domenica 3 luglio 2016

Giove 'si fa bello' per Juno, con un'aurora brillante.

L'immagine dell'aurora polare di Giove ottenuta combinando le immagini nell'ottico e nell'ultravioletto (fonte: NASA, ESA)

Fenomeno spettacolare come la grande macchia.


Giove 'si fa bello' in vista dell'incontro con Juno, la sonda della Nasa che all'alba del 5 luglio entrerà nella sua orbita per osservarlo da vicino come nessuna missione spaziale ha mai fatto. Il pianeta gigante sta infatti sfoggiando una bellissima aurora polare, particolarmente brillante, fotografata dal telescopio spaziale Hubble. 

In questo modo Hubble prepara la strada al programma di osservazione che si prepara a condurre insieme a Juno, destinata a studiare in dettaglio l'atmosfera del più grande pianeta del Sistema Solare. Le foto dell'aurora, scattate nell'ultravioletto, sono appena arrivate a Terra e sono spettacolari quanto quelle della celebre grande macchia rossa. Sono prodotte dall'incontro di particelle elettricamente cariche con il campo magnetico del pianeta.

Quando Juno sarà nell'orbita di Giove, Hubble continuerà a osservare e misurare le aurore, mentre la sonda misurerà le caratteristiche del vento solare. "Quelle di Giove sono le aurore più attive mai viste e sembra quasi che il pianeta stia preparando una festa con fuochi d'artificio per l'arrivo di Juno", ha osservato il responsabile scientifico della ricerca, Jonathan Nichols, dell'università britannica di Leicester. 

Viste per la prima volta nel 1979, dalla sonda Voyager 1, le aurore di Giove sono state nuovamente osservate nel 2000 dalla sonda Cassini, nata dalla collaborazione fra Nasa, Agenzia Spaziale Europea (Esa) e Agenzia Spaziale Italiana (Asi). Solo adesso, però, sono state ottenute le loro immagini più dettagliate. E' possibile determinare, per esempio, che occupano una superficie più vasta della Terra e che sono centinaia di volte più ricche di energia di quelle osservate sul nostro pianeta.

venerdì 1 luglio 2016

Brexit: il vero smacco è che si riveli fruttuosa. - Alberto Bagnai

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Ci siamo lasciati il 16 giugno dicendoci che la Brexit, comunque andasse, sarebbe stata un insuccesso per Bruxelles. 
Minacciando di ritorsioni uno stato che intendeva avvalersi del diritto di recesso previsto dal Trattato di Lisbona, i vertici delle istituzioni europee confessavano vuoi la loro intenzione di non far rispettare un patto sottoscritto, del quale essi sono garanti, vuoi che questo patto contiene clausole inapplicabili, perché destabilizzanti, e quindi va ripensato. 
Quanto ai nostri amici tedeschi, primo fra tutti il ministro Schäuble, si sono messi come al solito in un vicolo cieco: se attuano le loro minacce danneggiano sopratutto la loro economia, la più legata a quella britannica, e fanno capire agli altri membri che l’UE più che a un club somiglia a un lager; se non le attuano diventano poco credibili. Niccolò Machiavelli, o John Nash, che in tempi diversi hanno studiato la teoria dei giochi strategici, si rivoltano nelle rispettive tombe. Ora l’evento si è verificato.
Ricordiamo intanto che quello svolto è un referendum consultivo, al qualre dovrebbe seguire una domanda formale di recesso da parte del governo britannico. Quando e se questa sarà inoltrata, si avvierà la procedura, lunga due anni, nel corso dei quali avremo tempo di tornare sui tanti dettagli tecnici. 
Intanto, però, una cosa è certa: la prima vittima della Brexit rischia di essere la credibilità degli economisti. I due mesi precedenti al referendum hanno visto un florilegio di appelli accorati da parte di colleghi che unanimi prevedevano catastrofi in caso di Brexit. 
Ma qual è la base fattuale di queste profezie?  All’ultimo seminario di Villa Mondragone, organizzato dalla Fondazione Economia Tor Vergata, Jürgen Matthes, dell’Istituto per la ricerca economica di Colonia, ha presentato uno studio sugli effetti della Brexit che considera tutte le simulazioni disponibili. 
La conclusione è che secondo i modelli economici ortodossi il costo della Brexit in media sarebbe relativamente contenuto, sull’ordine del 2% del Pil su una decina d’anni: la metà di quello che il Regno Unito perse nel solo 2009, recuperando la perdita in tre anni. 
Ma allora, perché gli economisti ortodossi sono così catastrofisti? Credo che le risposte possano essere solo due: o non credono ai loro stessi modelli (ma allora, come con i Trattati, basterebbe migliorarli), o qualcuno suggerisce loro di non crederci.
In effetti, che fra i circoli finanziari, visibilmente i più preoccupati dalla Brexit, e quelli accademici possano esistere delle “sinergie” non appare un’ipotesi astrusa, e in linea di principio non ci sarebbe nulla di male, anzi. 
Una sana interazione fra il mondo della teoria e quello della prassi può senz’altro rinvigorire entrambi. Questo purché si conservi autonomia di giudizio. 
Sul Financial Times del 15 giugno Chris Giles ha notato che se l’abbandono dell’UE si dovesse dimostrare vantaggioso, gli economisti subirebbero uno smacco in confronto al quale la loro incapacità di prevedere la crisi del 2008 sembrerebbe una quisquilia. 
Sarebbe una grave perdita, in un momento nel quale occorre prendere decisioni cruciali, su una base possibilmente razionale. Permettetemi però di non fare di ogni erba un fascio. Gli economisti eterodossi la crisi del 2008 l’avevano prevista e come! Hanno fallito, e si accingono a fallire nuovamente, gli autoproclamati ortodossi: sì, proprio quelli che non credono ai loro modelli. E almeno su questa sfiducia possiamo certamente concordare con loro.
Da Il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2016

