lunedì 21 gennaio 2013

Caso Parma, il ruolo di Maroni. - Gianluca Di Feo



Dall'indagine che ha portato all'arresto dell'ex sindaco Vignali emergono gli accordi con l'allora ministro Maroni perché mandasse in città un prefetto che «non rompesse le palle».

Un prefetto su misura, per evitare che gli scandali venissero a galla. E così anche la carica più importante, quella che rappresenta lo Stato sul territorio, viene trasformata in uno strumento dei giochi della politica più becera. Il tutto, stando all'atto d'accusa della procura di Parma, grazie alla connivenza dell'allora ministro dell'Interno Roberto Maroni, ora candidato del centrodestra alla guida della Regione Lombardia.

Il capitolo più inquietante dell'ordinanza che ha fatto finire agli arresti domiciliari l'ex sindaco Pietro Vignali riguarda proprio le manovre per ottenere la designazione di un prefetto "in sintonia" con la giunta di centrodestra. Nei bilanci della città emiliana si stava già materializzando un buco colossale, frutto di appalti insensati e spese allegre, e Vignali temeva che l'arrivo di un prefetto "spacabal" avrebbe fatto esplodere la situazione. Secondo i magistrati assieme a Luigi Giuseppe Villani, consigliere regionale e uno dei leader del pdl emiliano, nella primavera 2010 il sindaco si concentra per ottenere la nomina di «una figura che potesse allinearsi alla loro volontà». 

I due si scambiano sms in dialetto. Villani scrive: «Bisogna cat stag atenti al nov prefet ca vena miga un spacabal», che tradotto dal padano significa: «Bisogna che stai attento al nuovo prefetto che non venga mica un rompiballe». E il 19 aprile 2010 il sindaco chiama Villani e gli riferisce di «aver parlato con Maroni il quale gli aveva chiesto di segnalargli qualcuno per il posto di prefetto a Parma che sarebbe stato sostituito a maggio». 

A metà maggio tornano a discutere della questione, fondamentale per il destino del centrodestra parmense. Villani chiede al primo cittadino «quale era il nome suggerito da Maroni per l'incarico di prefetto. Villani diceva Francesco Russo e che poteva andare bene anche quello di Piacenza, tale Viana». Il 19 maggio il sindaco dice che «Maroni lo aveva appena chiamato e che il giorno successivo il consiglio dei ministri nominava il prefetto di Parma. Pietro diceva di anticiparlo al candidato, in maniera che capisse che erano stati loro a fare il suo nome così da "mettersi in linea subito"». 


Il 20 maggio è il primo cittadino a contattare il prefetto di Piacenza Viana e dirgli «dell'ipotesi della sua nomina a prefetto di Parma. Vignali gli comunicava che il suo nome lo aveva consigliato al ministro Maroni, anche su indicazione di Villani». Poi il primo cittadino manda un sms a Villani: «Finito adesso con il prefetto, tutto a posto. Gli ho letto un po' di patti e gli anche detto che tu hai un rapporto personale, forte con Letta e Maroni».

La coppia di notabili parmensi non millanta. Nell'inchiesta i i magistrati hanno ricostruito come il sindaco stesse tessendo «una serie di rapporti con politici nazionali utili per varie finalità. Ciò si evince dal ricorso diretto a cariche istituzionali di spessore, ovvero i rapporti diretti con il sottosegretario Gianni Letta, o indiretti, attraverso il ricorso al ministro Angelino Alfano e all'onorevole Nicolò Ghedini, o infine con il ministro Maroni, in occasione delle varie attività di indagine che hanno riguardato da vicino l'amministrazione comunale. In tale ottica va letto anche il rapporto con il ministro Maroni in occasione delle varie nomine del prefetto, del questore e del commissario straordinario».

Nelle intercettazioni sono infatti finite anche manovre, non si sa con quale esito, per cercare di condizionare la nomina del commissario di governo, incaricato di mettere ordine nel baratro dei conti cittadini traghettando il municipio verso le elezioni. L'incarico è stato poi assegnato a Anna Maria Cancellieri, attuale ministro dell'Interno.

