fondo europeo per lo sviluppo regionale ): circa 600 milioni di euro congelati dall’Unione Europea per “irregolarità nell’assegnazione degli appalti e carenze significative nel funzionamento dei sistemi di gestione e controllo”. Il governatore ha assicurato che sarà adottata “ogni misura che riterremo adeguata a superare la difficoltà”. Promessa che non è bastata a Giampiero D’Alia, plenipotenziario dell’Udc sull’isola, che ha chiesto un intervento del governo nazionale per “commissariare la Sicilia e avviare una politica di risanamento”.
Oltre che all’Unione Europea, il tema degli appalti regionali in Sicilia sta interessando in questi giorni anche la procura palermitana che ha aperto un’indagine sui cosiddetti Grandi Eventi. Al centro dell’inchiesta coordinata dai magistrati Leonardo Agueci, Gaetano Paci e Maurizio Agnello è finito Fausto Giacchetto, project manager che avrebbe messo le mani su decine di milioni di euro di finanziamento per le campagne di comunicazione. A oggi gli indagati sarebbero otto tra imprenditori che si sarebbero aggiudicati appalti in maniera illecita e funzionari della Regione.
E sempre sui burocrati regionali si è focalizzata l’attenzione della Corte dei Conti che sta indagando su alcuni dipendenti che avrebbero gonfiato a dismisura le ore di lavoro straordinario. I magistrati contabili hanno anche sequestrato 70mila euro dal conto corrente di Emanuele Currao, un funzionario del dipartimento alla formazione, che li avrebbe sottratti dai fondi regionali per pagare i fornitori.   
Dopo la notizia dell’indagine sui grandi eventi, il governo regionale ha usato il pugno di ferro istituendo una commissione d’inchiesta e facendo sapere che “se qualcuno tra i funzionari della Regione dovesse avere sbagliato pagherà anche con il posto”. Alla fine dell’era Lombardo mancano 15 giorni. Dopo le dimissioni, il governatore ha annunciato che lascerà la politica dedicandosi all’agricoltura. “Potrei anche coltivare marjiuana” ha scherzato il presidente. Che prima delle canne, però, ha ancora il tempo per qualche nuova nomina last minute.

martedì 17 luglio 2012

Assolto l'ex ministro Saverio Romano era imputato di concorso esterno.


Assolto l'ex ministro Saverio Romano era imputato di concorso esterno


La sentenza è stata emessa dal Gup di Palermo, Fernando Sestito, che ha processato il leader del Pid con il rito abbreviato. La Procura aveva chiesto una condanna a 8 anni.


L'ex ministro delle Politiche agricole e leader del Pid, Saverio Romano, è stato assolto dall'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. La sentenza è stata emessa dal Gup di Palermo Fernando Sestito, che ha processato Romano con il rito abbreviato. Il Gup ha applicato la formula del secondo comma dell'articolo 530 del codice di procedura penale, che prevede l'assoluzione quando la prova manca, è incerta o contraddittoria. La Procura aveva chiesto la condanna di Romano a 8 anni.  Il verdetto dopo una camera di consiglio di meno di due ore.

"Finalmente è finita". Così Romano ha chiosato con i suoi legali, gli avvocati Raffaele Bonsignore e Franco Inzerillo, la sentenza. "Ho sempre confidato nella mia assoluzione - ha aggiunto - . Inutile nascondere la mia soddisfazione: sono stato assolto perché il fatto non sussiste. Ho sempre pensato che le sentenze si leggono e non si commentano. In me vi è però l'amarezza per i tempi lunghi della giustizia, che non sono compatibili con un Paese civile".
 
Numerosissimi i commenti, soprattutto dal Pdl.  "All'ex collega vanno le mie felicitazioni" ha commentato l'ex ministro Mariastella Gelmini -  La sua totale estraneità ai fatti è stata sancita oggi dopo mesi di strumentalizzazioni 
politiche e massmediatiche. Finisce un incubo che l'onorevole Romano ha saputo affrontare con grande dignità e coraggio". Analogo il commento di Maurizio Lupi, sempre del Pdl:  "L'accanimento nei confronti della sua persona era del tutto ingiustificato".  "Felicitazioni" da un altro ex ministro, Gianfranco Rotondi.

Esprime "soddisfazione" il segretario del Pdl Angelino Alfano. "La giustizia - dice - gli restituisce la meritata serenità. Resta l'ombra dell'accanimento mediatico e politico che ha subito per anni in modo ingiustificato e strumentale. Oggi più che mai ci si dovrebbe interrogare su come mai una persona, innocente fino al terzo grado di giudizio, rischia di essere condannata in via preventiva ancora prima del termine naturale del processo".

"Gli elementi c'erano, ma non sono stati ritenuti idonei per la condanna. Rispettiamo comunque ogni decisione". Così il procuratore Francesco Messineo ha commentato invece la sentenza. Messineo si sofferma, in particolare, sulla formula assolutoria utilizzata dal giudice, che richiama la vecchia insufficienza di prove. "La norma - dice il capo della Dda - stabilisce che il giudice pronuncia assoluzione anche quando manca, è insufficiente o è contraddittoria la prova. Questo significa che gli elementi c'erano, ma non sono stati ritenuti idonei a raggiungere la soglia del convincimento al di là di ogni ragionevole dubbio".


Meglio non commentare....anche se non nascondo una profonda delusione. Mi sento impotente, questa è l'unica sensazione che provo leggendo l'esito della sentenza.