Attenzione! Vale anche per Twitter, Google, e altro.....

Brexit, populisti o democratici a chi? - Luisella Costamagna

Brexit, populisti o democratici a chi?

Comunque la si pensi, la Brexit un merito lo ha di sicuro: imporci un cambio di prospettiva, farci vedere le cose da un altro, spiazzante punto di vista.
Populista chi? Ammesso e non concesso che il temine “populismo” – cioè attenzione al popolo e alle sue esigenze, esaltazione dei suoi valori – sia necessariamente negativo, sono più populisti l’Ukip e i conservatori pro Leave, che hanno cavalcato i sentimenti antieuropei e soprattutto anti-immigrazione; oppure Cameron, che ha promosso il referendum sull’uscita dall’Ue nel 2014 (all’indomani del successo di Farage alle Europee), lo ha promesso per vincere le elezioni nel 2015 e poi lo ha realizzato nel 2016, non prima di aver cercato di disinnescarlo, ottenendo da Bruxelles trattamenti speciali su welfareimmigrazione,politica economica e finanziaria? Non è populista un premier che usa un referendum così importante per mero calcolo politico interno (essere rieletto contro gli euroscettici dentro e fuori il suo partito)? Solo che poi il popolo ha scelto altrimenti.
Disastro quale? L’uscita dall’Ue o la permanenza nell’Ue? Non sappiamo ancora quali saranno le conseguenze reali del Leave, che peraltro avverrà non prima di due anni, ma gli economisti – gli stessi che hanno già dato pessima prova di sé, non prevedendo la crisi globale e non formulando ricette efficaci per uscirne – ipotizzano scenari nefasti. In compenso, i cittadini europei conoscono perfettamente i costi del Remain, con tutti i sacrifici insiti nelle politiche di austerity: licenziamenti, tagli delle pensioni, riforme del lavoro con abolizione di diritti, vincoli alle imprese… In Italia la legge Fornero, il bail-in, il Jobs Act, i paletti al Made in Italy agroalimentare. La Grecia, che giusto un anno fa disse no al piano dei creditori internazionali per poi alzare bandiera bianca, continua ad avere il debito pubblico e il tasso di disoccupazione più alti d’Europa (24,2%).
Cattivi chi? L’Ue o i governi nazionali, che vendono alle rispettive opinioni pubbliche decisioni che hanno concorso a prendere? Che tagliano l’art. 18 “perché l’Europa ce lo chiede, ma non realizzano il reddito di cittadinanza anche se “l’Europa ce lo chiede”? Sono cattivi ed egoisti i cittadini britannici, che scelgono l’exit perché spaventati dall’arrivo dei migranti, o la grande e civile Ue che non riesce a dimostrarsi solidale di fronte a una migrazione – e a una strage in mare – epocale, che non riesce a gestire l’arrivo di 250mila uomini, donne, bambini, mentre paesi ben più piccoli come Giordania e Libano fanno fronte a oltre 1 milione di profughi ciascuno?
Democratici chi? La Brexit è stata illuminante anche per capire la concezione della democrazia di molti nostri rappresentanti istituzionali e commentatori. Se la sono presa con gli elettori, rinnegando nei fatti il metodo democratico, con aberrazioni tipo: 
- “Ho paura che la democrazia si possa perdere se usata male” (Monti), 
“Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe esame di cittadinanza” (Gori)
Brexit. I limiti della democrazia diretta: il popolo è sovrano ma non necessariamente consapevole e sapiente” (Castagnetti), 
“Certo la democrazia diretta non è infallibile” (Lavia, L’Unità), 
“Si è creata un’assurda convinzione basata sul fatto che quello che viene deciso a maggioranza sia democrazia” (Zevi, giornalista). 
Fino alle apoteosi sul presunto voto dei vecchi britannici contro i giovani (in realtà solo 1 giovane su 3, il 36%, ha votato): “Invece di vietare il voto alla gente nei primi 18 anni di vita, perché non negli ultimi 18?” (Dini, Vanity Fair, ritwittato dall’ex Min. Melandri), 
e il capolavoro del docente di Demografia all’Università Cattolica di Milano Rosina, che ha parlato di “necessità di allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne su temi che condizionano soprattutto il futuro di quest’ultimo. Tanto più in un’Europa che invecchia”. Gli anziani (che per Rosina non hanno né figli né nipoti, dunque sono egoisti, meschini, al loro confronto Ebenezer Scrooge è un chierichetto) dovrebbero votare solo su pensioni, sanità ed eutanasia? 
Che sinceri democratici a giorni alterni: se il risultato è quello sperato gli elettori sono maturi e consapevoli, diversamente sono un branco di ignoranti; se c’è il referendum sulle trivelle “Astensione”, se c’è quello costituzionale “Al voto!”; se vince il sì “Trionfa la democrazia”, se vince il No “Trionfa il populismo”. ItExit.