Pur di rafforzare il suo potere, Vignali usa ogni strumento. Come fa in occasione della visita di Berlusconi a Parma, quando mette l'allora premier in contatto con l'escort Nadia Macrì «compiacendosene con la stessa». Insomma, un bel bordello, che adesso rischia di aprire un altro squarcio nei giochi di potere del centrodestra, tornato unito proprio nel sostenere la candidatura di Maroni al vertice della Lombardia.


http://espresso.repubblica.it/dettaglio/caso-parma-il-ruolo-di-maroni/2198591/24

Mafia: fondi europei al nipote di Benedetto Spera, boss siciliano.


Guardia di Finanza


La guardia di finanza ha scoperto che il parente del capoclan di Belmonte Mezzagno in provincia di Palermo aveva ricevuto 230mila euro di contributi comunitari per tre terreni che erano stati confiscati al padre nel 1997. Era riuscito a non comparire direttamente nella richiesta del finanziamento.

Era riuscito a ottenere fondi comunitari per tre terreni che erano stati confiscati al padre per mafia. Il nipote di Benedetto Speraboss di Belmonte Mezzagno (Palermo) – catturato nel 2005, condannato per associazione mafiosa e deceduto due anni più tardi – e figlio di Giuseppe Spera, aveva ricevuto finanziamenti europei per terreni confiscati a suo padre. Lo ha scoperto la Guardia di finanza di Bagheria, che su provvedimento del gip di Termini Imerese, al termine di un’indagine in collaborazione con il Servizio centrale di investigazione sulla criminalità organizzata (Scico), ha sequestrato tre fondi agricoli al responsabile della frode.
L’uomo, tra il 2004 e il 2009, aveva ottenuto contributi comunitari per un totale di circa 230mila euro per promuovere lo sviluppo di iniziative di impresa nell’agricoltura e nell’allevamento, su terreni che non erano più nella sua disponibilità perché confiscati al padre mafioso nel 1997 e dunque che non potevano ricevere aiuti europei. L’uomo, però, grazie a contratti fittizi di comodato stipulati con la complicità di un altro soggetto, era riuscito a non comparire direttamente nella richiesta del contributo.

sabato 19 gennaio 2013

Carinerie...



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LETTERA DI ORIANA FALLACI A GIANFRANCO FINI.



«Signor Vicepresidente del Consiglio, Lei mi ricorda Palmiro Togliatti. Il comunista più odioso che abbia mai conosciuto, l’uomo che alla Costituente fece votare l’articolo 7 ossia quello che ribadiva il Concordato con la Chiesa Cattolica.
E che pur di consegnare l’Italia all’Unione Sovietica era pronto a farci tenere i Savoia, insomma la monarchia. Non a caso quelli della Sinistra La trattano con tanto rispetto anzi con tanta deferenza, su di Lei non rovesciano mai il velenoso livore che rovesciano sul Cavaliere, contro di Lei non pronunciano mai una parola sgarbata, a Lei non rivolgono mai la benché minima accusa.
Come Togliatti è capace di tutto. Come Togliatti è un gelido calcolatore e non fa mai nulla, non dice mai nulla, che non abbia ben soppesato ponderato vagliato per Sua convenienza. (E meno male se, nonostante tanto riflettere, non ne imbrocca mai una). Come Togliatti sembra un uomo tutto d’un pezzo, un tipo coerente, ligio alle sue idee, e invece è un furbone. Un maestro nel tenere il piede in due staffe. Dirige un partito che si definisce di Destra e gioca a tennis con la Sinistra. Fa il vice di Berlusconi e non sogna altro che detronizzarlo, mandarlo in pensione. Va a Gerusalemme, con la kippah in testa, piange lacrime di coccodrillo allo Yad Vashem, e poi fornica nel modo più sgomentevole coi figli di Allah. Vuole dargli il voto, dichiara che “lo meritano perché pagano le tasse e vogliono integrarsi anzi si stanno integrando”.
Quando ci sbalordì con quel colpo di scena ne cercai le ragioni. E la prima cosa che mi dissi fu: buon sangue non mente. Pensai cioè a Mussolini che nel 1937 (l’anno in cui Hitler incominciò a farsela col Gran Muftì zio di Arafat) si scopre «protettore dell’Islam» e va in Libia dove, dinanzi a una moltitudine di burnus, il kadì d’Apollonia lo riceve tuonando: “O Duce! La tua fama ha raggiunto tutto e tutti! Le tue virtù vengono cantate da vicini e lontani!”. Poi gli consegna la famosa spada dell’Islam. Una spada d’oro massiccio, con l’elsa tempestata di pietre preziose. Lui la sguaina, la punta verso il sole, e con voce reboante declama: “L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta, vuole dimostrare al mondo la sua simpatia per l’Islam e per i musulmani!”. Quindi salta su un bianco destriero e seguito da ben duemilaseicento cavalieri arabi si lancia al galoppo nel deserto del futuro Gheddafi.
Ma erravo. Quel colpo di scena non era una reminiscenza sentimentale, un caso di mussolinismo. Era un caso di togliattismo cioè di cinismo, di opportunismo, di gelido calcolo per procurarsi l’elettorato di cui ha bisogno per competere con la Sinistra e guidare in prima persona l’equivoco oggi chiamato Destra.
Signor Vicepresidente del Consiglio, nonostante la Sua aria quieta ed equilibrata Lei è un uomo molto pericoloso. Perché ancor più degli ex democristiani (che poi sono i soliti democristiani con un nome diverso) può usare a malo scopo il risentimento che gli italiani come me esprimono nei riguardi dell’equivoco oggi chiamato Sinistra. E perché, come quelli della Sinistra, mente sapendo di mentire. Pagano-le-tasse, i Suoi protetti islamici?!? Quanti di loro pagano le tasse?!? Clandestini a parte, spacciatori di droga a parte, prostitute e lenoni a parte, appena un terzo un po’ di tasse! Non le capiscono nemmeno, le tasse. Se gli spiega che servono ad esempio per costruire le strade e gli ospedali e le scuole che anch’essi usano o per fornirgli i sussidi che ricevono dal momento in cui entrano nel nostro paese, ti rispondono che no: si tratta di roba per truffare loro, derubare loro. Quanto al Suo vogliono-integrarsi, si-stanno-integrando, chi crede di prendere in giro?!?
Uno dei difetti che caratterizzano voi politici è la presunzione di poter prendere in giro la gente, trattarla come se fosse cieca o imbecille, darle a bere fandonie, negare o ignorare le realtà più evidenti. Più visibili, più tangibili, più evidenti. Ma stavolta no, signor mio. Stavolta Lei non può negare ciò che vedono anche i bambini. Non può ignorare ciò che ogni giorno, ogni momento, avviene in ogni città e in ogni villaggio d’Europa. In Italia, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, in Germania, in Olanda, in Danimarca, ovunque si siano stabiliti. Rilegga quel che ho scritto su Marsiglia, su Granada, su Londra, su Colonia. Guardi il modo in cui si comportano a Torino, a Milano, a Bologna, a Firenze, a Roma.
Perbacco, su questo pianeta nessuno difende la propria identità e rifiuta d’integrarsi come i musulmani. Nessuno. Perché Maometto la proibisce, l’integrazione. La punisce. Se non lo sa, dia uno sguardo al Corano. Si trascriva le sure che la proibiscono, che la puniscono. Intanto gliene riporto un paio. Questa, ad esempio: “Allah non permette ai suoi fedeli di fare amicizia con gli infedeli. L’amicizia produce affetto, attrazione spirituale. Inclina verso la morale e il modo di vivere degli infedeli, e le idee degli infedeli sono contrarie alla Sharia. Conducono alla perdita dell’indipendenza, dell’egemonia, mirano a sormontarci. E l’Islam sormonta. Non si fa sormontare”. Oppure questa: “Non siate deboli con il nemico. Non invitatelo alla pace. Specialmente mentre avete il sopravvento. Uccidete gli infedeli ovunque si trovino. Assediateli, combatteteli con qualsiasi sorta di tranelli”.
In parole diverse, secondo il Corano dovremmo essere noi ad integrarci. Noi ad accettare le loro leggi, le loro usanze, la loro dannata Sharia. Signor Fini, ma perché come capolista dell’Ulivo non si presenta Lei?».
New York, gennaio 2004