Ma se il Brexit è un disastro, perché la Borsa di Londra vola? Qui qualche risposta. Controcorrente. - Marcello Foà


Se la Gran Bretagna fosse un Paese sull’orlo della catastrofe, la sua Borsa dovrebbe crollare. E invece se si esamina l’andamento delle Borse degli ultimi giorni emerge che i due listini ad aver retto meglio sono quello di Zurigo e proprio quello di Londra, che ha di fatto già recuperato le perdite.

Cosa significa? Significa che la salute delle aziende britanniche non è minacciata dal Brexit ovvero che gli investitori di Borsa pesano con minore emotività l’esito del referendum.
Si dirà: ma la sterlina è caduta! E le agenzie di rating hanno abbassato il valore dei titoli di Stato britannici. Nessuna sorpresa: la valuta è molto più volatile della Borsa e si presta molto di più ad attacchi speculativi, che però sembrano essersi già fermati.
Quanto alle agenzie di rating sono le stesse che davano la tripla A ai mututi subprime e non sono proprio indipendenti; diciamo che sono da sempre molto sensibili agli interessi dell’establishment, quell’establishment che ha reagito con una rabbia forsennata al Brexit.

La realtà, come afferma Alberto Bagnai, è che la Gran Bretagna subirà una perdita marginale del Pil nei prossimi anni.
La realtà è che il processo del Brexit sarà lungo (almeno due anni e mezzo da oggi ma forse ci vorrà anche di più) e che Londra è troppo importante per il mondo finanziario che non si può permettere e non vuole nemmeno abbandonarla dall’oggi al domani.
La realtà è che la Gran Bretagna se ne esce dalla Ue, ma a crollare sono le Borse dei Paesi che restano nell’Unione.
Domanda impertinente: dove sono i veri problemi, a Londra o nella zona euro?

In Sicilia il primo impianto solare termodinamico al mondo.



A2A e il Gruppo Magaldi hanno inaugurato in Sicilia il primo impianto solare termodinamico “STEM” al mondo. L’impianto è stato realizzato all’interno del Polo Energetico Integrato di A2A, a San Filippo del Mela, in provincia di Messina. La struttura per la produzione di energia rinnovabile è il frutto della collaborazione tra A2A e il Gruppo Magaldi. Il nuovo impianto è installato in un complesso, il Polo Energetico Integrato del gruppo A2A, che ospiterà una graduale trasformazione verso produzioni energetiche alternative e moderne.
“Quello che inauguriamo oggi è il primo impianto solare termodinamico che consentirà lo stoccaggio dell’energia – ha detto l’amministratore delegato di A2A, Valerio Camerano, a margine dell’inaugurazione –. Si tratta di una produzione a base di energia solare con una tecnologia nuova che consentira’ non solo di ridurre i costi ma di conservare l’energia solare. Un progetto che coniuga tecnologia e sviluppo futuro”.  
“Questa si iscrive all’interno di altre iniziative che vogliamo effettuare all’interno di San Filippo del Mela con un investimento complessivo di 120 milioni di euro – ha aggiunto – Iniziative che riguarderanno altre innovazioni tecnologiche nella produzione di energia, non solo altro impianto classico ma un impianto che produrrà biogas e un altro che tendenzialmente produrrà rifiuti trattati”. Secondo Camerano si tratta dunque “di uno sforzo molto significativo di riconversione industriale di questo sito e che dara’ nuove tecnologie e nuove prospettive al territorio”.
La tecnologia STEM si caratterizza per l’ecocompatibilita’ dei materiali impiegati quali vetro per gli specchi, acciaio per le strutture e sabbia e non prevede l’impiego di olii diatermici o sali fusi. A San Filippo del Mela A2A ha programmato sviluppi progettuali ed investimenti che sono finalizzati alla continuita’ produttiva del sito industriale. Il Polo Energetico integrato prevede, oltre allo STEM, un impianto fotovoltaico, uno di digestione anaerobica con produzione di biometano, e un impianto per la produzione di energia da Combustibile Solido Secondario (CSS) per il quale è stato avviato l’iter autorizzativo.
“L’impianto di San Filippo del Mela affronta un processo di trasformazione graduale verso un Polo Energetico Integrato, con l’introduzione di nuove tecnologie d’avanguardia di produzione dell’energia e in linea con le migliori misure di tutela ambientale. L’inaugurazione dell’impianto solare termodinamico di oggi – sottolinea l’amministratore Delegato di A2A Valerio Camerano – si situa all’interno del percorso del piano Strategico di A2A che prevede rilevanti investimenti destinati allo sviluppo di generazione rinnovabile e alla riconversione di siti produttivi convenzionali verso soluzioni energetiche integrate,in linea con le sfide strategiche del settore. Siamo lieti della partnership con il Gruppo Magaldi”.

Rinnovabile e compostabile, il sacchetto del futuro per frutta e verdura è italo-francese.

Rinnovabile e compostabile, il sacchetto del futuro per frutta e verdura è italo-francese


A svilupparlo Gruppo Barbier e Novamont che hanno siglato partnership.


Realizzato da fonte rinnovabile, compostabile nella compostiera domestica. E' il nuovo sacco per frutta e verdura, alternativo alle buste in plastica tradizionale non biodegradabili e non compostabili. Il gruppo francese Barbier e Novamont hanno sottoscritto una partnership finalizzata alla messa a punto di questo nuovo tipo di sacco, denominato Ma-Ter-Bio (il sacco per la terra).
Si tratta di sacco di origine vegetale, in conformità ai dettami della legge francese e al suo decreto attuativo, totalmente compostabile in compostaggio domestico, ottenuto da amido e olio di girasole francesi. La percentuale di rinnovabilità del Ma-Ter-Bio è di almeno il 35%, ma può già essere già aumentata a oltre il 50%.
Il gruppo Barbier è il principale produttore nel mercato francese dei film plastici e sesto a livello europeo che, secondo i principi dell’economia circolare e della transizione energetica, sviluppa prodotti sia con materiali riciclati che con materiali biodegradabili e compostabili da più di 15 anni. Tutti i suoi prodotti sono contraddistinti dal marchio "origine France garantie".
Novamont è la società pioniera nel settore delle bioplastiche biodegradabili e compostabili da fonti rinnovabili. Fondata nel 1989, ha organizzato la sua crescita su un modello di sviluppo basato sulla bioeconomia e sull’economia circolare e da oltre 25 anni opera per offrire soluzioni in bioplastica biodegradabile da fonti rinnovabili, alternative alle plastiche tradizionali da fonti fossili, anche attraverso la messa a punto di un modello di raccolta e gestione dei rifiuti organici che tornano ad essere risorsa attraverso il compostaggio.
Oggi Novamont è il primo produttore di questi nuovi materiali plastici con la sua famiglia di bioplastiche Mater-Bi e una capacità produttiva annua di 150.000 tonnellate. Fedele alla sua filosofia, Novamont ha aperto la filiale francese nel 2006 per essere più vicina al mercato nazionale e agli sviluppi in atto con la legge sulla transizione energetica.
Per questo motivo è stato sottoscritto un accordo di collaborazione con una società francese e sono state poste le basi per l’approvvigionamento di materie di produzione locale. Un primo passo verso la realizzazione di una realtà produttiva sul suolo francese. Novamont in Italia ha rivitalizzato 5 siti deindustrializzati o in corso di smantellamento.